Sud del mondo e G8, l'opinione dell'economista Riccardo Moro
“Il futuro dell’Africa appartiene agli africani”. Il recente viaggio nel continente
da parte del presidente Usa, Barack Obama, ha rilanciato il tema della assunzione
di responsabilità da parte dei popoli dell’Africa per favorire uno sviluppo più intenso
delle economie locali. A spaventare la comunità internazionale sono però i dati sulla
diffusione della fame e della povertà resi pubblici dagli istituti specializzati delle
Nazioni Unite, Fao e Pam in testa: oltre un miliardo di persone nel mondo soffre la
fame. Molti dei più poveri si trovano proprio in Africa e a loro è stata dedicata
parte dei lavori del recente G8 de L’Aquila, con il risultato di nuove promesse finanziarie
- circa 20 miliardi di dollari - da parte dei Paesi ricchi e la riconferma degli impegni
assunti in passato per combattere la povertà. A Riccardo Moro economista esperto
in questioni del sottosviluppo, Stefano Leszczynski ha chiesto un commento
sulla disparità tra gli interventi finanziari in favore delle economie ricche e di
quelle più povere.
R. - Se si
misura quanto i Paesi ricchi hanno investito, arriviamo ad una cifra di 5 mila miliardi
di dollari, che è stata annunciata con molta enfasi durante il vertice del G20 svoltosi
a Londra, lo scorso marzo. Qui stiamo parlando invece di 20 miliardi: 5 mila contro
20 sono evidentemente una differenza enorme. Va benissimo investire nel Nord del mondo,
ma se c’è una capacità di mobilizzare così tanti denari e così in fretta per la crisi
nel Nord del mondo, dovrebbe esserci analoga capacità a investire ancora di più nel
Sud del mondo. La seconda considerazione è quella sull’ammontare di questi miliardi:
in realtà, non sono affatto 20 miliardi nuovi, ma sono quei miliardi presi ogni anno
dallo sviluppo e quest’ammontare è un ammontare che ogni anno è largamente inferiore
e inadeguato alle promesse degli anni precedenti.
D.
- Si sente dire spesso che gli effetti della crisi ancora dovranno avvertirsi nei
Paesi in via di sviluppo. La decisione di puntare sullo sviluppo agricolo e quindi
sui piccoli contadini per garantire quella che viene definita la “food security” è
per lei un metodo valido?
R. - La dimensione dell’agricoltura
è fondamentale ed è fondamentale quella non della grande industria agricola, ma quella
dei piccoli contadini. E’ l’esperienza dei tanti che in questi anni hanno lavorato
nel Sud del mondo e hanno dimostrato che se si investe sulla dimensione della produzione
locale per soddisfare i consumi locali e non la vendita all’estero, probabilmente
riusciamo a suscitare un aumento del mercato interno che consente anche un più facile
reinvestimento delle risorse che si producono.
D.
- Questo rappresenta un po’ un fallimento dell’ideale della globalizzazione dei mercati
globali, si tende insomma a ritornare al locale. Questo sarà possibile?
R.
- Io non credo che sia in alternativa la globalizzazione, nel senso che la globalizzazione
è una condizione per cui si possono muovere facilmente dei capitali, si possono trasferire
informazioni facilmente. Questo consente anche azioni più efficaci: ad esempio, di
trasferimento di capacità con costi minori, in tempi più rapidi. Inoltre, un investire
sui mercati locali non significa non avere più rapporti con l’esterno: significa piuttosto
lavorare laddove ci sono speranze più alte di risultati positivi, avendo in testa
la priorità degli ultimi, dei più vulnerabili, che fanno più fatica e non di quelli
che hanno già molte protezioni.