"Caritas in veritate": a treia encilică a lui Benedict al XVI-lea "Iubirea în adevăr",
prezentată la Sala vaticană de presă: textul documentului în italiană
(RV - 7 iulie 2009) Propunem pentru moment textul în
limba italiaă a encilicei "Caritas in veritate" a lui
Benedict al XVI-lea, prezentată marţi dimineaţă în Sala de presă a Sfântului
Scaun.
LETTERA ENCICLICA CARITAS IN VERITATE DEL SOMMO PONTEFICE BENEDETTO
XVI AI VESCOVI AI PRESBITERI E AI DIACONI ALLE PERSONE CONSACRATE AI FEDELI
LAICI E A TUTTI GLI UOMINI DI BUONA VOLONTÀ SULLO SVILUPPO UMANO INTEGRALE NELLA
CARITÀ E NELLA VERITÀ LIBRERIA EDITRICE VATICANA CITTÀ DEL VATICANO
INTRODUZIONE 1.
La carità nella verità, di cui Gesù Cristo s'è fatto testimone con la sua vita terrena
e, soprattutto, con la sua morte e risurrezione, è la principale forza propulsiva
per il vero sviluppo di ogni persona e dell'umanità intera. L'amore — « caritas »
— è una forza straordinaria, che spinge le persone a impegnarsi con coraggio e generosità
nel campo della giustizia e della pace. È una forza che ha la sua origine in Dio,
Amore eterno e Verità assoluta. Ciascuno trova il suo bene aderendo al progetto che
Dio ha su di lui, per realizzarlo in pienezza: in tale progetto infatti egli trova
la sua verità ed è aderendo a tale verità che egli diventa libero (cfr Gv 8,22). Difendere
la verità, proporla con umiltà e convinzione e testimoniarla nella vita sono pertanto
forme esigenti e insostituibili di carità. Questa, infatti, « si compiace della verità
» (1 Cor 13,6). Tutti gli uomini avvertono l'interiore impulso ad amare in modo autentico:
amore e verità non li abbandonano mai completamente, perché sono la vocazione posta
da Dio nel cuore e nella mente di ogni uomo. Gesù Cristo purifica e libera dalle nostre
povertà umane la ricerca dell'amore e della verità e ci svela in pienezza l'iniziativa
di amore e il progetto di vita vera che Dio ha preparato per noi. In Cristo, la carità
nella verità diventa il Volto della sua Persona, una vocazione per noi ad amare i
nostri fratelli nella verità del suo progetto. Egli stesso, infatti, è la Verità (cfr
Gv 14,6). 2. La carità è la via maestra della dottrina sociale della Chiesa. Ogni
responsabilità e impegno delineati da tale dottrina sono attinti alla carità che,
secondo l'insegnamento di Gesù, è la sintesi di tutta la Legge (cfr Mt 22,36-40).
Essa dà vera sostanza alla relazione personale con Dio e con il prossimo; è il principio
non solo delle micro-relazioni: rapporti amicali, familiari, di piccolo gruppo, ma
anche delle macro-relazioni: rapporti sociali, economici, politici. Per la Chiesa
— ammaestrata dal Vangelo — la carità è tutto perché, come insegna san Giovanni (cfr
1 Gv 4,8.16) e come ho ricordato nella mia prima Lettera enciclica, « Dio è carità
» (Deus caritas est): dalla carità di Dio tutto proviene, per essa tutto prende forma,
ad essa tutto tende. La carità è il dono più grande che Dio abbia dato agli uomini,
è sua promessa e nostra speranza. Sono consapevole degli sviamenti e degli svuotamenti
di senso a cui la carità è andata e va incontro, con il conseguente rischio di fraintenderla,
di estrometterla dal vissuto etico e, in ogni caso, di impedirne la corretta valorizzazione.
In ambito sociale, giuridico, culturale, politico, economico, ossia nei contesti più
esposti a tale pericolo, ne viene dichiarata facilmente l'irrilevanza a interpretare
e a dirigere le responsabilità morali. Di qui il bisogno di coniugare la carità con
la verità non solo nella direzione, segnata da san Paolo, della « veritas in caritate
» (Ef 4,15), ma anche in quella, inversa e complementare, della « caritas in veritate
». La verità va cercata, trovata ed espressa nell'« economia » della carità, ma la
carità a sua volta va compresa, avvalorata e praticata nella luce della verità. In
questo modo non avremo solo reso un servizio alla carità, illuminata dalla verità,
ma avremo anche contribuito ad accreditare la verità, mostrandone il potere di autenticazione
e di persuasione nel concreto del vivere sociale. Cosa, questa, di non poco conto
oggi, in un contesto sociale e culturale che relativizza la verità, diventando spesso
di essa incurante e ad essa restio. 3. Per questo stretto collegamento con la verità,
la carità può essere riconosciuta come espressione autentica di umanità e come elemento
di fondamentale importanza nelle relazioni umane, anche di natura pubblica. Solo nella
verità la carità risplende e può essere autenticamente vissuta. La verità è luce che
dà senso e valore alla carità. Questa luce è, a un tempo, quella della ragione e della
fede, attraverso cui l'intelligenza perviene alla verità naturale e soprannaturale
della carità: ne coglie il significato di donazione, di accoglienza e di comunione.
Senza verità, la carità scivola nel sentimentalismo. L'amore diventa un guscio vuoto,
da riempire arbitrariamente. È il fatale rischio dell'amore in una cultura senza verità.
Esso è preda delle emozioni e delle opinioni contingenti dei soggetti, una parola
abusata e distorta, fino a significare il contrario. La verità libera la carità dalle
strettoie di un emotivismo che la priva di contenuti relazionali e sociali, e di un
fideismo che la priva di respiro umano ed universale. Nella verità la carità riflette
la dimensione personale e nello stesso tempo pubblica della fede nel Dio biblico,
che è insieme « Agápe » e « Lógos »: Carità e Verità, Amore e Parola. 4. Perché
piena di verità, la carità può essere dall'uomo compresa nella sua ricchezza di valori,
condivisa e comunicata. La verità, infatti, è “lógos” che crea “diá-logos” e quindi
comunicazione e comunione. La verità, facendo uscire gli uomini dalle opinioni e dalle
sensazioni soggettive, consente loro di portarsi al di là delle determinazioni culturali
e storiche e di incontrarsi nella valutazione del valore e della sostanza delle cose.
La verità apre e unisce le intelligenze nel lógos dell'amore: è, questo, l'annuncio
e la testimonianza cristiana della carità. Nell'attuale contesto sociale e culturale,
in cui è diffusa la tendenza a relativizzare il vero, vivere la carità nella verità
porta a comprendere che l'adesione ai valori del Cristianesimo è elemento non solo
utile, ma indispensabile per la costruzione di una buona società e di un vero sviluppo
umano integrale. Un Cristianesimo di carità senza verità può venire facilmente scambiato
per una riserva di buoni sentimenti, utili per la convivenza sociale, ma marginali.
In questo modo non ci sarebbe più un vero e proprio posto per Dio nel mondo. Senza
la verità, la carità viene relegata in un ambito ristretto e privato di relazioni.
È esclusa dai progetti e dai processi di costruzione di uno sviluppo umano di portata
universale, nel dialogo tra i saperi e le operatività. 5. La carità è amore ricevuto
e donato. Essa è « grazia » (cháris). La sua scaturigine è l'amore sorgivo del Padre
per il Figlio, nello Spirito Santo. È amore che dal Figlio discende su di noi. È amore
creatore, per cui noi siamo; è amore redentore, per cui siamo ricreati. Amore rivelato
e realizzato da Cristo (cfr Gv 13,1) e « riversato nei nostri cuori per mezzo dello
Spirito Santo » (Rm 5,5). Destinatari dell'amore di Dio, gli uomini sono costituiti
soggetti di carità, chiamati a farsi essi stessi strumenti della grazia, per effondere
la carità di Dio e per tessere reti di carità. A questa dinamica di carità ricevuta
e donata risponde la dottrina sociale della Chiesa. Essa è « caritas in veritate in
re sociali »: annuncio della verità dell'amore di Cristo nella società. Tale dottrina
è servizio della carità, ma nella verità. La verità preserva ed esprime la forza di
liberazione della carità nelle vicende sempre nuove della storia. È, a un tempo, verità
della fede e della ragione, nella distinzione e insieme nella sinergia dei due ambiti
cognitivi. Lo sviluppo, il benessere sociale, un'adeguata soluzione dei gravi problemi
socio-economici che affliggono l'umanità, hanno bisogno di questa verità. Ancor più
hanno bisogno che tale verità sia amata e testimoniata. Senza verità, senza fiducia
e amore per il vero, non c'è coscienza e responsabilità sociale, e l'agire sociale
cade in balia di privati interessi e di logiche di potere, con effetti disgregatori
sulla società, tanto più in una società in via di globalizzazione, in momenti difficili
come quelli attuali. 6. « Caritas in veritate » è principio intorno a cui ruota
la dottrina sociale della Chiesa, un principio che prende forma operativa in criteri
orientativi dell'azione morale. Ne desidero richiamare due in particolare, dettati
in special modo dall'impegno per lo sviluppo in una società in via di globalizzazione:
la giustizia e il bene comune. La giustizia anzitutto. Ubi societas, ibi ius: ogni
società elabora un proprio sistema di giustizia. La carità eccede la giustizia, perché
amare è donare, offrire del “mio” all'altro; ma non è mai senza la giustizia, la quale
induce a dare all'altro ciò che è “suo”, ciò che gli spetta in ragione del suo essere
e del suo operare. Non posso « donare » all'altro del mio, senza avergli dato in primo
luogo ciò che gli compete secondo giustizia. Chi ama con carità gli altri è anzitutto
giusto verso di loro. Non solo la giustizia non è estranea alla carità, non solo non
è una via alternativa o parallela alla carità: la giustizia è « inseparabile dalla
carità »,1 intrinseca ad essa. La giustizia è la prima via della carità
o, com'ebbe a dire Paolo VI, « la misura minima » di essa,2 parte integrante
di quell'amore « coi fatti e nella verità » (1 Gv 3,18), a cui esorta l'apostolo Giovanni.
Da una parte, la carità esige la giustizia: il riconoscimento e il rispetto dei legittimi
diritti degli individui e dei popoli. Essa s'adopera per la costruzione della “città
dell'uomo” secondo diritto e giustizia. Dall'altra, la carità supera la giustizia
e la completa nella logica del dono e del perdono.3 La “città dell'uomo”
non è promossa solo da rapporti di diritti e di doveri, ma ancor più e ancor prima
da relazioni di gratuità, di misericordia e di comunione. La carità manifesta sempre
anche nelle relazioni umane l'amore di Dio, essa dà valore teologale e salvifico a
ogni impegno di giustizia nel mondo. 7. Bisogna poi tenere in grande considerazione
il bene comune. Amare qualcuno è volere il suo bene e adoperarsi efficacemente per
esso. Accanto al bene individuale, c'è un bene legato al vivere sociale delle persone:
il bene comune. È il bene di quel “noi-tutti”, formato da individui, famiglie e gruppi
intermedi che si uniscono in comunità sociale.4 Non è un bene ricercato
per se stesso, ma per le persone che fanno parte della comunità sociale e che solo
in essa possono realmente e più efficacemente conseguire il loro bene. Volere il bene
comune e adoperarsi per esso è esigenza di giustizia e di carità. Impegnarsi per il
bene comune è prendersi cura, da una parte, e avvalersi, dall'altra, di quel complesso
di istituzioni che strutturano giuridicamente, civilmente, politicamente, culturalmente
il vivere sociale, che in tal modo prende forma di pólis, di città. Si ama tanto più
efficacemente il prossimo, quanto più ci si adopera per un bene comune rispondente
anche ai suoi reali bisogni. Ogni cristiano è chiamato a questa carità, nel modo della
sua vocazione e secondo le sue possibilità d'incidenza nella pólis. È questa la via
istituzionale — possiamo anche dire politica — della carità, non meno qualificata
e incisiva di quanto lo sia la carità che incontra il prossimo direttamente, fuori
delle mediazioni istituzionali della pólis. Quando la carità lo anima, l'impegno per
il bene comune ha una valenza superiore a quella dell'impegno soltanto secolare e
politico. Come ogni impegno per la giustizia, esso s'inscrive in quella testimonianza
della carità divina che, operando nel tempo, prepara l'eterno. L'azione dell'uomo
sulla terra, quando è ispirata e sostenuta dalla carità, contribuisce all'edificazione
di quella universale città di Dio verso cui avanza la storia della famiglia umana.
In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non
possono non assumere le dimensioni dell'intera famiglia umana, vale a dire della comunità
dei popoli e delle Nazioni,5 così da dare forma di unità e di pace alla
città dell'uomo, e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città
senza barriere di Dio. 8. Pubblicando nel 1967 l'Enciclica Populorum progressio,
il mio venerato predecessore Paolo VI ha illuminato il grande tema dello sviluppo
dei popoli con lo splendore della verità e con la luce soave della carità di Cristo.
Egli ha affermato che l'annuncio di Cristo è il primo e principale fattore di sviluppo
6 e ci ha lasciato la consegna di camminare sulla strada dello sviluppo
con tutto il nostro cuore e con tutta la nostra intelligenza,7 vale a dire
con l'ardore della carità e la sapienza della verità. È la verità originaria dell'amore
di Dio, grazia a noi donata, che apre la nostra vita al dono e rende possibile sperare
in uno « sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini »,8 in un passaggio
« da condizioni meno umane a condizioni più umane »,9 ottenuto vincendo
le difficoltà che inevitabilmente si incontrano lungo il cammino. A oltre quarant'anni
dalla pubblicazione dell'Enciclica, intendo rendere omaggio e tributare onore alla
memoria del grande Pontefice Paolo VI, riprendendo i suoi insegnamenti sullo sviluppo
umano integrale e collocandomi nel percorso da essi tracciato, per attualizzarli nell'ora
presente. Questo processo di attualizzazione iniziò con l'Enciclica Sollicitudo rei
socialis, con cui il Servo di Dio Giovanni Paolo II volle commemorare la pubblicazione
della Populorum progressio in occasione del suo ventennale. Fino ad allora, una simile
commemorazione era stata riservata solo alla Rerum novarum. Passati altri vent'anni,
esprimo la mia convinzione che la Populorum progressio merita di essere considerata
come « la Rerum novarum dell'epoca contemporanea », che illumina il cammino dell'umanità
in via di unificazione. 9. L'amore nella verità — caritas in veritate — è una grande
sfida per la Chiesa in un mondo in progressiva e pervasiva globalizzazione. Il rischio
del nostro tempo è che all'interdipendenza di fatto tra gli uomini e i popoli non
corrisponda l'interazione etica delle coscienze e delle intelligenze, dalla quale
possa emergere come risultato uno sviluppo veramente umano. Solo con la carità, illuminata
dalla luce della ragione e della fede, è possibile conseguire obiettivi di sviluppo
dotati di una valenza più umana e umanizzante. La condivisione dei beni e delle risorse,
da cui proviene l'autentico sviluppo, non è assicurata dal solo progresso tecnico
e da mere relazioni di convenienza, ma dal potenziale di amore che vince il male con
il bene (cfr Rm 12,21) e apre alla reciprocità delle coscienze e delle libertà. La
Chiesa non ha soluzioni tecniche da offrire 10 e non pretende « minimamente
d'intromettersi nella politica degli Stati ».11 Ha però una missione di
verità da compiere, in ogni tempo ed evenienza, per una società a misura dell'uomo,
della sua dignità, della sua vocazione. Senza verità si cade in una visione empiristica
e scettica della vita, incapace di elevarsi sulla prassi, perché non interessata a
cogliere i valori — talora nemmeno i significati — con cui giudicarla e orientarla.
