2009-07-15 15:25:21

Nuovi attentati in Afghanistan, mons. Vincenzo Pelvi riflette sulla morte del militare italiano e sul ruolo delle missioni di peacekeeping


Ennesima giornata di violenze in Afghanistan. Sei volontari ucraini e un bambino afghano sono morti nello schianto di un elicottero, che portava aiuti umanitari, abbattuto dalla guerriglia talebana nella turbolenta provincia di Halmand, dove è in corso l’offensiva senza precedenti delle truppe statunitensi e britanniche contro le roccaforti degli insorti islamici. A seguito dell’escalation dei combattimenti, il mese di luglio potrebbe diventare il più sanguinoso dall’inizio dell’intervento in Afghanistan nel 2001. Gli attentati di oggi allungano la drammatica lista di vittime del terrorismo, che sembra stritolare senza sosta l’Afghanistan. Massimiliano Menichetti ne ha parlato con Andrea Margelletti, presidente del Centro studi internazionali, raggiunto telefonicamente ad Herat:RealAudioMP3

R. - Esistono diverse realtà, che si rifanno certamente al movimento originario talebano: gruppi di signori della guerra, trafficanti di droga... Insomma, la situazione è assai più complicata di come può sembrare da qualche migliaio di chilometri di distanza. Ma pensare che l’Afghanistan sia un terreno di guerra generalizzato, dove tutti combattono contro tutti, è sbagliato. Ovviamente, le zone a maggioranza pashtun, dove i talebani hanno il loro principale bacino di reclutamento, sono quelle più a rischio. Anche nella stessa area di Aratta vi sono delle zone dove rispetto ad altre vi è una maggiore criticità ad operare. E’ necessario in questo Paese continuare ad operare per ridare a chi è ormai esausto da 30 anni di guerra un minimo di possibilità di ricostruire la propria vita.

 
D. - Cosa significa parlare di stabilizzazione in Afghanistan?

 
R. - Significa che il Paese deve tornare al più presto agli afghani. Vuol dire che i governi occidentali devono investire molto di più nella ricostruzione. Maggiore supporto alle forze di polizia, perché dovranno essere i locali a far vedere che lo Stato e non la Nato esiste ed è presente. Occorre sempre di più formare gli afghani, affinché loro si possano assumere le loro responsabilità nel loro Paese.

 
D. - Molti governi, non soltanto in Italia, discutono sulla necessità di far rimanere le proprie truppe in Afghanistan o meno...

 
R. - Bisogna mandare certamente più soldati, ma bisogna che le varie nazioni abbiano regole comuni. Bisogna che siano presenti in questo Paese nazioni che vogliano cooperare. Mi rendo conto che è difficilissimo, ma lo dobbiamo fare per il dovere e il rispetto che noi dobbiamo ai cittadini afghani. Quindi, più soldati, più soldi alla ricostruzione e tanto e più supporto alle forze locali.

 
Ed è previsto per domani il rientro in Italia della salma del caporalmaggiore, Alessandro Di Lisio, ucciso ieri dallo scoppio che ha investito il veicolo sul quale viaggiava nella zona di Farah, in Afghanistan. Oltre che da Benedeto XVI, ieri a Les Combes, messaggi di cordoglio alla famiglia del giovane sono arrivati anche dal presidente italiano, Giorgio Napolitano, e dal premier, Silvio Berlusconi. E sempre per domani è previsto anche il rientro dei tre commilitoni feriti nell'attentato, che saranno ricoverati all'Ospedale militare del Celio. Sulla tragedia che ieri ha colpito il contingente italiano, Luca Collodi ha sentito l'ordinario militare per l'Italia, l'arcivescovo Vincenzo Pelvi:RealAudioMP3

R. - Il primo momento di grande amarezza e di grande sofferenza di tutto l'Ordinariato militare, ma direi della Chiesa intera, ci ha spinto alla preghiera. Abbiamo celebrato la Santa Messa per Alessandro e abbiamo anche scelto il segno del digiuno. Nello stesso tempo, abbiamo chiesto al Signore il dono della pace e la consolazione per i familiari.

 
D. - Si può morire per una missione di pace?

 
R. - Si può morire per l’uomo, per la difesa della vita, per la dignità della persona. I nostri soldati scelgono di servire l’uomo e non escludono che nel servire la vita umana ci possa essere il paradosso evangelico realizzato concretamente: chi dona la vita per l’uomo è disposto a donarla fino alla fine. Allora, vediamo come i nostri militari abbiano questa grande solidarietà verso coloro che sono in una situazione di sofferenza, di indigenza. Possiamo affermare che il mondo militare oggi è segnato da un coraggio estremo.

 
D. - Papa Benedetto XVI nella sua Enciclica Caritas in veritate parla dell’esperienza del dono, del donarsi. Questo può essere valido anche per la vita militare, in una missione di pace?

 
R. - Il Santo Padre con la lettera Enciclica veramente incoraggia ogni forma e ogni gesto per concretizzare un’esperienza di dono. Leggerei oggi le missioni di pace non solo come un impegno politico-istituzionale-militare: le missioni di pace aiutano quello che il Santo Padre definisce lo sviluppo dei popoli secondo il pensiero di Dio e cioè lo sviluppo integrale, quindi non solo economico. I nostri militari, sostenuti dal cuore della nostra nazione, anche attraverso questi momenti di presenza in teatri operativi aspirano a costruire l’unica grande famiglia umana. Questa lettera Enciclica del Santo Padre, Caritas in veritate, diventa una lettura e un’impostazione meravigliosa anche delle missioni di pace, perché nel fenomeno della globalizzazione come ci dice il Santo Padre - che non è da intendersi unitamente processo socio-economico - il mondo militare dà alla globalizzazione con le missioni all’estero un orientamento culturale e veramente la diffusione del benessere con le missioni di pace va in questo modo crescendo. I nostri militari lavorano per la pace, accettano il dialogo come strumento e via della pace, con gli afghani o con altri popoli della terra. Penso che la sfida non sia mettere al primo posto ciò che genera violenza, ma guardare i nostri militari come persone dal volto amico, dal cuore ospitale.







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