Al Festival di Locarno di scena la Via Crucis di Cerveno
Nella vivace e curiosa sezione Ici et ailleurs del Festival del Film di Locarno viene
presentato oggi il terzo capitolo che Elisabetta Sgarbi ha voluto dedicare alla scultura
sacra. Dopo il film sui Compianti emiliani e quello girato al Sacro Monte di Varallo,
L’ultima salita, La Via Crucis di Beniamino Simoni ci porta all’interno delle cappelle
del Santuario della Via Crucis a Cerveno, in Val Camonica. Una esperienza visiva di
grande suggestione in cui le statue di Simoni prendono vita accompagnandoci, in una
ricchezza di volti e di particolari, sulla via dolorosa. Il servizio di Luca Pellegrini:
E’ il gran
teatro del mondo, quello che Beniamino Simoni evocò scolpendo dai pioppi della Val
Camonica quasi duecento statue da inserire nelle quattordici cappelle che costeggiano
la Scala Santa del Santuario della Via Crucis. Otto anni di lavoro febbrile, iniziato
nel 1752 e sospeso per incomprensioni col parroco locale. Lo sguardo di Elisabetta
Sgarbi, acuto, intelligente, curioso, si avvicina con prudenza alle statue di Simoni,
quasi ne temesse una iraconda reazione: le scruta dal basso, le avvolge, le sovrasta,
le coglie di sorpresa da dietro. Infonde loro la vita che non hanno, mentre l’evocativo
commento musicale di Franco Battiato spesso precipita nel silenzio. Il film si avvale
della fotografia caravaggesca di Daniele Baldacci, del montaggio prezioso di Luciano
Marenzoni, della voce rapinosa di Toni Servillo, che legge, con discrezione di tempi
e di modi, testi di Vittorio Sgarbi, Giovanni Testori, Erri De Luca, Remo Bodei, Emanuele
Severino, Tahar Ben Jelloun. Abbiamo chiesto alla bravissima regista quali sono gli
strumenti che hanno reso possibile "vivificare" la materia inanime delle figure che
popolano le cappelle del Simoni. Elisabetta Sgarbi: R.
- Sono gli stessi che ha utilizzato in questo progetto, che è una trilogia sulla scultura
sacra, che parte dai “Compianti” in terracotta in Emilia Romagna, con il Pianto della
statua, continua con il Sacro Monte di Varallo con “Non chiederci la parola” e si
chiude con “L’ultima salita”. E mi è stato chiaro fin dall’inizio, in questa trilogia,
che è stata a Locarno, anche nei precedenti episodi, che usando uno strumento che
normalmente viene utilizzato negli studi televisivi e vivacizzando ciò che è in una
situazione di staticità, si poteva in qualche modo creare un movimento a queste statue,
che, nella Via Crucis di Simoni, si trovano raccolte in piccole cappelle.
D.
- Nella tradizione religiosa dei secoli passati, uno dei "capitoli" insegnati e tramandati
era quello della preparazione alla "buona morte", dell'incontro con il Cristo risorto:
è riuscita a leggere e cogliere tale pratica nella "salita" descritta dal film?
R.
- Io credo che ogni Via Crucis apra la porta della nuova vita e quindi ogni rappresentazione
sacra in tal senso apre a questa nuova vita, a partire dalla buona morte. E nel caso
specifico, Simoni ci fa vedere l’uomo, quell’uomo che è sempre pronto a offendere
un altro uomo, ma che ad un certo punto si troverà faccia a faccia con una nuova dimensione
di vita e dove dovrà fare i conti con quel dolore che ha procurato ad un uomo, ad
altri uomini.
D. - Secondo lei come riesce il film
a parlare allo spettatore laico che non vive da credente il dramma della Passione
di Cristo e non ha alcuna dimestichezza con la Via Crucis?
R.
– Ho voluto proprio coinvolgere degli scrittori, dei filosofi non sempre credenti,
che comunque affrontano questa Via Crucis, e pure uno scrittore musulmano come Tahar
Ben Jelloun, quindi di altra religione, che descrive ciò che vede. Anche laddove non
c’è un supporto della fede, c’è però un coinvolgimento molto forte per quello che
riguarda il tema del dolore. Quindi, ognuno di essi si trova coinvolto in una partecipazione
emotiva, che è il racconto della sofferenza, che poi è un fatto che riguarda tutti
gli uomini.