La fedeltà all'uomo esige la fedeltà alla verità che, sola, è garanzia di libertà
(cfr Gv 8,32) e della possibilità di uno sviluppo umano integrale. Per questo la Chiesa
la ricerca, l'annunzia instancabilmente e la riconosce ovunque essa si palesi. Questa
missione di verità è per la Chiesa irrinunciabile. La sua dottrina sociale è momento
singolare di questo annuncio: essa è servizio alla verità che libera. Aperta alla
verità, da qualsiasi sapere provenga, la dottrina sociale della Chiesa l'accoglie,
compone in unità i frammenti in cui spesso la ritrova, e la media nel vissuto sempre
nuovo della società degli uomini e dei popoli.12
CAPITOLO
PRIMO IL MESSAGGIO DELLA POPULORUM PROGRESSIO 10. La rilettura della Populorum
progressio, a oltre quarant'anni dalla pubblicazione, sollecita a rimanere fedeli
al suo messaggio di carità e di verità, considerandolo nell'ambito dello specifico
magistero di Paolo VI e, più in generale, dentro la tradizione della dottrina sociale
della Chiesa. Sono poi da valutare i diversi termini in cui oggi, a differenza da
allora, si pone il problema dello sviluppo. Il corretto punto di vista, dunque, è
quello della Tradizione della fede apostolica,13 patrimonio antico e nuovo,
fuori del quale la Populorum progressio sarebbe un documento senza radici e le questioni
dello sviluppo si ridurrebbero unicamente a dati sociologici. 11. La pubblicazione
della Populorum progressio avvenne immediatamente dopo la conclusione del Concilio
Ecumenico Vaticano II. La stessa Enciclica segnala, nei primi paragrafi, il suo intimo
rapporto con il Concilio.14 Giovanni Paolo II, vent'anni dopo, nella Sollicitudo
rei socialis sottolineava, a sua volta, il fecondo rapporto di quella Enciclica con
il Concilio e, in particolare, con la Costituzione pastorale Gaudium et spes.15
Anch'io desidero ricordare qui l'importanza del Concilio Vaticano II per l'Enciclica
di Paolo VI e per tutto il successivo Magistero sociale dei Sommi Pontefici. Il Concilio
approfondì quanto appartiene da sempre alla verità della fede, ossia che la Chiesa,
essendo a servizio di Dio, è a servizio del mondo in termini di amore e di verità.
Proprio da questa visione partiva Paolo VI per comunicarci due grandi verità. La prima
è che tutta la Chiesa, in tutto il suo essere e il suo agire, quando annuncia, celebra
e opera nella carità, è tesa a promuovere lo sviluppo integrale dell'uomo. Essa ha
un ruolo pubblico che non si esaurisce nelle sue attività di assistenza o di educazione,
ma rivela tutte le proprie energie a servizio della promozione dell'uomo e della fraternità
universale quando può valersi di un regime di libertà. In non pochi casi tale libertà
è impedita da divieti e da persecuzioni o è anche limitata quando la presenza pubblica
della Chiesa viene ridotta unicamente alle sue attività caritative. La seconda verità
è che l'autentico sviluppo dell'uomo riguarda unitariamente la totalità della persona
in ogni sua dimensione.16 Senza la prospettiva di una vita eterna, il progresso
umano in questo mondo rimane privo di respiro. Chiuso dentro la storia, esso è esposto
al rischio di ridursi al solo incremento dell'avere; l'umanità perde così il coraggio
di essere disponibile per i beni più alti, per le grandi e disinteressate iniziative
sollecitate dalla carità universale. L'uomo non si sviluppa con le sole proprie forze,
né lo sviluppo gli può essere semplicemente dato dall'esterno. Lungo la storia, spesso
si è ritenuto che la creazione di istituzioni fosse sufficiente a garantire all'umanità
il soddisfacimento del diritto allo sviluppo. Purtroppo, si è riposta un'eccessiva
fiducia in tali istituzioni, quasi che esse potessero conseguire l'obiettivo desiderato
in maniera automatica. In realtà, le istituzioni da sole non bastano, perché lo sviluppo
umano integrale è anzitutto vocazione e, quindi, comporta una libera e solidale assunzione
di responsabilità da parte di tutti. Un tale sviluppo richiede, inoltre, una visione
trascendente della persona, ha bisogno di Dio: senza di Lui lo sviluppo o viene negato
o viene affidato unicamente alle mani dell'uomo, che cade nella presunzione dell'auto-salvezza
e finisce per promuovere uno sviluppo disumanizzato. D'altronde, solo l'incontro con
Dio permette di non “vedere nell'altro sempre soltanto l'altro”,17 ma di
riconoscere in lui l'immagine divina, giungendo così a scoprire veramente l'altro
e a maturare un amore che “diventa cura dell'altro e per l'altro”.18 12.
Il legame tra la Populorum progressio e il Concilio Vaticano II non rappresenta una
cesura tra il Magistero sociale di Paolo VI e quello dei Pontefici suoi predecessori,
dato che il Concilio costituisce un approfondimento di tale magistero nella continuità
della vita della Chiesa.19 In questo senso, non contribuiscono a fare chiarezza
certe astratte suddivisioni della dottrina sociale della Chiesa che applicano all'insegnamento
sociale pontificio categorie ad esso estranee. Non ci sono due tipologie di dottrina
sociale, una preconciliare e una postconciliare, diverse tra loro, ma un unico insegnamento,
coerente e nello stesso tempo sempre nuovo.20 È giusto rilevare le peculiarità
dell'una o dell'altra Enciclica, dell'insegnamento dell'uno o dell'altro Pontefice,
mai però perdendo di vista la coerenza dell'intero corpus dottrinale.21
Coerenza non significa chiusura in un sistema, quanto piuttosto fedeltà dinamica a
una luce ricevuta. La dottrina sociale della Chiesa illumina con una luce che non
muta i problemi sempre nuovi che emergono.22 Ciò salvaguarda il carattere
sia permanente che storico di questo « patrimonio » dottrinale 23 che,
con le sue specifiche caratteristiche, fa parte della Tradizione sempre vitale della
Chiesa.24 La dottrina sociale è costruita sopra il fondamento trasmesso
dagli Apostoli ai Padri della Chiesa e poi accolto e approfondito dai grandi Dottori
cristiani. Tale dottrina si rifà in definitiva all'Uomo nuovo, all'« ultimo Adamo
che divenne spirito datore di vita » (1 Cor 15,45) e che è principio della carità
che « non avrà mai fine » (1 Cor 13,8). È testimoniata dai Santi e da quanti hanno
dato la vita per Cristo Salvatore nel campo della giustizia e della pace. In essa
si esprime il compito profetico dei Sommi Pontefici di guidare apostolicamente la
Chiesa di Cristo e di discernere le nuove esigenze dell'evangelizzazione. Per queste
ragioni, la Populorum progressio, inserita nella grande corrente della Tradizione,
è in grado di parlare ancora a noi, oggi. 13. Oltre al suo importante legame con
l'intera dottrina sociale della Chiesa, la Populorum progressio è strettamente connessa
con il magistero complessivo di Paolo VI e, in particolare, con il suo magistero sociale.
Il suo fu certo un insegnamento sociale di grande rilevanza: egli ribadì l'imprescindibile
importanza del Vangelo per la costruzione della società secondo libertà e giustizia,
nella prospettiva ideale e storica di una civiltà animata dall'amore. Paolo VI comprese
chiaramente come la questione sociale fosse diventata mondiale 25 e colse
il richiamo reciproco tra la spinta all'unificazione dell'umanità e l'ideale cristiano
di un'unica famiglia dei popoli, solidale nella comune fraternità. Indicò nello sviluppo,
umanamente e cristianamente inteso, il cuore del messaggio sociale cristiano e propose
la carità cristiana come principale forza a servizio dello sviluppo. Mosso dal desiderio
di rendere l'amore di Cristo pienamente visibile all'uomo contemporaneo, Paolo VI
affrontò con fermezza importanti questioni etiche, senza cedere alle debolezze culturali
del suo tempo. 14. Con la Lettera apostolica Octogesima adveniens del 1971, Paolo
VI trattò poi il tema del senso della politica e del pericolo costituito da visioni
utopistiche e ideologiche che ne pregiudicavano la qualità etica e umana. Sono argomenti
strettamente collegati con lo sviluppo. Purtroppo le ideologie negative fioriscono
in continuazione. Dall'ideologia tecnocratica, particolarmente radicata oggi, Paolo
VI aveva già messo in guardia,26 consapevole del grande pericolo di affidare
l'intero processo dello sviluppo alla sola tecnica, perché in tal modo rimarrebbe
senza orientamento. La tecnica, presa in se stessa, è ambivalente. Se da un lato,
oggi, vi è chi propende ad affidarle interamente detto processo di sviluppo, dall'altro
si assiste all'insorgenza di ideologie che negano in toto l'utilità stessa dello sviluppo,
ritenuto radicalmente anti-umano e portatore solo di degradazione. Così, si finisce
per condannare non solo il modo distorto e ingiusto con cui gli uomini talvolta orientano
il progresso, ma le stesse scoperte scientifiche, che, se ben usate, costituiscono
invece un'opportunità di crescita per tutti. L'idea di un mondo senza sviluppo esprime
sfiducia nell'uomo e in Dio. È, quindi, un grave errore disprezzare le capacità umane
di controllare le distorsioni dello sviluppo o addirittura ignorare che l'uomo è costitutivamente
proteso verso l'« essere di più ». Assolutizzare ideologicamente il progresso tecnico
oppure vagheggiare l'utopia di un'umanità tornata all'originario stato di natura sono
due modi opposti per separare il progresso dalla sua valutazione morale e, quindi,
dalla nostra responsabilità. 15. Altri due documenti di Paolo VI non strettamente
connessi con la dottrina sociale — l'Enciclica Humanae vitae, del 25 luglio 1968,
e l'Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, dell'8 dicembre 1975 — sono molto
importanti per delineare il senso pienamente umano dello sviluppo proposto dalla Chiesa.
È quindi opportuno leggere anche questi testi in relazione con la Populorum progressio. L'Enciclica
Humanae vitae sottolinea il significato insieme unitivo e procreativo della sessualità,
ponendo così a fondamento della società la coppia degli sposi, uomo e donna, che si
accolgono reciprocamente nella distinzione e nella complementarità; una coppia, dunque,
aperta alla vita.27 Non si tratta di morale meramente individuale: la Humanae
vitae indica i forti legami esistenti tra etica della vita ed etica sociale, inaugurando
una tematica magisteriale che ha via via preso corpo in vari documenti, da ultimo
nell'Enciclica Evangelium vitae di Giovanni Paolo II.28 La Chiesa propone
con forza questo collegamento tra etica della vita e etica sociale nella consapevolezza
che non può “avere solide basi una società che — mentre afferma valori quali la dignità
della persona, la giustizia e la pace — si contraddice radicalmente accettando e tollerando
le più diverse forme di disistima e violazione della vita umana, soprattutto se debole
ed emarginata”.29 L'Esortazione apostolica Evangelii nuntiandi, per
parte sua, ha un rapporto molto intenso con lo sviluppo, in quanto « l'evangelizzazione
— scriveva Paolo VI — non sarebbe completa se non tenesse conto del reciproco appello,
che si fanno continuamente il Vangelo e la vita concreta, personale e sociale, dell'uomo
».30 « Tra evangelizzazione e promozione umana — sviluppo, liberazione
— ci sono infatti dei legami profondi »:31 partendo da questa consapevolezza,
Paolo VI poneva in modo chiaro il rapporto tra l'annuncio di Cristo e la promozione
della persona nella società. La testimonianza della carità di Cristo attraverso opere
di giustizia, pace e sviluppo fa parte della evangelizzazione, perché a Gesù Cristo,
che ci ama, sta a cuore tutto l'uomo. Su questi importanti insegnamenti si fonda l'aspetto
missionario 32 della dottrina sociale della Chiesa come elemento essenziale
di evangelizzazione.33 La dottrina sociale della Chiesa è annuncio e testimonianza
di fede. È strumento e luogo imprescindibile di educazione ad essa. 16. Nella Populorum
progressio, Paolo VI ha voluto dirci, prima di tutto, che il progresso è, nella sua
scaturigine e nella sua essenza, una vocazione: « Nel disegno di Dio, ogni uomo è
chiamato a uno sviluppo, perché ogni vita è vocazione ».34 È proprio questo
fatto a legittimare l'intervento della Chiesa nelle problematiche dello sviluppo.
Se esso riguardasse solo aspetti tecnici della vita dell'uomo, e non il senso del
suo camminare nella storia assieme agli altri suoi fratelli né l'individuazione della
meta di tale cammino, la Chiesa non avrebbe titolo per parlarne. Paolo VI, come già
Leone XIII nella Rerum novarum,35 era consapevole di assolvere un dovere
proprio del suo ufficio proiettando la luce del Vangelo sulle questioni sociali del
suo tempo.36 Dire che lo sviluppo è vocazione equivale a riconoscere,
da una parte, che esso nasce da un appello trascendente e, dall'altra, che è incapace
di darsi da sé il proprio significato ultimo. Non senza motivo la parola « vocazione
» ricorre anche in un altro passo dell'Enciclica, ove si afferma: « Non vi è dunque
umanesimo vero se non aperto verso l'Assoluto, nel riconoscimento d'una vocazione,
che offre l'idea vera della vita umana ».37 Questa visione dello sviluppo
è il cuore della Populorum progressio e motiva tutte le riflessioni di Paolo VI sulla
libertà, sulla verità e sulla carità nello sviluppo. È anche la ragione principale
per cui quell'Enciclica è ancora attuale ai nostri giorni. 17. La vocazione è un
appello che richiede una risposta libera e responsabile. Lo sviluppo umano integrale
suppone la libertà responsabile della persona e dei popoli: nessuna struttura può
garantire tale sviluppo al di fuori e al di sopra della responsabilità umana. I «
messianismi carichi di promesse, ma fabbricatori di illusioni »38 fondano
sempre le proprie proposte sulla negazione della dimensione trascendente dello sviluppo,
nella sicurezza di averlo tutto a propria disposizione. Questa falsa sicurezza si
tramuta in debolezza, perché comporta l'asservimento dell'uomo ridotto a mezzo per
lo sviluppo, mentre l'umiltà di chi accoglie una vocazione si trasforma in vera autonomia,
perché rende libera la persona. Paolo VI non ha dubbi che ostacoli e condizionamenti
frenino lo sviluppo, ma è anche certo che « ciascuno rimane, qualunque siano le influenze
che si esercitano su di lui, l'artefice della sua riuscita o del suo fallimento ».39
Questa libertà riguarda lo sviluppo che abbiamo davanti a noi ma, contemporaneamente,
riguarda anche le situazioni di sottosviluppo, che non sono frutto del caso o di una
necessità storica, ma dipendono dalla responsabilità umana. È per questo che « i popoli
della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell'opulenza ».40
Anche questo è vocazione, un appello rivolto da uomini liberi a uomini liberi per
una comune assunzione di responsabilità. Fu viva in Paolo VI la percezione dell'importanza
delle strutture economiche e delle istituzioni, ma altrettanto chiara fu in lui la
percezione della loro natura di strumenti della libertà umana. Solo se libero, lo
sviluppo può essere integralmente umano; solo in un regime di libertà responsabile
esso può crescere in maniera adeguata. 18. Oltre a richiedere la libertà, lo sviluppo
umano integrale come vocazione esige anche che se ne rispetti la verità. La vocazione
al progresso spinge gli uomini a « fare, conoscere e avere di più, per essere di più
».41 Ma ecco il problema: che cosa significa « essere di più »? Alla domanda
Paolo VI risponde indicando la connotazione essenziale dell'« autentico sviluppo »:
esso « deve essere integrale, il che vuol dire volto alla promozione di ogni uomo
e di tutto l'uomo ».42 Nella concorrenza tra le varie visioni dell'uomo,
che vengono proposte nella società di oggi ancor più che in quella di Paolo VI, la
visione cristiana ha la peculiarità di affermare e giustificare il valore incondizionato
della persona umana e il senso della sua crescita. La vocazione cristiana allo sviluppo
aiuta a perseguire la promozione di tutti gli uomini e di tutto l'uomo. Scriveva Paolo
VI: « Ciò che conta per noi è l'uomo, ogni uomo, ogni gruppo d'uomini, fino a comprendere
l'umanità tutta intera ».43 La fede cristiana si occupa dello sviluppo
non contando su privilegi o su posizioni di potere e neppure sui meriti dei cristiani,
che pure ci sono stati e ci sono anche oggi accanto a naturali limiti,44
ma solo su Cristo, al Quale va riferita ogni autentica vocazione allo sviluppo umano
integrale. Il Vangelo è elemento fondamentale dello sviluppo, perché in esso Cristo,
« rivelando il mistero del Padre e del suo amore, svela anche pienamente l'uomo all'uomo
».45 Ammaestrata dal suo Signore, la Chiesa scruta i segni dei tempi e
li interpreta ed offre al mondo « ciò che possiede in proprio: una visione globale
dell'uomo e dell'umanità ».46 Proprio perché Dio pronuncia il più grande
« sì » all'uomo,47 l'uomo non può fare a meno di aprirsi alla vocazione
divina per realizzare il proprio sviluppo. La verità dello sviluppo consiste nella
sua integralità: se non è di tutto l'uomo e di ogni uomo, lo sviluppo non è vero sviluppo.
