Hillary Clinton conferma il sostegno Usa alla Somalia
Un chiaro sostegno al governo di transizione in Somalia e un ulteriore contrasto ai
gruppi estremisti islamici, ritenuti vicini ad al-Qaeda. Sono alcuni dei risultati
emersi dall’incontro ieri a Nairobi, in Kenya, tra il segretario di Stato americano
Hillary Clinton, in visita in Africa, e i vertici della Somalia. Oggi il capo della
diplomazia statunitense è in Sudafrica, dove ha chiesto riforme politiche ed economiche
per lo Zimbabwe. Alla luce dell’incontro tra la Clinton e il presidente somalo Sheikh
Sharif Ahmed, avvenuto ieri a Nairobi, quale importanza assume il viaggio in Africa
del segretario di Stato americano? Stefano Leszczynski lo ha chiesto a Mario
Raffaelli, esperto di Africa del G8:
R. – Il Corno
d’Africa, al crocevia di tendenze politiche, culturali e religiose, al crocevia fra
il mondo africano e quello arabo, è una regione strategica anche per la sua collocazione.
Quindi ci sono interessi e problemi che attraversano le frontiere legati al traffico
di droghe, al flusso degli immigrati. E’ una delle aree con le più grandi immigrazioni
interne e punto di partenza per le migrazioni verso l’Europa. E’ un’area delicatissima
che interessa particolarmente il mondo occidentale, europeo in primo luogo, anche
perché quello che accade qui ha dei riflessi immediati per la contiguità assoluta
fra quest’area e il Mediterraneo e l’Europa. D. – La promessa
di interventi a tutto tondo dell’amministrazione americana sull’Africa potrebbero
segnare un punto di svolta nella storia recente del Continente? R.
– Penso di sì, perché intanto questo viaggio dimostra come l’Africa sia una priorità
della nuova amministrazione americana. Ed è anche un modo nuovo di affrontare i problemi,
nel senso che è più presente la connessione che c’è tra le questioni di sicurezza,
le questioni militari e quelle politiche. Quindi, se da un lato si dà supporto anche
di natura militare, di intelligence, al governo somalo, dall’altra si insiste sulla
necessità di un processo politico che deve andare avanti e diventare più inclusivo.
In più, probabilmente, c’è anche l’esigenza di bilanciare in qualche modo l’influenza
crescente che la Cina ha nel Continente. Quindi in questo contesto rientra anche una
strategia più ampia nei confronti della Cina. D. – Cos’è che
rende diverso questo presidente somalo e questo tipo di governo di transizione dagli
altri esperimenti che sono stati fatti? R. – Questo presidente
è diverso perché proviene dal mondo islamico. Com’è noto, lui era uno dei due leader
durante i sei mesi del periodo delle corti islamiche a Mogadiscio nel 2006, quindi
legato anche ai successi che sono stati riconosciuti in termini di stabilità e di
sviluppo in quei sei mesi dell’area sotto il loro controllo. E dall’altra, appunto,
la possibilità di portare un dibattito all’interno del mondo islamico, confrontando
queste due opzioni di un mondo islamico moderato, che persegue i suoi obiettivi, in
un contesto però di rispetto e di dialogo con le altre componenti religiose e politiche
nei confronti dei movimenti radicali. Purtroppo si è perso del tempo, da quando l’accordo
a Gibuti è stato siglato fino alla sua implementazione. Questo ha modificato la situazione
sul campo. Rappresenta ancora, però, l’unico punto di partenza possibile per un’inversione
di questa tendenza pericolosa.