Nuova tragedia del mare. Il vescovo di Agrigento: non chiudere la porta al diritto
di vivere
Mezzi del comando aeronavale della Guardia di Finanza sono impegnati da questa mattina
nelle ricerche delle vittime dell'ultimo naufragio che sarebbe avvenuto nel Canale
di Sicilia. Secondo il racconto di cinque superstiti di nazionalità eritrea, tra cui
una donna, soccorsi ieri al largo di Lampedusa, 73 immigrati sarebbero morti di stenti
e i loro corpi abbandonati in mare. Ieri le autorità maltesi hanno confermato l’avvistamento
di sette cadaveri non recuperati perchè in acque libiche. Dell’ennesima tragedia del
mare, Fausta Speranza ha parlato con la portavoce dell’Alto Commissariato Onu
per i rifugiati, Laura Boldrini:
R. - Abbiamo
dei colleghi a Lampedusa che sono stati presenti sul molo quando sono arrivate queste
persone e hanno raccolto le loro testimonianze. Queste persone viaggiavano su un gommone
ed era strano che ci fossero solo cinque persone su un gommone che normalmente viene
stipato all’inverosimile quando parte dalla Libia. Tutti quanti, e non solo una persona,
hanno raccontato di essere partiti molti giorni prima e poi dopo due giorni di aver
perso la rotta perché chi era al timone non aveva alcuna esperienza, come spesso accade.
Girando a vuoto, poi, il carburante che avevano a disposizione è terminato. Dopo poco
purtroppo sono terminati anche l’acqua e i viveri che avevano e, quindi, sono stati
in balia delle onde per giorni. La cosa allarmante è che in questi giorni parecchie
imbarcazioni li hanno visti. Queste persone hanno tentato di attirare l’attenzione
gridando aiuto. Solo una di tutte le imbarcazioni, cinque, sei giorni fa, ha dato
loro un po’ di acqua e un po’ di pane ma senza lanciare l’allarme. Quindi, quello
che emerge è quasi che si avesse paura.
D. – Il Mediterraneo
è culla di civiltà da secoli. Che cosa sta succedendo?R. – Sta succedendo che, di
fatto, c’è molta confusione, molto timore che frena dal soccorrere anche tra gli stessi
pescatori: timore di essere bloccati nelle attività, timore perché non si sa poi dove
queste persone devono essere consegnate, timore che dando l’allarme poi si rimanga
bloccati in attesa che arrivino i corpi dello Stato. Quindi, tutto questo purtroppo
sta scoraggiando i pescatori e i cargo dal fare il soccorso in mare. Noi, come Alto
Commissariato Onu per i rifugiati, nel 2007 abbiamo indetto proprio un premio, “Il
premio per mare”, per incoraggiare questo tipo di attività.
D.
– La traversata verso l’Italia parte dalle coste libiche. Che cosa si è cercato di
fare, che cosa la politica ha cercato di fare e che cosa in realtà è stato fatto?
R.
– Diventa di una certa consistenza dall’inizio degli anni 2000. Prima c’erano altre
rotte via mare, in particolare c’era quella dai Balcani verso la Puglia e la Calabria.
In questi anni abbiamo assistito a tante morti, a tante sciagure in mare, a tante
tragedie. Anche la sciagura di ieri tocca in gran parte eritrei e queste popolazioni
- i somali, gli eritrei - rischiano la vita su queste imbarcazioni prima di averla
già rischiata nel deserto, per trovare un posto dove vivere in sicurezza e in pace.
Lo scorso anno il 75 per cento di chi è arrivato via mare sulle coste italiane ha
fatto domanda d’asilo e lo Stato italiano dopo un’attenta valutazione dei casi individuali,
quindi dopo aver fatto delle audizioni, ha riconosciuto a circa il 50 per cento di
queste persone il bisogno di protezione, quindi il diritto ad avere un permesso di
soggiorno per motivi d’asilo o per protezione sussidiaria. Quindi, vale a dire che
il Mediterraneo negli ultimi anni si è attestato come ‘via dell’asilo’ ed è per questo
che la politica dei respingimenti messa in atto dall’attuale governo suscita molte
preoccupazioni, proprio perche ci sono alte probabilità che su quei gommoni, su quelle
carrette del mare, ci siano persone che hanno bisogno di protezione.
La
morte di immigrati che cercavano di raggiungere la Sicilia rappresenta "una grave
offesa all'umanità e al senso cristiano della vita". E’ il commento di mons. Schettino,
presidente della Commissione episcopale per le migrazioni. Il vescovo di Agrigento,
mons. Francesco Montenegro, nell’intervista di Fausta Speranza, raccomanda
innanzitutto di non ricordarsi del drammatico fenomeno della migrazione su carrette
del mare solo in presenza di grandi numeri:
R. – Primo,
ho da dire che "non dobbiamo spaventarci" davanti ai grandi numeri perché ci sono
altri piccoli numeri a cui nessuno fa caso e il Mar Mediterraneo è diventato una tomba,
ormai. Noi alziamo le mani soltanto quando abbiamo 70, 80 morti. Chissà quanti poveri
cristi sono morti ogni giorno in mare! Questa è una prima reazione che ho. La seconda
è il dolore nel vedere che gli uomini, per poter vivere, debbano affrontare la morte
e devono morire perché hanno voglia di vivere un po’ meglio e un po’ di più. Assurda
una legge che chiude porte e finestre e non tenga conto della situazione e della sofferenza
di tanta gente. Che altro può dire una Chiesa? Ma io non credo che sia un problema
della Chiesa di Agrigento, è un problema di tutta la Chiesa italiana, ed è un problema
della Chiesa europea.
D. - Sembra che in questo momento
si sia diffusa molto tra marinai, tra persone di mare la paura, il timore di soccorrere
queste navi…
R. - Non è il frutto della cultura dell’allontanamento
e della non-accoglienza? A furia di respirare quest’aria, si assumono questi atteggiamenti.
Ma è la filosofia e la politica che si stanno portando avanti: creare un clima di
paura, e questo assicura che loro possono morire come animali in mezzo al mare e noi
abbiamo risolto i nostri problemi.
D. - Qual è invece
la parola di un’umanità vera?
R. – Che davanti a
un uomo non possiamo chiudere le porte. Ogni uomo ha diritto di vivere e dobbiamo
chiederci che cosa possiamo fare perché quell’uomo viva. I diritti umani, perché ci
sono? Perché festeggiamo gli anniversari dei diritti umani che dicono che un uomo
ha diritto a spostarsi quando la vita non gli è possibile o quando la politica non
gli permette una vita serena? Partiamo dai diritti umani, poi arriviamo anche al Vangelo
e poi arriviamo all’accoglienza come necessità, come dovuta, e non come scelta.