Questo è il messaggio centrale della Populorum progressio, valido oggi e sempre. Lo
sviluppo umano integrale sul piano naturale, risposta a una vocazione di Dio creatore,48
domanda il proprio inveramento in un « umanesimo trascendente, che ... conferisce
[all'uomo] la sua più grande pienezza: questa è la finalità suprema dello sviluppo
personale ».49 La vocazione cristiana a tale sviluppo riguarda dunque sia
il piano naturale sia quello soprannaturale; motivo per cui, « quando Dio viene eclissato,
la nostra capacità di riconoscere l'ordine naturale, lo scopo e il “bene” comincia
a svanire ».50 19. Infine, la visione dello sviluppo come vocazione
comporta la centralità in esso della carità. Paolo VI nell'Enciclica Populorum progressio
osservava che le cause del sottosviluppo non sono primariamente di ordine materiale.
Egli ci invitava a ricercarle in altre dimensioni dell'uomo. Nella volontà, prima
di tutto, che spesso disattende i doveri della solidarietà. Nel pensiero, in secondo
luogo, che non sempre sa orientare convenientemente il volere. Per questo, nel perseguimento
dello sviluppo, servono « uomini di pensiero capaci di riflessione profonda, votati
alla ricerca d'un umanesimo nuovo, che permetta all'uomo moderno di ritrovare se stesso
».51 Ma non è tutto. Il sottosviluppo ha una causa ancora più importante
della carenza di pensiero: è « la mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli
».52 Questa fraternità, gli uomini potranno mai ottenerla da soli? La società
sempre più globalizzata ci rende vicini, ma non ci rende fratelli. La ragione, da
sola, è in grado di cogliere l'uguaglianza tra gli uomini e di stabilire una convivenza
civica tra loro, ma non riesce a fondare la fraternità. Questa ha origine da una vocazione
trascendente di Dio Padre, che ci ha amati per primo, insegnandoci per mezzo del Figlio
che cosa sia la carità fraterna. Paolo VI, presentando i vari livelli del processo
di sviluppo dell'uomo, poneva al vertice, dopo aver menzionato la fede, « l'unità
nella carità del Cristo che ci chiama tutti a partecipare in qualità di figli alla
vita del Dio vivente, Padre di tutti gli uomini ».53 20. Queste prospettive,
aperte dalla Populorum progressio, rimangono fondamentali per dare respiro e orientamento
al nostro impegno per lo sviluppo dei popoli. La Populorum progressio, poi, sottolinea
ripetutamente l'urgenza delle riforme 54 e chiede che davanti ai grandi
problemi dell'ingiustizia nello sviluppo dei popoli si agisca con coraggio e senza
indugio. Questa urgenza è dettata anche dalla carità nella verità. È la carità di
Cristo che ci spinge: « caritas Christi urget nos » (2 Cor 5,14). L'urgenza è inscritta
non solo nelle cose, non deriva soltanto dall'incalzare degli avvenimenti e dei problemi,
ma anche dalla stessa posta in palio: la realizzazione di un'autentica fraternità.
La rilevanza di questo obiettivo è tale da esigere la nostra apertura a capirlo fino
in fondo e a mobilitarci in concreto con il « cuore », per far evolvere gli attuali
processi economici e sociali verso esiti pienamente umani.
CAPITOLO SECONDO LO
SVILUPPO UMANO NEL NOSTRO TEMPO 21. Paolo VI aveva una visione articolata dello
sviluppo. Con il termine « sviluppo » voleva indicare l'obiettivo di far uscire i
popoli anzitutto dalla fame, dalla miseria, dalle malattie endemiche e dall'analfabetismo.
Dal punto di vista economico, ciò significava la loro partecipazione attiva e in condizioni
di parità al processo economico internazionale; dal punto di vista sociale, la loro
evoluzione verso società istruite e solidali; dal punto di vista politico, il consolidamento
di regimi democratici in grado di assicurare libertà e pace. Dopo tanti anni, mentre
guardiamo con preoccupazione agli sviluppi e alle prospettive delle crisi che si susseguono
in questi tempi, ci domandiamo quanto le aspettative di Paolo VI siano state soddisfatte
dal modello di sviluppo che è stato adottato negli ultimi decenni. Riconosciamo pertanto
che erano fondate le preoccupazioni della Chiesa sulle capacità dell'uomo solo tecnologico
di sapersi dare obiettivi realistici e di saper gestire sempre adeguatamente gli strumenti
a disposizione. Il profitto è utile se, in quanto mezzo, è orientato ad un fine che
gli fornisca un senso tanto sul come produrlo quanto sul come utilizzarlo. L'esclusivo
obiettivo del profitto, se mal prodotto e senza il bene comune come fine ultimo, rischia
di distruggere ricchezza e creare povertà. Lo sviluppo economico che auspicava Paolo
VI doveva essere tale da produrre una crescita reale, estensibile a tutti e concretamente
sostenibile. È vero che lo sviluppo c'è stato e continua ad essere un fattore positivo
che ha tolto dalla miseria miliardi di persone e, ultimamente, ha dato a molti Paesi
la possibilità di diventare attori efficaci della politica internazionale. Va tuttavia
riconosciuto che lo stesso sviluppo economico è stato e continua ad essere gravato
da distorsioni e drammatici problemi, messi ancora più in risalto dall'attuale situazione
di crisi. Essa ci pone improrogabilmente di fronte a scelte che riguardano sempre
più il destino stesso dell'uomo, il quale peraltro non può prescindere dalla sua natura.
Le forze tecniche in campo, le interrelazioni planetarie, gli effetti deleteri sull'economia
reale di un'attività finanziaria mal utilizzata e per lo più speculativa, gli imponenti
flussi migratori, spesso solo provocati e non poi adeguatamente gestiti, lo sfruttamento
sregolato delle risorse della terra, ci inducono oggi a riflettere sulle misure necessarie
per dare soluzione a problemi non solo nuovi rispetto a quelli affrontati dal Papa
Paolo VI, ma anche, e soprattutto, di impatto decisivo per il bene presente e futuro
dell'umanità. Gli aspetti della crisi e delle sue soluzioni, nonché di un futuro nuovo
possibile sviluppo, sono sempre più interconnessi, si implicano a vicenda, richiedono
nuovi sforzi di comprensione unitaria e una nuova sintesi umanistica. La complessità
e gravità dell'attuale situazione economica giustamente ci preoccupa, ma dobbiamo
assumere con realismo, fiducia e speranza le nuove responsabilità a cui ci chiama
lo scenario di un mondo che ha bisogno di un profondo rinnovamento culturale e della
riscoperta di valori di fondo su cui costruire un futuro migliore. La crisi ci obbliga
a riprogettare il nostro cammino, a darci nuove regole e a trovare nuove forme di
impegno, a puntare sulle esperienze positive e a rigettare quelle negative. La crisi
diventa così occasione di discernimento e di nuova progettualità. In questa chiave,
fiduciosa piuttosto che rassegnata, conviene affrontare le difficoltà del momento
presente. 22. Oggi il quadro dello sviluppo è policentrico. Gli attori e le cause
sia del sottosviluppo sia dello sviluppo sono molteplici, le colpe e i meriti sono
differenziati. Questo dato dovrebbe spingere a liberarsi dalle ideologie, che semplificano
in modo spesso artificioso la realtà, e indurre a esaminare con obiettività lo spessore
umano dei problemi. La linea di demarcazione tra Paesi ricchi e poveri non è più così
netta come ai tempi della Populorum progressio, secondo quanto già aveva segnalato
Giovanni Paolo II.55 Cresce la ricchezza mondiale in termini assoluti,
ma aumentano le disparità. Nei Paesi ricchi nuove categorie sociali si impoveriscono
e nascono nuove povertà. In aree più povere alcuni gruppi godono di una sorta di supersviluppo
dissipatore e consumistico che contrasta in modo inaccettabile con perduranti situazioni
di miseria disumanizzante. Continua « lo scandalo di disuguaglianze clamorose ».56
La corruzione e l'illegalità sono purtroppo presenti sia nel comportamento di soggetti
economici e politici dei Paesi ricchi, vecchi e nuovi, sia negli stessi Paesi poveri.
A non rispettare i diritti umani dei lavoratori sono a volte grandi imprese transnazionali
e anche gruppi di produzione locale. Gli aiuti internazionali sono stati spesso distolti
dalle loro finalità, per irresponsabilità che si annidano sia nella catena dei soggetti
donatori sia in quella dei fruitori. Anche nell'ambito delle cause immateriali o culturali
dello sviluppo e del sottosviluppo possiamo trovare la medesima articolazione di responsabilità.
Ci sono forme eccessive di protezione della conoscenza da parte dei Paesi ricchi,
mediante un utilizzo troppo rigido del diritto di proprietà intellettuale, specialmente
nel campo sanitario. Nello stesso tempo, in alcuni Paesi poveri persistono modelli
culturali e norme sociali di comportamento che rallentano il processo di sviluppo. 23.
Molte aree del pianeta, oggi, seppure in modo problematico e non omogeneo, si sono
evolute, entrando nel novero delle grandi potenze destinate a giocare ruoli importanti
nel futuro. Va tuttavia sottolineato come non sia sufficiente progredire solo da un
punto di vista economico e tecnologico. Bisogna che lo sviluppo sia anzitutto vero
e integrale. L'uscita dall'arretratezza economica, un dato in sé positivo, non risolve
la complessa problematica della promozione dell'uomo, né per i Paesi protagonisti
di questi avanzamenti, né per i Paesi economicamente già sviluppati, né per quelli
ancora poveri, i quali possono soffrire, oltre che delle vecchie forme di sfruttamento,
anche delle conseguenze negative derivanti da una crescita contrassegnata da distorsioni
e squilibri. Dopo il crollo dei sistemi economici e politici dei Paesi comunisti
dell'Europa orientale e la fine dei cosiddetti “blocchi contrapposti”, sarebbe stato
necessario un complessivo ripensamento dello sviluppo. Lo aveva chiesto Giovanni Paolo
II, il quale nel 1987 aveva indicato l'esistenza di questi “blocchi” come una delle
principali cause del sottosviluppo,57 in quanto la politica sottraeva risorse
all'economia e alla cultura e l'ideologia inibiva la libertà. Nel 1991, dopo gli avvenimenti
del 1989, egli chiese anche che, alla fine dei “blocchi”, corrispondesse una riprogettazione
globale dello sviluppo, non solo in quei Paesi, ma anche in Occidente e in quelle
parti del mondo che andavano evolvendosi.58 Questo è avvenuto solo in parte
e continua ad essere un reale dovere al quale occorre dare soddisfazione, magari profittando
proprio delle scelte necessarie a superare gli attuali problemi economici. 24.
Il mondo che Paolo VI aveva davanti a sé, benché il processo di socializzazione fosse
già avanzato così che egli poteva parlare di una questione sociale divenuta mondiale,
era ancora molto meno integrato di quello odierno. Attività economica e funzione politica
si svolgevano in gran parte dentro lo stesso ambito spaziale e potevano quindi fare
reciproco affidamento. L'attività produttiva avveniva prevalentemente all'interno
dei confini nazionali e gli investimenti finanziari avevano una circolazione piuttosto
limitata all'estero, sicché la politica di molti Stati poteva ancora fissare le priorità
dell'economia e, in qualche modo, governarne l'andamento con gli strumenti di cui
ancora disponeva. Per questo motivo la Populorum progressio assegnava un compito centrale,
anche se non esclusivo, ai « poteri pubblici ».59 Nella nostra epoca,
lo Stato si trova nella situazione di dover far fronte alle limitazioni che alla sua
sovranità frappone il nuovo contesto economico-commerciale e finanziario internazionale,
contraddistinto anche da una crescente mobilità dei capitali finanziari e dei mezzi
di produzione materiali ed immateriali. Questo nuovo contesto ha modificato il potere
politico degli Stati. Oggi, facendo anche tesoro della lezione che ci viene dalla
crisi economica in atto che vede i pubblici poteri dello Stato impegnati direttamente
a correggere errori e disfunzioni, sembra più realistica una rinnovata valutazione
del loro ruolo e del loro potere, che vanno saggiamente riconsiderati e rivalutati
in modo che siano in grado, anche attraverso nuove modalità di esercizio, di far fronte
alle sfide del mondo odierno. Con un meglio calibrato ruolo dei pubblici poteri, è
prevedibile che si rafforzino quelle nuove forme di partecipazione alla politica nazionale
e internazionale che si realizzano attraverso l'azione delle Organizzazioni operanti
nella società civile; in tale direzione è auspicabile che crescano un'attenzione e
una partecipazione più sentite alla res publica da parte dei cittadini. 25. Dal
punto di vista sociale, i sistemi di protezione e previdenza, già presenti ai tempi
di Paolo VI in molti Paesi, faticano e potrebbero faticare ancor più in futuro a perseguire
i loro obiettivi di vera giustizia sociale entro un quadro di forze profondamente
mutato. Il mercato diventato globale ha stimolato anzitutto, da parte di Paesi ricchi,
la ricerca di aree dove delocalizzare le produzioni di basso costo al fine di ridurre
i prezzi di molti beni, accrescere il potere di acquisto e accelerare pertanto il
tasso di sviluppo centrato su maggiori consumi per il proprio mercato interno. Conseguentemente,
il mercato ha stimolato forme nuove di competizione tra Stati allo scopo di attirare
centri produttivi di imprese straniere, mediante vari strumenti, tra cui un fisco
favorevole e la deregolamentazione del mondo del lavoro. Questi processi hanno comportato
la riduzione delle reti di sicurezza sociale in cambio della ricerca di maggiori vantaggi
competitivi nel mercato globale, con grave pericolo per i diritti dei lavoratori,
per i diritti fondamentali dell'uomo e per la solidarietà attuata nelle tradizionali
forme dello Stato sociale. I sistemi di sicurezza sociale possono perdere la capacità
di assolvere al loro compito, sia nei Paesi emergenti, sia in quelli di antico sviluppo,
oltre che nei Paesi poveri. Qui le politiche di bilancio, con i tagli alla spesa sociale,
spesso anche promossi dalle Istituzioni finanziarie internazionali, possono lasciare
i cittadini impotenti di fronte a rischi vecchi e nuovi; tale impotenza è accresciuta
dalla mancanza di protezione efficace da parte delle associazioni dei lavoratori.
