In stallo la crisi istituzionale dell'Honduras, diviso tra due presidenti: l'impegno
Usa per un'intesa
È altissima la tensione in Honduras. Ieri il presidente deposto, Manuel Zelaya, è
tornato davanti alla frontiera Nicaraguense, dopo che il giorno prima aveva superato
i varchi e sostato per alcune ore nel suo Paese. Il gesto, sebbene l’ex capo di Stato
abbia avuto parole concilianti, rischia di far precipitare ulteriormente la situazione,
visto che il presidente de facto Micheletti aveva minacciato di far arrestare Zelaya
se fosse rientrato. Nel frattempo, dall’altra parte del confine, in territorio honduregno,
si sono tenute nuove manifestazioni pro Zelaya durante le quali uno dimostranti è
stato ucciso dalla polizia. Preoccupazione per la situazione è stata espressa dal
segretario di Stato americano, Hillary Clinton, che auspica il raggiungimento di un’intesa.
C’è a questo punto ancora spazio per il dialogo tra le due parti? Giancarlo La
Vella lo ha chiesto al nostro collega Luis Badilla, esperto di America
Latina:
R.
– Ritengo che spazio per il dialogo ci sia sempre, però si dovrebbero evitare gesti
clamorosi da parte del governo ad interim e soprattutto da parte del presidente Zelaya.
Come ha detto la signora Clinton, il tentativo dell’ex presidente di sostare un paio
di ore in territorio honduregno, è stato davvero una cosa pericolosa. Forse lui cerca
di diventare una sorta di simbolo, ma se fosse così potrebbe bloccare qualsiasi ulteriore
possibilità di dialogo. Tra l’altro, anche un ex presidente dell’Honduras, Maduro,
sta tentando una terza via per arrivare a quella che sembra essere la soluzione: le
elezioni presidenziali già prefissate per il 29 novembre, che potrebbero consentire
allo stesso Zelaya di ripresentarsi. D. – Parliamo di quello
che può fare, a questo punto, la comunità internazionale. Basterà la minaccia di sanzioni
economiche? R. – Da parte della comunità internazionale c’è
un ammorbidimento delle posizioni nei confronti del governo ad interim, anche perché,
con il passare dei giorni, si iniziano a capire meglio le ragioni di quello che è
successo. Ad ogni modo, questa comunità internazionale – soprattutto usando lo strumento
del sostegno economico, non dell’embargo ma dell’aiuto fattivo – potrebbe avere un
ruolo determinante in una soluzione negoziata che consenta il rispetto dei diritti
delle due parti. Tutto questo, però, nella cornice della Costituzione, perché il centro
del problema honduregno è il rispetto della Carta costituzionale, anche nel caso –
come voleva il presidente Zelaya – di un’eventuale modifica. D.
– Proprio sul rispetto della Costituzione sono intervenuti, nei giorni scorsi, i vescovi
honduregni. A questo punto, la Chiesa locale può avere un importante ruolo di mediazione? R.
– Sì, questo ruolo lo può avere e direi che lo sta avendo, perché si comincia a capire
che il ragionamento fatto dai vescovi è quello giusto. Non si risolve un’illegalità
con un’altra illegalità. La via maestra, a questo punto, è il ritorno al dettato costituzionale,
da rispettare sia da parte del governo ad interim sia da parte del governo che è stato
rovesciato. I vescovi, i parroci, parlano di questo alla gente: dicono che occorre
trovare nel dialogo e nelle regole, rifiutando la violenza, le vie per risolvere il
conflitto. Il Paese ha un bisogno urgente di questa risoluzione perché l’Honduras
è poverissimo, allo stremo dal punto di vista economico. Più del 50% della popolazione
è al di sotto del livello di povertà. Non è quindi solo una questione politica, ma
è anche una questione che riguarda la sopravvivenza dei cittadini di questa nazione.