L'insieme dei cambiamenti sociali ed economici fa sì che le organizzazioni sindacali
sperimentino maggiori difficoltà a svolgere il loro compito di rappresentanza degli
interessi dei lavoratori, anche per il fatto che i Governi, per ragioni di utilità
economica, limitano spesso le libertà sindacali o la capacità negoziale dei sindacati
stessi. Le reti di solidarietà tradizionali trovano così crescenti ostacoli da superare.
L'invito della dottrina sociale della Chiesa, cominciando dalla Rerum novarum,60
a dar vita ad associazioni di lavoratori per la difesa dei propri diritti va pertanto
onorato oggi ancor più di ieri, dando innanzitutto una risposta pronta e lungimirante
all'urgenza di instaurare nuove sinergie a livello internazionale, oltre che locale. La
mobilità lavorativa, associata alla deregolamentazione generalizzata, è stata un fenomeno
importante, non privo di aspetti positivi perché capace di stimolare la produzione
di nuova ricchezza e lo scambio tra culture diverse. Tuttavia, quando l'incertezza
circa le condizioni di lavoro, in conseguenza dei processi di mobilità e di deregolamentazione,
diviene endemica, si creano forme di instabilità psicologica, di difficoltà a costruire
propri percorsi coerenti nell'esistenza, compreso anche quello verso il matrimonio.
Conseguenza di ciò è il formarsi di situazioni di degrado umano, oltre che di spreco
sociale. Rispetto a quanto accadeva nella società industriale del passato, oggi la
disoccupazione provoca aspetti nuovi di irrilevanza economica e l'attuale crisi può
solo peggiorare tale situazione. L'estromissione dal lavoro per lungo tempo, oppure
la dipendenza prolungata dall'assistenza pubblica o privata, minano la libertà e la
creatività della persona e i suoi rapporti familiari e sociali con forti sofferenze
sul piano psicologico e spirituale. Desidererei ricordare a tutti, soprattutto ai
governanti impegnati a dare un profilo rinnovato agli assetti economici e sociali
del mondo, che il primo capitale da salvaguardare e valorizzare è l'uomo, la persona,
nella sua integrità: “L'uomo infatti è l'autore, il centro e il fine di tutta la vita
economico-sociale”.61 26. Sul piano culturale, rispetto all'epoca di
Paolo VI, la differenza è ancora più marcata. Allora le culture erano piuttosto ben
definite e avevano maggiori possibilità di difendersi dai tentativi di omogeneizzazione
culturale. Oggi le possibilità di interazione tra le culture sono notevolmente aumentate
dando spazio a nuove prospettive di dialogo interculturale, un dialogo che, per essere
efficace, deve avere come punto di partenza l'intima consapevolezza della specifica
identità dei vari interlocutori. Non va tuttavia trascurato il fatto che l'accresciuta
mercificazione degli scambi culturali favorisce oggi un duplice pericolo. Si nota,
in primo luogo, un eclettismo culturale assunto spesso acriticamente: le culture vengono
semplicemente accostate e considerate come sostanzialmente equivalenti e tra loro
interscambiabili. Ciò favorisce il cedimento ad un relativismo che non aiuta il vero
dialogo interculturale; sul piano sociale il relativismo culturale fa sì che i gruppi
culturali si accostino o convivano ma separati, senza dialogo autentico e, quindi,
senza vera integrazione. In secondo luogo, esiste il pericolo opposto, che è costituito
dall'appiattimento culturale e dall'omologazione dei comportamenti e degli stili di
vita. In questo modo viene perduto il significato profondo della cultura delle varie
Nazioni, delle tradizioni dei vari popoli, entro le quali la persona si misura con
le domande fondamentali dell'esistenza.62 Eclettismo e appiattimento culturale
convergono nella separazione della cultura dalla natura umana. Così, le culture non
sanno più trovare la loro misura in una natura che le trascende,63 finendo
per ridurre l'uomo a solo dato culturale. Quando questo avviene, l'umanità corre nuovi
pericoli di asservimento e di manipolazione. 27. In molti Paesi poveri permane
e rischia di accentuarsi l'estrema insicurezza di vita, che è conseguenza della carenza
di alimentazione: la fame miete ancora moltissime vittime tra i tanti Lazzaro ai quali
non è consentito, come aveva auspicato Paolo VI, di sedersi alla mensa del ricco epulone.64
Dare da mangiare agli affamati (cfr Mt 25, 35.37.42) è un imperativo etico per la
Chiesa universale, che risponde agli insegnamenti di solidarietà e di condivisione
del suo Fondatore, il Signore Gesù. Inoltre, eliminare la fame nel mondo è divenuta,
nell'era della globalizzazione, anche un traguardo da perseguire per salvaguardare
la pace e la stabilità del pianeta. La fame non dipende tanto da scarsità materiale,
quanto piuttosto da scarsità di risorse sociali, la più importante delle quali è di
natura istituzionale. Manca, cioè, un assetto di istituzioni economiche in grado sia
di garantire un accesso al cibo e all'acqua regolare e adeguato dal punto di vista
nutrizionale, sia di fronteggiare le necessità connesse con i bisogni primari e con
le emergenze di vere e proprie crisi alimentari, provocate da cause naturali o dall'irresponsabilità
politica nazionale e internazionale. Il problema dell'insicurezza alimentare va affrontato
in una prospettiva di lungo periodo, eliminando le cause strutturali che lo provocano
e promuovendo lo sviluppo agricolo dei Paesi più poveri mediante investimenti in infrastrutture
rurali, in sistemi di irrigazione, in trasporti, in organizzazione dei mercati, in
formazione e diffusione di tecniche agricole appropriate, capaci cioè di utilizzare
al meglio le risorse umane, naturali e socio-economiche maggiormente accessibili a
livello locale, in modo da garantire una loro sostenibilità anche nel lungo periodo.
Tutto ciò va realizzato coinvolgendo le comunità locali nelle scelte e nelle decisioni
relative all'uso della terra coltivabile. In tale prospettiva, potrebbe risultare
utile considerare le nuove frontiere che vengono aperte da un corretto impiego delle
tecniche di produzione agricola tradizionali e di quelle innovative, supposto che
esse siano state dopo adeguata verifica riconosciute opportune, rispettose dell'ambiente
e attente alle popolazioni più svantaggiate. Al tempo stesso, non dovrebbe venir trascurata
la questione di un'equa riforma agraria nei Paesi in via di sviluppo. Il diritto all'alimentazione,
così come quello all'acqua, rivestono un ruolo importante per il conseguimento di
altri diritti, ad iniziare, innanzitutto, dal diritto primario alla vita. È necessario,
pertanto, che maturi una coscienza solidale che consideri l'alimentazione e l'accesso
all'acqua come diritti universali di tutti gli esseri umani, senza distinzioni né
discriminazioni.65 È importante inoltre evidenziare come la via solidaristica
allo sviluppo dei Paesi poveri possa costituire un progetto di soluzione della crisi
globale in atto, come uomini politici e responsabili di Istituzioni internazionali
hanno negli ultimi tempi intuito. Sostenendo mediante piani di finanziamento ispirati
a solidarietà i Paesi economicamente poveri, perché provvedano essi stessi a soddisfare
le domande di beni di consumo e di sviluppo dei propri cittadini, non solo si può
produrre vera crescita economica, ma si può anche concorrere a sostenere le capacità
produttive dei Paesi ricchi che rischiano di esser compromesse dalla crisi. 28.
Uno degli aspetti più evidenti dello sviluppo odierno è l'importanza del tema del
rispetto per la vita, che non può in alcun modo essere disgiunto dalle questioni relative
allo sviluppo dei popoli. Si tratta di un aspetto che negli ultimi tempi sta assumendo
una rilevanza sempre maggiore, obbligandoci ad allargare i concetti di povertà 66
e di sottosviluppo alle questioni collegate con l'accoglienza della vita, soprattutto
là dove essa è in vario modo impedita. Non solo la situazione di povertà provoca
ancora in molte regioni alti tassi di mortalità infantile, ma perdurano in varie parti
del mondo pratiche di controllo demografico da parte dei governi, che spesso diffondono
la contraccezione e giungono a imporre anche l'aborto. Nei Paesi economicamente più
sviluppati, le legislazioni contrarie alla vita sono molto diffuse e hanno ormai condizionato
il costume e la prassi, contribuendo a diffondere una mentalità antinatalista che
spesso si cerca di trasmettere anche ad altri Stati come se fosse un progresso culturale. Alcune
Organizzazioni non governative, poi, operano attivamente per la diffusione dell'aborto,
promuovendo talvolta nei Paesi poveri l'adozione della pratica della sterilizzazione,
anche su donne inconsapevoli. Vi è inoltre il fondato sospetto che a volte gli stessi
aiuti allo sviluppo vengano collegati a determinate politiche sanitarie implicanti
di fatto l'imposizione di un forte controllo delle nascite. Preoccupanti sono altresì
tanto le legislazioni che prevedono l'eutanasia quanto le pressioni di gruppi nazionali
e internazionali che ne rivendicano il riconoscimento giuridico. L'apertura alla
vita è al centro del vero sviluppo. Quando una società s'avvia verso la negazione
e la soppressione della vita, finisce per non trovare più le motivazioni e le energie
necessarie per adoperarsi a servizio del vero bene dell'uomo. Se si perde la sensibilità
personale e sociale verso l'accoglienza di una nuova vita, anche altre forme di accoglienza
utili alla vita sociale si inaridiscono.67 L'accoglienza della vita tempra
le energie morali e rende capaci di aiuto reciproco. Coltivando l'apertura alla vita,
i popoli ricchi possono comprendere meglio le necessità di quelli poveri, evitare
di impiegare ingenti risorse economiche e intellettuali per soddisfare desideri egoistici
tra i propri cittadini e promuovere, invece, azioni virtuose nella prospettiva di
una produzione moralmente sana e solidale, nel rispetto del diritto fondamentale di
ogni popolo e di ogni persona alla vita. 29. C'è un altro aspetto della vita di
oggi, collegato in modo molto stretto con lo sviluppo: la negazione del diritto alla
libertà religiosa. Non mi riferisco solo alle lotte e ai conflitti che nel mondo ancora
si combattono per motivazioni religiose, anche se talvolta quella religiosa è solo
la copertura di ragioni di altro genere, quali la sete di dominio e di ricchezza.
Di fatto, oggi spesso si uccide nel nome sacro di Dio, come più volte è stato pubblicamente
rilevato e deplorato dal mio predecessore Giovanni Paolo II e da me stesso.68
Le violenze frenano lo sviluppo autentico e impediscono l'evoluzione dei popoli verso
un maggiore benessere socio-economico e spirituale. Ciò si applica specialmente al
terrorismo a sfondo fondamentalista,69 che genera dolore, devastazione
e morte, blocca il dialogo tra le Nazioni e distoglie grandi risorse dal loro impiego
pacifico e civile. Va però aggiunto che, oltre al fanatismo religioso che in alcuni
contesti impedisce l'esercizio del diritto di libertà di religione, anche la promozione
programmata dell'indifferenza religiosa o dell'ateismo pratico da parte di molti Paesi
contrasta con le necessità dello sviluppo dei popoli, sottraendo loro risorse spirituali
e umane. Dio è il garante del vero sviluppo dell'uomo, in quanto, avendolo creato
a sua immagine, ne fonda altresì la trascendente dignità e ne alimenta il costitutivo
anelito ad “essere di più”. L'uomo non è un atomo sperduto in un universo casuale,70
ma è una creatura di Dio, a cui Egli ha voluto donare un'anima immortale e che ha
da sempre amato. Se l'uomo fosse solo frutto o del caso o della necessità, oppure
se dovesse ridurre le sue aspirazioni all'orizzonte ristretto delle situazioni in
cui vive, se tutto fosse solo storia e cultura, e l'uomo non avesse una natura destinata
a trascendersi in una vita soprannaturale, si potrebbe parlare di incremento o di
evoluzione, ma non di sviluppo. Quando lo Stato promuove, insegna, o addirittura impone,
forme di ateismo pratico, sottrae ai suoi cittadini la forza morale e spirituale indispensabile
per impegnarsi nello sviluppo umano integrale e impedisce loro di avanzare con rinnovato
dinamismo nel proprio impegno per una più generosa risposta umana all'amore divino.71
Capita anche che i Paesi economicamente sviluppati o quelli emergenti esportino nei
Paesi poveri, nel contesto dei loro rapporti culturali, commerciali e politici, questa
visione riduttiva della persona e del suo destino. È il danno che il « supersviluppo
»72 procura allo sviluppo autentico, quando è accompagnato dal « sottosviluppo
morale ».73 30. In questa linea, il tema dello sviluppo umano integrale
assume una portata ancora più complessa: la correlazione tra i molteplici suoi elementi
richiede che ci si impegni per far interagire i diversi livelli del sapere umano in
vista della promozione di un vero sviluppo dei popoli. Spesso si ritiene che lo sviluppo,
o i provvedimenti socio-economici relativi, richiedano solo di essere attuati quale
frutto di un agire comune. Questo agire comune, però, ha bisogno di essere orientato,
perché « ogni azione sociale implica una dottrina ».74 Considerata la complessità
dei problemi, è ovvio che le varie discipline debbano collaborare mediante una interdisciplinarità
ordinata. La carità non esclude il sapere, anzi lo richiede, lo promuove e lo anima
dall'interno. Il sapere non è mai solo opera dell'intelligenza. Può certamente essere
ridotto a calcolo e ad esperimento, ma se vuole essere sapienza capace di orientare
l'uomo alla luce dei principi primi e dei suoi fini ultimi, deve essere “condito”
con il « sale » della carità. Il fare è cieco senza il sapere e il sapere è sterile
senza l'amore. Infatti, « colui che è animato da una vera carità è ingegnoso nello
scoprire le cause della miseria, nel trovare i mezzi per combatterla, nel vincerla
risolutamente ».75 Nei confronti dei fenomeni che abbiamo davanti, la carità
nella verità richiede prima di tutto di conoscere e di capire, nella consapevolezza
e nel rispetto della competenza specifica di ogni livello del sapere. La carità non
è un'aggiunta posteriore, quasi un'appendice a lavoro ormai concluso delle varie discipline,
bensì dialoga con esse fin dall'inizio. Le esigenze dell'amore non contraddicono quelle
della ragione. Il sapere umano è insufficiente e le conclusioni delle scienze non
potranno indicare da sole la via verso lo sviluppo integrale dell'uomo. C'è sempre
bisogno di spingersi più in là: lo richiede la carità nella verità.76 Andare
oltre, però, non significa mai prescindere dalle conclusioni della ragione né contraddire
i suoi risultati. Non c'è l'intelligenza e poi l'amore: ci sono l'amore ricco di intelligenza
e l'intelligenza piena di amore. 31. Questo significa che le valutazioni morali
e la ricerca scientifica devono crescere insieme e che la carità deve animarle in
un tutto armonico interdisciplinare, fatto di unità e di distinzione. La dottrina
sociale della Chiesa, che ha « un'importante dimensione interdisciplinare »,77
può svolgere, in questa prospettiva, una funzione di straordinaria efficacia. Essa
consente alla fede, alla teologia, alla metafisica e alle scienze di trovare il loro
posto entro una collaborazione a servizio dell'uomo. È soprattutto qui che la dottrina
sociale della Chiesa attua la sua dimensione sapienziale. Paolo VI aveva visto con
chiarezza che tra le cause del sottosviluppo c'è una mancanza di sapienza, di riflessione,
di pensiero in grado di operare una sintesi orientativa,78 per la quale
si richiede « una visione chiara di tutti gli aspetti economici, sociali, culturali
e spirituali ».79 L'eccessiva settorialità del sapere,80 la
chiusura delle scienze umane alla metafisica,81 le difficoltà del dialogo
tra le scienze e la teologia sono di danno non solo allo sviluppo del sapere, ma anche
allo sviluppo dei popoli, perché, quando ciò si verifica, viene ostacolata la visione
dell'intero bene dell'uomo nelle varie dimensioni che lo caratterizzano. L'« allargamento
del nostro concetto di ragione e dell'uso di essa »82 è indispensabile
per riuscire a pesare adeguatamente tutti i termini della questione dello sviluppo
e della soluzione dei problemi socio-economici. 32. Le grandi novità, che il quadro
dello sviluppo dei popoli oggi presenta, pongono in molti casi l'esigenza di soluzioni
nuove. Esse vanno cercate insieme nel rispetto delle leggi proprie di ogni realtà
e alla luce di una visione integrale dell'uomo, che rispecchi i vari aspetti della
persona umana, contemplata con lo sguardo purificato dalla carità. Si scopriranno
allora singolari convergenze e concrete possibilità di soluzione, senza rinunciare
ad alcuna componente fondamentale della vita umana. La dignità della persona e
le esigenze della giustizia richiedono che, soprattutto oggi, le scelte economiche
non facciano aumentare in modo eccessivo e moralmente inaccettabile le differenze
di ricchezza 83 e che si continui a perseguire quale priorità l'obiettivo
dell'accesso al lavoro o del suo mantenimento, per tutti. A ben vedere, ciò è esigito
anche dalla « ragione economica ». L'aumento sistemico delle ineguaglianze tra gruppi
sociali all'interno di un medesimo Paese e tra le popolazioni dei vari Paesi, ossia
l'aumento massiccio della povertà in senso relativo, non solamente tende a erodere
la coesione sociale, e per questa via mette a rischio la democrazia, ma ha anche un
impatto negativo sul piano economico, attraverso la progressiva erosione del « capitale
sociale », ossia di quell'insieme di relazioni di fiducia, di affidabilità, di rispetto
delle regole, indispensabili ad ogni convivenza civile. È sempre la scienza economica
a dirci che una strutturale situazione di insicurezza genera atteggiamenti antiproduttivi
e di spreco di risorse umane, in quanto il lavoratore tende ad adattarsi passivamente
ai meccanismi automatici, anziché liberare creatività. Anche su questo punto c'è una
convergenza tra scienza economica e valutazione morale. I costi umani sono sempre
anche costi economici e le disfunzioni economiche comportano sempre anche costi umani. Va
poi ricordato che l'appiattimento delle culture sulla dimensione tecnologica, se nel
breve periodo può favorire l'ottenimento di profitti, nel lungo periodo ostacola l'arricchimento
reciproco e le dinamiche collaborative. È importante distinguere tra considerazioni
economiche o sociologiche di breve e di lungo termine. L'abbassamento del livello
di tutela dei diritti dei lavoratori o la rinuncia a meccanismi di ridistribuzione
del reddito per far acquisire al Paese maggiore competitività internazionale impediscono
l'affermarsi di uno sviluppo di lunga durata. Vanno, allora, attentamente valutate
le conseguenze sulle persone delle tendenze attuali verso un'economia del breve, talvolta
brevissimo termine. Ciò richiede una nuova e approfondita riflessione sul senso dell'economia
e dei suoi fini,84 nonché una revisione profonda e lungimirante del modello
di sviluppo, per correggerne le disfunzioni e le distorsioni. Lo esige, in realtà,
lo stato di salute ecologica del pianeta; soprattutto lo richiede la crisi culturale
e morale dell'uomo, i cui sintomi da tempo sono evidenti in ogni parte del mondo. 33.
Oltre quarant'anni dopo la Populorum progressio, il suo tema di fondo, il progresso,
resta ancora un problema aperto, reso più acuto ed impellente dalla crisi economico-finanziaria
in atto. Se alcune aree del pianeta, già un tempo gravate dalla povertà, hanno conosciuto
cambiamenti notevoli in termini di crescita economica e di partecipazione alla produzione
mondiale, altre zone vivono ancora una situazione di miseria paragonabile a quella
esistente ai tempi di Paolo VI, anzi in qualche caso si può addirittura parlare di
un peggioramento. È significativo che alcune cause di questa situazione fossero state
già individuate nella Populorum progressio, come per esempio gli alti dazi doganali
posti dai Paesi economicamente sviluppati e che ancora impediscono ai prodotti provenienti
dai Paesi poveri di raggiungere i mercati dei Paesi ricchi. Altre cause, invece, che
l'Enciclica aveva solo adombrato, in seguito sono emerse con maggiore evidenza. È
questo il caso della valutazione del processo di decolonizzazione, allora in pieno
corso. Paolo VI auspicava un percorso autonomo da compiere nella libertà e nella pace.
Dopo oltre quarant'anni, dobbiamo riconoscere quanto questo percorso sia stato difficile,
sia a causa di nuove forme di colonialismo e di dipendenza da vecchi e nuovi Paesi
egemoni, sia per gravi irresponsabilità interne agli stessi Paesi resisi indipendenti. La
novità principale è stata l'esplosione dell'interdipendenza planetaria, ormai comunemente
nota come globalizzazione. Paolo VI l'aveva parzialmente prevista, ma i termini e
l'impetuosità con cui essa si è evoluta sono sorprendenti. Nato dentro i Paesi economicamente
sviluppati, questo processo per sua natura ha prodotto un coinvolgimento di tutte
le economie. Esso è stato il principale motore per l'uscita dal sottosviluppo di intere
regioni e rappresenta di per sé una grande opportunità. Tuttavia, senza la guida della
carità nella verità, questa spinta planetaria può concorrere a creare rischi di danni
sconosciuti finora e di nuove divisioni nella famiglia umana. Per questo la carità
e la verità ci pongono davanti a un impegno inedito e creativo, certamente molto vasto
e complesso. Si tratta di dilatare la ragione e di renderla capace di conoscere e
di orientare queste imponenti nuove dinamiche, animandole nella prospettiva di quella
« civiltà dell'amore » il cui seme Dio ha posto in ogni popolo, in ogni cultura.
CAPITOLO
TERZO FRATERNITÀ, SVILUPPO ECONOMICO E SOCIETÀ CIVILE 34. La carità nella
verità pone l'uomo davanti alla stupefacente esperienza del dono. La gratuità è presente
nella sua vita in molteplici forme, spesso non riconosciute a causa di una visione
solo produttivistica e utilitaristica dell'esistenza. L'essere umano è fatto per il
dono, che ne esprime ed attua la dimensione di trascendenza. Talvolta l'uomo moderno
è erroneamente convinto di essere il solo autore di se stesso, della sua vita e della
società. È questa una presunzione, conseguente alla chiusura egoistica in se stessi,
che discende — per dirla in termini di fede — dal peccato delle origini. La sapienza
della Chiesa ha sempre proposto di tenere presente il peccato originale anche nell'interpretazione
dei fatti sociali e nella costruzione della società: « Ignorare che l'uomo ha una
natura ferita, incline al male, è causa di gravi errori nel campo dell'educazione,
della politica, dell'azione sociale e dei costumi ».85 All'elenco dei campi
in cui si manifestano gli effetti perniciosi del peccato, si è aggiunto ormai da molto
tempo anche quello dell'economia. Ne abbiamo una prova evidente anche in questi periodi.
La convinzione di essere autosufficiente e di riuscire a eliminare il male presente
nella storia solo con la propria azione ha indotto l'uomo a far coincidere la felicità
e la salvezza con forme immanenti di benessere materiale e di azione sociale. La convinzione
poi della esigenza di autonomia dell'economia, che non deve accettare “influenze”
di carattere morale, ha spinto l'uomo ad abusare dello strumento economico in modo
persino distruttivo. A lungo andare, queste convinzioni hanno portato a sistemi economici,
sociali e politici che hanno conculcato la libertà della persona e dei corpi sociali
e che, proprio per questo, non sono stati in grado di assicurare la giustizia che
promettevano. Come ho affermato nella mia Enciclica Spe salvi, in questo modo si toglie
dalla storia la speranza cristiana,86 che è invece una potente risorsa
sociale a servizio dello sviluppo umano integrale, cercato nella libertà e nella giustizia.
La speranza incoraggia la ragione e le dà la forza di orientare la volontà.87
È già presente nella fede, da cui anzi è suscitata. La carità nella verità se ne nutre
e, nello stesso tempo, la manifesta. Essendo dono di Dio assolutamente gratuito, irrompe
nella nostra vita come qualcosa di non dovuto, che trascende ogni legge di giustizia.
Il dono per sua natura oltrepassa il merito, la sua regola è l'eccedenza. Esso ci
precede nella nostra stessa anima quale segno della presenza di Dio in noi e della
sua attesa nei nostri confronti. La verità, che al pari della carità è dono, è più
grande di noi, come insegna sant'Agostino.88 Anche la verità di noi stessi,
della nostra coscienza personale, ci è prima di tutto “data”. In ogni processo conoscitivo,
in effetti, la verità non è prodotta da noi, ma sempre trovata o, meglio, ricevuta.
Essa, come l'amore, « non nasce dal pensare e dal volere ma in certo qual modo si
impone all'essere umano ».89 Perché dono ricevuto da tutti, la carità
nella verità è una forza che costituisce la comunità, unifica gli uomini secondo modalità
in cui non ci sono barriere né confini. La comunità degli uomini può essere costituita
da noi stessi, ma non potrà mai con le sole sue forze essere una comunità pienamente
fraterna né essere spinta oltre ogni confine, ossia diventare una comunità veramente
universale: l'unità del genere umano, una comunione fraterna oltre ogni divisione,
nasce dalla con-vocazione della parola di Dio-Amore. Nell'affrontare questa decisiva
questione, dobbiamo precisare, da un lato, che la logica del dono non esclude la giustizia
e non si giustappone ad essa in un secondo momento e dall'esterno e, dall'altro, che
lo sviluppo economico, sociale e politico ha bisogno, se vuole essere autenticamente
umano, di fare spazio al principio di gratuità come espressione di fraternità. 35.
Il mercato, se c'è fiducia reciproca e generalizzata, è l'istituzione economica che
permette l'incontro tra le persone, in quanto operatori economici che utilizzano il
contratto come regola dei loro rapporti e che scambiano beni e servizi tra loro fungibili,
per soddisfare i loro bisogni e desideri. Il mercato è soggetto ai principi della
cosiddetta giustizia commutativa, che regola appunto i rapporti del dare e del ricevere
tra soggetti paritetici. Ma la dottrina sociale della Chiesa non ha mai smesso di
porre in evidenza l'importanza della giustizia distributiva e della giustizia sociale
per la stessa economia di mercato, non solo perché inserita nelle maglie di un contesto
sociale e politico più vasto, ma anche per la trama delle relazioni in cui si realizza.
Infatti il mercato, lasciato al solo principio dell'equivalenza di valore dei beni
scambiati, non riesce a produrre quella coesione sociale di cui pure ha bisogno per
ben funzionare. Senza forme interne di solidarietà e di fiducia reciproca, il mercato
non può pienamente espletare la propria funzione economica. Ed oggi è questa fiducia
che è venuta a mancare, e la perdita della fiducia è una perdita grave. Opportunamente
Paolo VI nella Populorum progressio sottolineava il fatto che lo stesso sistema economico
avrebbe tratto vantaggio da pratiche generalizzate di giustizia, in quanto i primi
a trarre beneficio dallo sviluppo dei Paesi poveri sarebbero stati quelli ricchi.90
Non si trattava solo di correggere delle disfunzioni mediante l'assistenza. I poveri
non sono da considerarsi un « fardello »,91 bensì una risorsa anche dal
punto di vista strettamente economico. È tuttavia da ritenersi errata la visione di
quanti pensano che l'economia di mercato abbia strutturalmente bisogno di una quota
di povertà e di sottosviluppo per poter funzionare al meglio. È interesse del mercato
promuovere emancipazione, ma per farlo veramente non può contare solo su se stesso,
perché non è in grado di produrre da sé ciò che va oltre le sue possibilità. Esso
deve attingere energie morali da altri soggetti, che sono capaci di generarle. 36.
L'attività economica non può risolvere tutti i problemi sociali mediante la semplice
estensione della logica mercantile. Questa va finalizzata al perseguimento del bene
comune, di cui deve farsi carico anche e soprattutto la comunità politica. Pertanto,
va tenuto presente che è causa di gravi scompensi separare l'agire economico, a cui
spetterebbe solo produrre ricchezza, da quello politico, a cui spetterebbe di perseguire
la giustizia mediante la ridistribuzione. La Chiesa ritiene da sempre che l'agire
economico non sia da considerare antisociale. Il mercato non è, e non deve perciò
diventare, di per sé il luogo della sopraffazione del forte sul debole. La società
non deve proteggersi dal mercato, come se lo sviluppo di quest'ultimo comportasse
ipso facto la morte dei rapporti autenticamente umani. È certamente vero che il mercato
può essere orientato in modo negativo, non perché sia questa la sua natura, ma perché
una certa ideologia lo può indirizzare in tal senso. Non va dimenticato che il mercato
non esiste allo stato puro. Esso trae forma dalle configurazioni culturali che lo
specificano e lo orientano. Infatti, l'economia e la finanza, in quanto strumenti,
possono esser mal utilizzati quando chi li gestisce ha solo riferimenti egoistici.
Così si può riuscire a trasformare strumenti di per sé buoni in strumenti dannosi.
Ma è la ragione oscurata dell'uomo a produrre queste conseguenze, non lo strumento
di per sé stesso. Perciò non è lo strumento a dover essere chiamato in causa ma l'uomo,
la sua coscienza morale e la sua responsabilità personale e sociale. La dottrina
sociale della Chiesa ritiene che possano essere vissuti rapporti autenticamente umani,
di amicizia e di socialità, di solidarietà e di reciprocità, anche all'interno dell'attività
economica e non soltanto fuori di essa o « dopo » di essa. La sfera economica non
è né eticamente neutrale né di sua natura disumana e antisociale. Essa appartiene
all'attività dell'uomo e, proprio perché umana, deve essere strutturata e istituzionalizzata
eticamente. La grande sfida che abbiamo davanti a noi, fatta emergere dalle problematiche
dello sviluppo in questo tempo di globalizzazione e resa ancor più esigente dalla
crisi economico-finanziaria, è di mostrare, a livello sia di pensiero sia di comportamenti,
che non solo i tradizionali principi dell'etica sociale, quali la trasparenza, l'onestà
e la responsabilità non possono venire trascurati o attenuati, ma anche che nei rapporti
mercantili il principio di gratuità e la logica del dono come espressione della fraternità
possono e devono trovare posto entro la normale attività economica. Ciò è un'esigenza
dell'uomo nel momento attuale, ma anche un'esigenza della stessa ragione economica.
Si tratta di una esigenza ad un tempo della carità e della verità. 37. La dottrina
sociale della Chiesa ha sempre sostenuto che la giustizia riguarda tutte le fasi dell'attività
economica, perché questa ha sempre a che fare con l'uomo e con le sue esigenze. Il
reperimento delle risorse, i finanziamenti, la produzione, il consumo e tutte le altre
fasi del ciclo economico hanno ineluttabilmente implicazioni morali. Così ogni decisione
economica ha una conseguenza di carattere morale. Tutto questo trova conferma anche
nelle scienze sociali e nelle tendenze dell'economia contemporanea. Forse un tempo
era pensabile affidare dapprima all'economia la produzione di ricchezza per assegnare
poi alla politica il compito di distribuirla. Oggi tutto ciò risulta più difficile,
dato che le attività economiche non sono costrette entro limiti territoriali, mentre
l'autorità dei governi continua ad essere soprattutto locale. Per questo, i canoni
della giustizia devono essere rispettati sin dall'inizio, mentre si svolge il processo
economico, e non già dopo o lateralmente. Inoltre, occorre che nel mercato si aprano
spazi per attività economiche realizzate da soggetti che liberamente scelgono di informare
il proprio agire a principi diversi da quelli del puro profitto, senza per ciò stesso
rinunciare a produrre valore economico. Le tante espressioni di economia che traggono
origine da iniziative religiose e laicali dimostrano che ciò è concretamente possibile. Nell'epoca
della globalizzazione l'economia risente di modelli competitivi legati a culture tra
loro molto diverse. I comportamenti economico-imprenditoriali che ne derivano trovano
prevalentemente un punto d'incontro nel rispetto della giustizia commutativa. La vita
economica ha senz'altro bisogno del contratto, per regolare i rapporti di scambio
tra valori equivalenti. Ma ha altresì bisogno di leggi giuste e di forme di ridistribuzione
guidate dalla politica, e inoltre di opere che rechino impresso lo spirito del dono.
L'economia globalizzata sembra privilegiare la prima logica, quella dello scambio
contrattuale, ma direttamente o indirettamente dimostra di aver bisogno anche delle
altre due, la logica politica e la logica del dono senza contropartita. 38. Il
mio predecessore Giovanni Paolo II aveva segnalato questa problematica, quando nella
Centesimus annus aveva rilevato la necessità di un sistema a tre soggetti: il mercato,
lo Stato e la società civile.92 Egli aveva individuato nella società civile
l'ambito più proprio di un'economia della gratuità e della fraternità, ma non aveva
inteso negarla agli altri due ambiti. Oggi possiamo dire che la vita economica deve
essere compresa come una realtà a più dimensioni: in tutte, in diversa misura e con
modalità specifiche, deve essere presente l'aspetto della reciprocità fraterna. Nell'epoca
della globalizzazione, l'attività economica non può prescindere dalla gratuità, che
dissemina e alimenta la solidarietà e la responsabilità per la giustizia e il bene
comune nei suoi vari soggetti e attori. Si tratta, in definitiva, di una forma concreta
e profonda di democrazia economica. La solidarietà è anzitutto sentirsi tutti responsabili
di tutti,93 quindi non può essere delegata solo allo Stato. Mentre ieri
si poteva ritenere che prima bisognasse perseguire la giustizia e che la gratuità
intervenisse dopo come un complemento, oggi bisogna dire che senza la gratuità non
si riesce a realizzare nemmeno la giustizia. Serve, pertanto, un mercato nel quale
possano liberamente operare, in condizioni di pari opportunità, imprese che perseguono
fini istituzionali diversi. Accanto all'impresa privata orientata al profitto, e ai
vari tipi di impresa pubblica, devono potersi radicare ed esprimere quelle organizzazioni
produttive che perseguono fini mutualistici e sociali. È dal loro reciproco confronto
sul mercato che ci si può attendere una sorta di ibridazione dei comportamenti d'impresa
e dunque un'attenzione sensibile alla civilizzazione dell'economia. Carità nella verità,
in questo caso, significa che bisogna dare forma e organizzazione a quelle iniziative
economiche che, pur senza negare il profitto, intendono andare oltre la logica dello
scambio degli equivalenti e del profitto fine a se stesso. 39. Paolo VI nella Populorum
progressio chiedeva di configurare un modello di economia di mercato capace di includere,
almeno tendenzialmente, tutti i popoli e non solamente quelli adeguatamente attrezzati.
Chiedeva che ci si impegnasse a promuovere un mondo più umano per tutti, un mondo
nel quale tutti avessero « qualcosa da dare e da ricevere, senza che il progresso
degli uni costituisca un ostacolo allo sviluppo degli altri ».94 Egli in
questo modo estendeva al piano universale le stesse richieste e aspirazioni contenute
nella Rerum novarum, scritta quando per la prima volta, in conseguenza della rivoluzione
industriale, si affermò l'idea — sicuramente avanzata per quel tempo — che l'ordine
civile per reggersi aveva bisogno anche dell'intervento ridistributivo dello Stato.
Oggi questa visione, oltre a essere posta in crisi dai processi di apertura dei mercati
e delle società, mostra di essere incompleta per soddisfare le esigenze di un'economia
pienamente umana. Quanto la dottrina sociale della Chiesa ha sempre sostenuto a partire
dalla sua visione dell'uomo e della società oggi è richiesto anche dalle dinamiche
caratteristiche della globalizzazione. Quando la logica del mercato e quella dello
Stato si accordano tra loro per continuare nel monopolio dei rispettivi ambiti di
influenza, alla lunga vengono meno la solidarietà nelle relazioni tra i cittadini,
la partecipazione e l'adesione, l'agire gratuito, che sono altra cosa rispetto al
“dare per avere”, proprio della logica dello scambio, e al “dare per dovere”, proprio
della logica dei comportamenti pubblici, imposti per legge dallo Stato. La vittoria
sul sottosviluppo richiede di agire non solo sul miglioramento delle transazioni fondate
sullo scambio, non solo sui trasferimenti delle strutture assistenziali di natura
pubblica, ma soprattutto sulla progressiva apertura, in contesto mondiale, a forme
di attività economica caratterizzate da quote di gratuità e di comunione. Il binomio
esclusivo mercato-Stato corrode la socialità, mentre le forme economiche solidali,
che trovano il loro terreno migliore nella società civile senza ridursi ad essa, creano
socialità. Il mercato della gratuità non esiste e non si possono disporre per legge
atteggiamenti gratuiti. Eppure sia il mercato sia la politica hanno bisogno di persone
aperte al dono reciproco. 40. Le attuali dinamiche economiche internazionali, caratterizzate
da gravi distorsioni e disfunzioni, richiedono profondi cambiamenti anche nel modo
di intendere l'impresa. Vecchie modalità della vita imprenditoriale vengono meno,
ma altre promettenti si profilano all'orizzonte. Uno dei rischi maggiori è senz'altro
che l'impresa risponda quasi esclusivamente a chi in essa investe e finisca così per
ridurre la sua valenza sociale. Sempre meno le imprese, grazie alla crescita di dimensione
ed al bisogno di sempre maggiori capitali, fanno capo a un imprenditore stabile che
si senta responsabile a lungo termine, e non solo a breve, della vita e dei risultati
della sua impresa, e sempre meno dipendono da un unico territorio. Inoltre la cosiddetta
delocalizzazione dell'attività produttiva può attenuare nell'imprenditore il senso
di responsabilità nei confronti di portatori di interessi, quali i lavoratori, i fornitori,
i consumatori, l'ambiente naturale e la più ampia società circostante, a vantaggio
degli azionisti, che non sono legati a uno spazio specifico e godono quindi di una
straordinaria mobilità. Il mercato internazionale dei capitali, infatti, offre oggi
una grande libertà di azione. È però anche vero che si sta dilatando la consapevolezza
circa la necessità di una più ampia “responsabilità sociale” dell'impresa. Anche se
le impostazioni etiche che guidano oggi il dibattito sulla responsabilità sociale
dell'impresa non sono tutte accettabili secondo la prospettiva della dottrina sociale
della Chiesa, è un fatto che si va sempre più diffondendo il convincimento in base
al quale la gestione dell'impresa non può tenere conto degli interessi dei soli proprietari
della stessa, ma deve anche farsi carico di tutte le altre categorie di soggetti che
contribuiscono alla vita dell'impresa: i lavoratori, i clienti, i fornitori dei vari
fattori di produzione, la comunità di riferimento. Negli ultimi anni si è notata la
crescita di una classe cosmopolita di manager, che spesso rispondono solo alle indicazioni
degli azionisti di riferimento costituiti in genere da fondi anonimi che stabiliscono
di fatto i loro compensi. Anche oggi tuttavia vi sono molti manager che con analisi
lungimirante si rendono sempre più conto dei profondi legami che la loro impresa ha
con il territorio, o con i territori, in cui opera. Paolo VI invitava a valutare seriamente
il danno che il trasferimento all'estero di capitali a esclusivo vantaggio personale
può produrre alla propria Nazione.95 Giovanni Paolo II avvertiva che investire
ha sempre un significato morale, oltre che economico.96 Tutto questo —
va ribadito — è valido anche oggi, nonostante che il mercato dei capitali sia stato
fortemente liberalizzato e le moderne mentalità tecnologiche possano indurre a pensare
che investire sia solo un fatto tecnico e non anche umano ed etico. Non c'è motivo
per negare che un certo capitale possa fare del bene, se investito all'estero piuttosto
che in patria. Devono però essere fatti salvi i vincoli di giustizia, tenendo anche
conto di come quel capitale si è formato e dei danni alle persone che comporterà il
suo mancato impiego nei luoghi in cui esso è stato generato.97 Bisogna
evitare che il motivo per l'impiego delle risorse finanziarie sia speculativo e ceda
alla tentazione di ricercare solo profitto di breve termine, e non anche la sostenibilità
dell'impresa a lungo termine, il suo puntuale servizio all'economia reale e l'attenzione
alla promozione, in modo adeguato ed opportuno, di iniziative economiche anche nei
Paesi bisognosi di sviluppo. Non c'è nemmeno motivo di negare che la delocalizzazione,
quando comporta investimenti e formazione, possa fare del bene alle popolazioni del
Paese che la ospita. Il lavoro e la conoscenza tecnica sono un bisogno universale.
Non è però lecito delocalizzare solo per godere di particolari condizioni di favore,
o peggio per sfruttamento, senza apportare alla società locale un vero contributo
per la nascita di un robusto sistema produttivo e sociale, fattore imprescindibile
di sviluppo stabile. 41. Nel contesto di questo discorso è utile osservare che
l'imprenditorialità ha e deve sempre più assumere un significato plurivalente. La
perdurante prevalenza del binomio mercato-Stato ci ha abituati a pensare esclusivamente
all'imprenditore privato di tipo capitalistico da un lato e al dirigente statale dall'altro.
In realtà, l'imprenditorialità va intesa in modo articolato. Ciò risulta da una serie
di motivazioni metaeconomiche. L'imprenditorialità, prima di avere un significato
professionale, ne ha uno umano.98 Essa è inscritta in ogni lavoro, visto
come « actus personae »,99 per cui è bene che a ogni lavoratore sia offerta
la possibilità di dare il proprio apporto in modo che egli stesso « sappia di lavorare
“in proprio” ».100 Non a caso Paolo VI insegnava che « ogni lavoratore
è un creatore ».101 Proprio per rispondere alle esigenze e alla dignità
di chi lavora, e ai bisogni della società, esistono vari tipi di imprese, ben oltre
la sola distinzione tra « privato » e « pubblico ». Ognuna richiede ed esprime una
capacità imprenditoriale specifica. Al fine di realizzare un'economia che nel prossimo
futuro sappia porsi al servizio del bene comune nazionale e mondiale, è opportuno
tenere conto di questo significato esteso di imprenditorialità. Questa concezione
più ampia favorisce lo scambio e la formazione reciproca tra le diverse tipologie
di imprenditorialità, con travaso di competenze dal mondo non profit a quello profit
e viceversa, da quello pubblico a quello proprio della società civile, da quello delle
economie avanzate a quello dei Paesi in via di sviluppo. Anche l'“autorità politica”
ha un significato plurivalente, che non può essere dimenticato, mentre si procede
alla realizzazione di un nuovo ordine economico-produttivo, socialmente responsabile
e a misura d'uomo. Come si intende coltivare un'imprenditorialità differenziata sul
piano mondiale, così si deve promuovere un'autorità politica distribuita e attivantesi
su più piani. L'economia integrata dei giorni nostri non elimina il ruolo degli Stati,
piuttosto ne impegna i Governi ad una più forte collaborazione reciproca. Ragioni
di saggezza e di prudenza suggeriscono di non proclamare troppo affrettatamente la
fine dello Stato. In relazione alla soluzione della crisi attuale, il suo ruolo sembra
destinato a crescere, riacquistando molte delle sue competenze. Ci sono poi delle
Nazioni in cui la costruzione o ricostruzione dello Stato continua ad essere un elemento
chiave del loro sviluppo. L'aiuto internazionale proprio all'interno di un progetto
solidaristico mirato alla soluzione degli attuali problemi economici dovrebbe piuttosto
sostenere il consolidamento di sistemi costituzionali, giuridici, amministrativi nei
Paesi che non godono ancora pienamente di questi beni. Accanto agli aiuti economici,
devono esserci quelli volti a rafforzare le garanzie proprie dello Stato di diritto,
un sistema di ordine pubblico e di carcerazione efficiente nel rispetto dei diritti
umani, istituzioni veramente democratiche. Non è necessario che lo Stato abbia dappertutto
le medesime caratteristiche: il sostegno ai sistemi costituzionali deboli affinché
si rafforzino può benissimo accompagnarsi con lo sviluppo di altri soggetti politici,
di natura culturale, sociale, territoriale o religiosa, accanto allo Stato. L'articolazione
dell'autorità politica a livello locale, nazionale e internazionale è, tra l'altro,
una delle vie maestre per arrivare ad essere in grado di orientare la globalizzazione
economica. È anche il modo per evitare che essa mini di fatto i fondamenti della democrazia. 42.
Talvolta nei riguardi della globalizzazione si notano atteggiamenti fatalistici, come
se le dinamiche in atto fossero prodotte da anonime forze impersonali e da strutture
indipendenti dalla volontà umana.102 È bene ricordare a questo proposito
che la globalizzazione va senz'altro intesa come un processo socio-economico, ma questa
non è l'unica sua dimensione. Sotto il processo più visibile c'è la realtà di un'umanità
che diviene sempre più interconnessa; essa è costituita da persone e da popoli a cui
quel processo deve essere di utilità e di sviluppo,103 grazie all'assunzione
da parte tanto dei singoli quanto della collettività delle rispettive responsabilità.
Il superamento dei confini non è solo un fatto materiale, ma anche culturale nelle
sue cause e nei suoi effetti. Se si legge deterministicamente la globalizzazione,
si perdono i criteri per valutarla ed orientarla. Essa è una realtà umana e può avere
a monte vari orientamenti culturali sui quali occorre esercitare il discernimento.
La verità della globalizzazione come processo e il suo criterio etico fondamentale
sono dati dall'unità della famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene. Occorre quindi
impegnarsi incessantemente per favorire un orientamento culturale personalista e comunitario,
aperto alla trascendenza, del processo di integrazione planetaria. Nonostante alcune
sue dimensioni strutturali che non vanno negate ma nemmeno assolutizzate, « la globalizzazione,
a priori, non è né buona né cattiva. Sarà ciò che le persone ne faranno ».104
Non dobbiamo esserne vittime, ma protagonisti, procedendo con ragionevolezza, guidati
dalla carità e dalla verità. Opporvisi ciecamente sarebbe un atteggiamento sbagliato,
preconcetto, che finirebbe per ignorare un processo contrassegnato anche da aspetti
positivi, con il rischio di perdere una grande occasione di inserirsi nelle molteplici
opportunità di sviluppo da esso offerte. I processi di globalizzazione, adeguatamente
concepiti e gestiti, offrono la possibilità di una grande ridistribuzione della ricchezza
a livello planetario come in precedenza non era mai avvenuto; se mal gestiti, possono
invece far crescere povertà e disuguaglianza, nonché contagiare con una crisi l'intero
mondo. Bisogna correggerne le disfunzioni, anche gravi, che introducono nuove divisioni
tra i popoli e dentro i popoli e fare in modo che la ridistribuzione della ricchezza
non avvenga con una ridistribuzione della povertà o addirittura con una sua accentuazione,
come una cattiva gestione della situazione attuale potrebbe farci temere. Per molto
tempo si è pensato che i popoli poveri dovessero rimanere ancorati a un prefissato
stadio di sviluppo e dovessero accontentarsi della filantropia dei popoli sviluppati.
Contro questa mentalità ha preso posizione Paolo VI nella Populorum progressio. Oggi
le forze materiali utilizzabili per far uscire quei popoli dalla miseria sono potenzialmente
maggiori di un tempo, ma di esse hanno finito per avvalersi prevalentemente gli stessi
popoli dei Paesi sviluppati, che hanno potuto sfruttare meglio il processo di liberalizzazione
dei movimenti di capitali e del lavoro. La diffusione delle sfere di benessere a livello
mondiale non va, dunque, frenata con progetti egoistici, protezionistici o dettati
da interessi particolari. Infatti il coinvolgimento dei Paesi emergenti o in via di
sviluppo, permette oggi di meglio gestire la crisi. La transizione insita nel processo
di globalizzazione presenta grandi difficoltà e pericoli, che potranno essere superati
solo se si saprà prendere coscienza di quell'anima antropologica ed etica, che dal
profondo sospinge la globalizzazione stessa verso traguardi di umanizzazione solidale.
Purtroppo tale anima è spesso soverchiata e compressa da prospettive etico-culturali
di impostazione individualistica e utilitaristica. La globalizzazione è fenomeno multidimensionale
e polivalente, che esige di essere colto nella diversità e nell'unità di tutte le
sue dimensioni, compresa quella teologica. Ciò consentirà di vivere ed orientare la
globalizzazione dell'umanità in termini di relazionalità, di comunione e di condivisione.
CAPITOLO
QUARTO SVILUPPO DEI POPOLI, DIRITTI E DOVERI, AMBIENTE 43. « La solidarietà
universale, che è un fatto e per noi un beneficio, è altresì un dovere ».105
Molte persone, oggi, tendono a coltivare la pretesa di non dover niente a nessuno,
tranne che a se stesse. Ritengono di essere titolari solo di diritti e incontrano
spesso forti ostacoli a maturare una responsabilità per il proprio e l'altrui sviluppo
integrale. Per questo è importante sollecitare una nuova riflessione su come i diritti
presuppongano doveri senza i quali si trasformano in arbitrio.106 Si assiste
oggi a una pesante contraddizione. Mentre, per un verso, si rivendicano presunti diritti,
di carattere arbitrario e voluttuario, con la pretesa di vederli riconosciuti e promossi
dalle strutture pubbliche, per l'altro verso, vi sono diritti elementari e fondamentali
disconosciuti e violati nei confronti di tanta parte dell'umanità.107 Si
è spesso notata una relazione tra la rivendicazione del diritto al superfluo o addirittura
alla trasgressione e al vizio, nelle società opulente, e la mancanza di cibo, di acqua
potabile, di istruzione di base o di cure sanitarie elementari in certe regioni del
mondo del sottosviluppo e anche nelle periferie di grandi metropoli. La relazione
sta nel fatto che i diritti individuali, svincolati da un quadro di doveri che conferisca
loro un senso compiuto, impazziscono e alimentano una spirale di richieste praticamente
illimitata e priva di criteri. L'esasperazione dei diritti sfocia nella dimenticanza
dei doveri. I doveri delimitano i diritti perché rimandano al quadro antropologico
ed etico entro la cui verità anche questi ultimi si inseriscono e così non diventano
arbitrio. Per questo motivo i doveri rafforzano i diritti e propongono la loro difesa
e promozione come un impegno da assumere a servizio del bene. Se, invece, i diritti
dell'uomo trovano il proprio fondamento solo nelle deliberazioni di un'assemblea di
cittadini, essi possono essere cambiati in ogni momento e, quindi, il dovere di rispettarli
e perseguirli si allenta nella coscienza comune. I Governi e gli Organismi internazionali
possono allora dimenticare l'oggettività e l'« indisponibilità » dei diritti. Quando
ciò avviene, il vero sviluppo dei popoli è messo in pericolo.108 Comportamenti
simili compromettono l'autorevolezza degli Organismi internazionali, soprattutto agli
occhi dei Paesi maggiormente bisognosi di sviluppo. Questi, infatti, richiedono che
la comunità internazionale assuma come un dovere l'aiutarli a essere « artefici del
loro destino »,109 ossia ad assumersi a loro volta dei doveri. La condivisione
dei doveri reciproci mobilita assai più della sola rivendicazione di diritti. 44.
La concezione dei diritti e dei doveri nello sviluppo deve tener conto anche delle
problematiche connesse con la crescita demografica. Si tratta di un aspetto molto
importante del vero sviluppo, perché concerne i valori irrinunciabili della vita e
della famiglia.110 Considerare l'aumento della popolazione come causa prima
del sottosviluppo è scorretto, anche dal punto di vista economico: basti pensare,
da una parte, all'importante diminuzione della mortalità infantile e il prolungamento
della vita media che si registrano nei Paesi economicamente sviluppati; dall'altra,
ai segni di crisi rilevabili nelle società in cui si registra un preoccupante calo
della natalità. Resta ovviamente doveroso prestare la debita attenzione ad una procreazione
responsabile, che costituisce, tra l'altro, un fattivo contributo allo sviluppo umano
integrale. La Chiesa, che ha a cuore il vero sviluppo dell'uomo, gli raccomanda il
pieno rispetto dei valori umani anche nell'esercizio della sessualità: non la si può
ridurre a mero fatto edonistico e ludico, così come l'educazione sessuale non si può
ridurre a un'istruzione tecnica, con l'unica preoccupazione di difendere gli interessati
da eventuali contagi o dal « rischio » procreativo. Ciò equivarrebbe ad impoverire
e disattendere il significato profondo della sessualità, che deve invece essere riconosciuto
ed assunto con responsabilità tanto dalla persona quanto dalla comunità. La responsabilità
vieta infatti sia di considerare la sessualità una semplice fonte di piacere, sia
di regolarla con politiche di forzata pianificazione delle nascite. In ambedue i casi
si è in presenza di concezioni e di politiche materialistiche, nelle quali le persone
finiscono per subire varie forme di violenza. A tutto ciò si deve opporre la competenza
primaria delle famiglie in questo campo,111 rispetto allo Stato e alle
sue politiche restrittive, nonché un'appropriata educazione dei genitori. L'apertura
moralmente responsabile alla vita è una ricchezza sociale ed economica. Grandi Nazioni
hanno potuto uscire dalla miseria anche grazie al grande numero e alle capacità dei
loro abitanti. Al contrario, Nazioni un tempo floride conoscono ora una fase di incertezza
e in qualche caso di declino proprio a causa della denatalità, problema cruciale per
le società di avanzato benessere. La diminuzione delle nascite, talvolta al di sotto
del cosiddetto « indice di sostituzione », mette in crisi anche i sistemi di assistenza
sociale, ne aumenta i costi, contrae l'accantonamento di risparmio e di conseguenza
le risorse finanziarie necessarie agli investimenti, riduce la disponibilità di lavoratori
qualificati, restringe il bacino dei « cervelli » a cui attingere per le necessità
della Nazione. Inoltre, le famiglie di piccola, e talvolta piccolissima, dimensione
corrono il rischio di impoverire le relazioni sociali, e di non garantire forme efficaci
di solidarietà. Sono situazioni che presentano sintomi di scarsa fiducia nel futuro
come pure di stanchezza morale. Diventa così una necessità sociale, e perfino economica,
proporre ancora alle nuove generazioni la bellezza della famiglia e del matrimonio,
la rispondenza di tali istituzioni alle esigenze più profonde del cuore e della dignità
della persona. In questa prospettiva, gli Stati sono chiamati a varare politiche che
promuovano la centralità e l'integrità della famiglia, fondata sul matrimonio tra
un uomo e una donna, prima e vitale cellula della società, 112 facendosi
carico anche dei suoi problemi economici e fiscali, nel rispetto della sua natura
relazionale. 45. Rispondere alle esigenze morali più profonde della persona ha
anche importanti e benefiche ricadute sul piano economico. L'economia infatti ha bisogno
dell'etica per il suo corretto funzionamento; non di un'etica qualsiasi, bensì di
un'etica amica della persona. Oggi si parla molto di etica in campo economico, finanziario,
aziendale. Nascono Centri di studio e percorsi formativi di business ethics; si diffonde
nel mondo sviluppato il sistema delle certificazioni etiche, sulla scia del movimento
di idee nato intorno alla responsabilità sociale dell'impresa. Le banche propongono
conti e fondi di investimento cosiddetti « etici ». Si sviluppa una « finanza etica
», soprattutto mediante il microcredito e, più in generale, la microfinanza. Questi
processi suscitano apprezzamento e meritano un ampio sostegno. I loro effetti positivi
si fanno sentire anche nelle aree meno sviluppate della terra. È bene, tuttavia, elaborare
anche un valido criterio di discernimento, in quanto si nota un certo abuso dell'aggettivo
« etico » che, adoperato in modo generico, si presta a designare contenuti anche molto
diversi, al punto da far passare sotto la sua copertura decisioni e scelte contrarie
alla giustizia e al vero bene dell'uomo. Molto, infatti, dipende dal sistema morale
di riferimento. Su questo argomento la dottrina sociale della Chiesa ha un suo specifico
apporto da dare, che si fonda sulla creazione dell'uomo “ad immagine di Dio” (Gn 1,27),
un dato da cui discende l'inviolabile dignità della persona umana, come anche il trascendente
valore delle norme morali naturali. Un'etica economica che prescindesse da questi
due pilastri rischierebbe inevitabilmente di perdere la propria connotazione e di
prestarsi a strumentalizzazioni; più precisamente essa rischierebbe di diventare funzionale
ai sistemi economico-finanziari esistenti, anziché correttiva delle loro disfunzioni.
Tra l'altro, finirebbe anche per giustificare il finanziamento di progetti che etici
non sono. Bisogna, poi, non ricorrere alla parola « etica » in modo ideologicamente
discriminatorio, lasciando intendere che non sarebbero etiche le iniziative che non
si fregiassero formalmente di questa qualifica. Occorre adoperarsi — l'osservazione
è qui essenziale! — non solamente perché nascano settori o segmenti « etici » dell'economia
o della finanza, ma perché l'intera economia e l'intera finanza siano etiche e lo
siano non per un'etichettatura dall'esterno, ma per il rispetto di esigenze intrinseche
alla loro stessa natura. Parla con chiarezza, a questo riguardo, la dottrina sociale
della Chiesa, che ricorda come l'economia, con tutte le sue branche, è un settore
dell'attività umana.113 46. Considerando le tematiche relative al rapporto
tra impresa ed etica, nonché l'evoluzione che il sistema produttivo sta compiendo,
sembra che la distinzione finora invalsa tra imprese finalizzate al profitto (profit)
e organizzazioni non finalizzate al profitto (non profit) non sia più in grado di
dar conto completo della realtà, né di orientare efficacemente il futuro. In questi
ultimi decenni è andata emergendo un'ampia area intermedia tra le due tipologie di
imprese. Essa è costituita da imprese tradizionali, che però sottoscrivono dei patti
di aiuto ai Paesi arretrati; da fondazioni che sono espressione di singole imprese;
da gruppi di imprese aventi scopi di utilità sociale; dal variegato mondo dei soggetti
della cosiddetta economia civile e di comunione. Non si tratta solo di un « terzo
settore », ma di una nuova ampia realtà composita, che coinvolge il privato e il pubblico
e che non esclude il profitto, ma lo considera strumento per realizzare finalità umane
e sociali. Il fatto che queste imprese distribuiscano o meno gli utili oppure che
assumano l'una o l'altra delle configurazioni previste dalle norme giuridiche diventa
secondario rispetto alla loro disponibilità a concepire il profitto come uno strumento
per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e della società. È auspicabile
che queste nuove forme di impresa trovino in tutti i Paesi anche adeguata configurazione
giuridica e fiscale. Esse, senza nulla togliere all'importanza e all'utilità economica
e sociale delle forme tradizionali di impresa, fanno evolvere il sistema verso una
più chiara e compiuta assunzione dei doveri da parte dei soggetti economici. Non solo.
È la stessa pluralità delle forme istituzionali di impresa a generare un mercato più
civile e al tempo stesso più competitivo. 47. Il potenziamento delle diverse tipologie
di imprese e, in particolare, di quelle capaci di concepire il profitto come uno strumento
per raggiungere finalità di umanizzazione del mercato e delle società, deve essere
perseguito anche nei Paesi che soffrono di esclusione o di emarginazione dai circuiti
dell'economia globale, dove è molto importante procedere con progetti di sussidiarietà
opportunamente concepita e gestita che tendano a potenziare i diritti, prevedendo
però sempre anche l'assunzione di corrispettive responsabilità. Negli interventi per
lo sviluppo va fatto salvo il principio della centralità della persona umana, la quale
è il soggetto che deve assumersi primariamente il dovere dello sviluppo. L'interesse
principale è il miglioramento delle situazioni di vita delle persone concrete di una
certa regione, affinché possano assolvere a quei doveri che attualmente l'indigenza
non consente loro di onorare. La sollecitudine non può mai essere un atteggiamento
astratto. I programmi di sviluppo, per poter essere adattati alle singole situazioni,
devono avere caratteristiche di flessibilità; e le persone beneficiarie dovrebbero
essere coinvolte direttamente nella loro progettazione e rese protagoniste della loro
attuazione. È anche necessario applicare i criteri della progressione e dell'accompagnamento
— compreso il monitoraggio dei risultati –, perché non ci sono ricette universalmente
valide. Molto dipende dalla concreta gestione degli interventi. « Artefici del loro
proprio sviluppo, i popoli ne sono i primi responsabili. Ma non potranno realizzarlo
nell'isolamento ».114 Oggi, con il consolidamento del processo di progressiva
integrazione del pianeta, questo ammonimento di Paolo VI è ancor più valido. Le dinamiche
di inclusione non hanno nulla di meccanico. Le soluzioni vanno calibrate sulla vita
dei popoli e delle persone concrete, sulla base di una valutazione prudenziale di
ogni situazione. Accanto ai macroprogetti servono i microprogetti e, soprattutto,
serve la mobilitazione fattiva di tutti i soggetti della società civile, tanto delle
persone giuridiche quanto delle persone fisiche. La cooperazione internazionale
ha bisogno di persone che condividano il processo di sviluppo economico e umano, mediante
la solidarietà della presenza, dell'accompagnamento, della formazione e del rispetto.
Da questo punto di vista, gli stessi Organismi internazionali dovrebbero interrogarsi
sulla reale efficacia dei loro apparati burocratici e amministrativi, spesso troppo
costosi. Capita talvolta che chi è destinatario degli aiuti diventi funzionale a chi
lo aiuta e che i poveri servano a mantenere in vita dispendiose organizzazioni burocratiche
che riservano per la propria conservazione percentuali troppo elevate di quelle risorse
che invece dovrebbero essere destinate allo sviluppo. In questa prospettiva, sarebbe
auspicabile che tutti gli Organismi internazionali e le Organizzazioni non governative
si impegnassero ad una piena trasparenza, informando i donatori e l'opinione pubblica
circa la percentuale dei fondi ricevuti destinata ai programmi di cooperazione, circa
il vero contenuto di tali programmi, e infine circa la composizione delle spese dell'istituzione
stessa. 48. Il tema dello sviluppo è oggi fortemente collegato anche ai doveri
che nascono dal rapporto dell'uomo con l'ambiente naturale. Questo è stato donato
da Dio a tutti, e il suo uso rappresenta per noi una responsabilità verso i poveri,
le generazioni future e l'umanità intera. Se la natura, e per primo l'essere umano,
vengono considerati come frutto del caso o del determinismo evolutivo, la consapevolezza
della responsabilità si attenua nelle coscienze. Nella natura il credente riconosce
il meraviglioso risultato dell'intervento creativo di Dio, che l'uomo può responsabilmente
utilizzare per soddisfare i suoi legittimi bisogni — materiali e immateriali — nel
rispetto degli intrinseci equilibri del creato stesso. Se tale visione viene meno,
l'uomo finisce o per considerare la natura un tabù intoccabile o, al contrario, per
abusarne. Ambedue questi atteggiamenti non sono conformi alla visione cristiana della
natura, frutto della creazione di Dio. La natura è espressione di un disegno di
amore e di verità. Essa ci precede e ci è donata da Dio come ambiente di vita. Ci
parla del Creatore (cfr Rm 1, 20) e del suo amore per l'umanità. È destinata ad essere
« ricapitolata » in Cristo alla fine dei tempi (cfr Ef 1, 9-10; Col 1, 19-20). Anch'essa,
quindi, è una « vocazione ».115 La natura è a nostra disposizione non come
« un mucchio di rifiuti sparsi a caso »,116 bensì come un dono del Creatore
che ne ha disegnato gli ordinamenti intrinseci, affinché l'uomo ne tragga gli orientamenti
doverosi per “custodirla e coltivarla” (Gn 2,15). Ma bisogna anche sottolineare che
è contrario al vero sviluppo considerare la natura più importante della stessa persona
umana. Questa posizione induce ad atteggiamenti neopagani o di nuovo panteismo: dalla
sola natura, intesa in senso puramente naturalistico, non può derivare la salvezza
per l'uomo. Peraltro, bisogna anche rifiutare la posizione contraria, che mira alla
sua completa tecnicizzazione, perché l'ambiente naturale non è solo materia di cui
disporre a nostro piacimento, ma opera mirabile del Creatore, recante in sé una “grammatica”
che indica finalità e criteri per un utilizzo sapiente, non strumentale e arbitrario.
Oggi molti danni allo sviluppo provengono proprio da queste concezioni distorte. Ridurre
completamente la natura ad un insieme di semplici dati di fatto finisce per essere
fonte di violenza nei confronti dell'ambiente e addirittura per motivare azioni irrispettose
verso la stessa natura dell'uomo. Questa, in quanto costituita non solo di materia
ma anche di spirito e, come tale, essendo ricca di significati e di fini trascendenti
da raggiungere, ha un carattere normativo anche per la cultura. L'uomo interpreta
e modella l'ambiente naturale mediante la cultura, la quale a sua volta viene orientata
mediante la libertà responsabile, attenta ai dettami della legge morale. I progetti
per uno sviluppo umano integrale non possono pertanto ignorare le generazioni successive,
ma devono essere improntati a solidarietà e a giustizia intergenerazionali, tenendo
conto di molteplici ambiti: l'ecologico, il giuridico, l'economico, il politico, il
culturale.117 49. Le questioni legate alla cura e alla salvaguardia
dell'ambiente devono oggi tenere in debita considerazione le problematiche energetiche.
L'accaparramento delle risorse energetiche non rinnovabili da parte di alcuni Stati,
gruppi di potere e imprese costituisce, infatti, un grave impedimento per lo sviluppo
dei Paesi poveri. Questi non hanno i mezzi economici né per accedere alle esistenti
fonti energetiche non rinnovabili né per finanziare la ricerca di fonti nuove e alternative.
L'incetta delle risorse naturali, che in molti casi si trovano proprio nei Paesi poveri,
genera sfruttamento e frequenti conflitti tra le Nazioni e al loro interno. Tali conflitti
si combattono spesso proprio sul suolo di quei Paesi, con pesanti bilanci in termini
di morte, distruzione e ulteriore degrado. La comunità internazionale ha il compito
imprescindibile di trovare le strade istituzionali per disciplinare lo sfruttamento
delle risorse non rinnovabili, con la partecipazione anche dei Paesi poveri, in modo
da pianificare insieme il futuro. Anche su questo fronte vi è l'urgente necessità
morale di una rinnovata solidarietà, specialmente nei rapporti tra i Paesi in via
di sviluppo e i Paesi altamente industrializzati.118 Le società tecnologicamente
avanzate possono e devono diminuire il proprio fabbisogno energetico sia perché le
attività manifatturiere evolvono, sia perché tra i loro cittadini si diffonde una
sensibilità ecologica maggiore. Si deve inoltre aggiungere che oggi è realizzabile
un miglioramento dell'efficienza energetica ed è al tempo stesso possibile far avanzare
la ricerca di energie alternative. È però anche necessaria una ridistribuzione planetaria
delle risorse energetiche, in modo che anche i Paesi che ne sono privi possano accedervi.
Il loro destino non può essere lasciato nelle mani del primo arrivato o alla logica
del più forte. Si tratta di problemi rilevanti che, per essere affrontati in modo
adeguato, richiedono da parte di tutti la responsabile presa di coscienza delle conseguenze
che si riverseranno sulle nuove generazioni, soprattutto sui moltissimi giovani presenti
nei popoli poveri, i quali « reclamano la parte attiva che loro spetta nella costruzione
d'un mondo migliore ».119 50. Questa responsabilità è globale, perché
non concerne solo l'energia, ma tutto il creato, che non dobbiamo lasciare alle nuove
generazioni depauperato delle sue risorse. All'uomo è lecito esercitare un governo
responsabile sulla natura per custodirla, metterla a profitto e coltivarla anche in
forme nuove e con tecnologie avanzate in modo che essa possa degnamente accogliere
e nutrire la popolazione che la abita. C'è spazio per tutti su questa nostra terra:
su di essa l'intera famiglia umana deve trovare le risorse necessarie per vivere dignitosamente,
con l'aiuto della natura stessa, dono di Dio ai suoi figli, e con l'impegno del proprio
lavoro e della propria inventiva. Dobbiamo però avvertire come dovere gravissimo quello
di consegnare la terra alle nuove generazioni in uno stato tale che anch'esse possano
degnamente abitarla e ulteriormente coltivarla. Ciò implica l'impegno di decidere
insieme, « dopo aver ponderato responsabilmente la strada da percorrere, con l'obiettivo
di rafforzare quell'alleanza tra essere umano e ambiente che deve essere specchio
dell'amore creatore di Dio, dal quale proveniamo e verso il quale siamo in cammino
».120 È auspicabile che la comunità internazionale e i singoli governi
sappiano contrastare in maniera efficace le modalità d'utilizzo dell'ambiente che
risultino ad esso dannose. È altresì doveroso che vengano intrapresi, da parte delle
autorità competenti, tutti gli sforzi necessari affinché i costi economici e sociali
derivanti dall'uso delle risorse ambientali comuni siano riconosciuti in maniera trasparente
e siano pienamente supportati da coloro che ne usufruiscono e non da altre popolazioni
o dalle generazioni future: la protezione dell'ambiente, delle risorse e del clima
richiede che tutti i responsabili internazionali agiscano congiuntamente e dimostrino
prontezza ad operare in buona fede, nel rispetto della legge e della solidarietà nei
confronti delle regioni più deboli del pianeta.121 Uno dei maggiori compiti
dell'economia è proprio il più efficiente uso delle risorse, non l'abuso, tenendo
sempre presente che la nozione di efficienza non è assiologicamente neutrale. 51.
Le modalità con cui l'uomo tratta l'ambiente influiscono sulle modalità con cui tratta
se stesso e, viceversa. Ciò richiama la società odierna a rivedere seriamente il suo
stile di vita che, in molte parti del mondo, è incline all'edonismo e al consumismo,
restando indifferente ai danni che ne derivano.122 È necessario un effettivo
cambiamento di mentalità che ci induca ad adottare nuovi stili di vita, “nei quali
la ricerca del vero, del bello e del buono e la comunione con gli altri uomini per
una crescita comune siano gli elementi che determinano le scelte dei consumi, dei
risparmi e degli investimenti”.123 Ogni lesione della solidarietà e dell'amicizia
civica provoca danni ambientali, così come il degrado ambientale, a sua volta, provoca
insoddisfazione nelle relazioni sociali. La natura, specialmente nella nostra epoca,
è talmente integrata nelle dinamiche sociali e culturali da non costituire quasi più
una variabile indipendente. La desertificazione e l'impoverimento produttivo di alcune
aree agricole sono anche frutto dell'impoverimento delle popolazioni che le abitano
e della loro arretratezza. Incentivando lo sviluppo economico e culturale di quelle
popolazioni, si tutela anche la natura. Inoltre, quante risorse naturali sono devastate
dalle guerre! La pace dei popoli e tra i popoli permetterebbe anche una maggiore salvaguardia
della natura. L'accaparramento delle risorse, specialmente dell'acqua, può provocare
gravi conflitti tra le popolazioni coinvolte. Un pacifico accordo sull'uso delle risorse
può salvaguardare la natura e, contemporaneamente, il benessere delle società interessate. La
Chiesa ha una responsabilità per il creato e deve far valere questa responsabilità
anche in pubblico. E facendolo deve difendere non solo la terra, l'acqua e l'aria
come doni della creazione appartenenti a tutti. Deve proteggere soprattutto l'uomo
contro la distruzione di se stesso. È necessario che ci sia qualcosa come un'ecologia
dell'uomo, intesa in senso giusto. Il degrado della natura è infatti strettamente
connesso alla cultura che modella la convivenza umana: quando l'« ecologia umana »
124 è rispettata dentro la società, anche l'ecologia ambientale ne trae
beneficio. Come le virtù umane sono tra loro comunicanti, tanto che l'indebolimento
di una espone a rischio anche le altre, così il sistema ecologico si regge sul rispetto
di un progetto che riguarda sia la sana convivenza in società sia il buon rapporto
con la natura. Per salvaguardare la natura non è sufficiente intervenire con incentivi
o disincentivi economici e nemmeno basta un'istruzione adeguata. Sono, questi, strumenti
importanti, ma il problema decisivo è la complessiva tenuta morale della società.
Se non si rispetta il diritto alla vita e alla morte naturale, se si rende artificiale
il concepimento, la gestazione e la nascita dell'uomo, se si sacrificano embrioni
umani alla ricerca, la coscienza comune finisce per perdere il concetto di ecologia
umana e, con esso, quello di ecologia ambientale. È una contraddizione chiedere alle
nuove generazioni il rispetto dell'ambiente naturale, quando l'educazione e le leggi
non le aiutano a rispettare se stesse. Il libro della natura è uno e indivisibile,
sul versante dell'ambiente come sul versante della vita, della sessualità, del matrimonio,
della famiglia, delle relazioni sociali, in una parola dello sviluppo umano integrale.
I doveri che abbiamo verso l'ambiente si collegano con i doveri che abbiamo verso
la persona considerata in se stessa e in relazione con gli altri. Non si possono esigere
gli uni e conculcare gli altri. Questa è una grave antinomia della mentalità e della
prassi odierna, che avvilisce la persona, sconvolge l'ambiente e danneggia la società. 52.
La verità e l'amore che essa dischiude non si possono produrre, si possono solo accogliere.
La loro fonte ultima non è, né può essere, l'uomo, ma Dio, ossia Colui che è Verità
e Amore. Questo principio è assai importante per la società e per lo sviluppo, in
quanto né l'una né l'altro possono essere solo prodotti umani; la stessa vocazione
allo sviluppo delle persone e dei popoli non si fonda su una semplice deliberazione
umana, ma è inscritta in un piano che ci precede e che costituisce per tutti noi un
dovere che deve essere liberamente accolto. Ciò che ci precede e che ci costituisce
— l'Amore e la Verità sussistenti — ci indica che cosa sia il bene e in che cosa consista
la nostra felicità. Ci indica quindi la strada verso il vero sviluppo.
CAPITOLO
QUINTO LA COLLABORAZIONE DELLA FAMIGLIA UMANA 53. Una delle più profonde
povertà che l'uomo può sperimentare è la solitudine. A ben vedere anche le altre povertà,
comprese quelle materiali, nascono dall'isolamento, dal non essere amati o dalla difficoltà
di amare. Le povertà spesso sono generate dal rifiuto dell'amore di Dio, da un'originaria
tragica chiusura in se medesimo dell'uomo, che pensa di bastare a se stesso, oppure
di essere solo un fatto insignificante e passeggero, uno « straniero » in un universo
costituitosi per caso. L'uomo è alienato quando è solo o si stacca dalla realtà, quando
rinuncia a pensare e a credere in un Fondamento.125 L'umanità intera è
alienata quando si affida a progetti solo umani, a ideologie e a utopie false.126
Oggi l'umanità appare molto più interattiva di ieri: questa maggiore vicinanza si
deve trasformare in vera comunione. Lo sviluppo dei popoli dipende soprattutto dal
riconoscimento di essere una sola famiglia, che collabora in vera comunione ed è costituita
da soggetti che non vivono semplicemente l'uno accanto all'altro.127 Paolo
VI notava che « il mondo soffre per mancanza di pensiero ».128 L'affermazione
contiene una constatazione, ma soprattutto un auspicio: serve un nuovo slancio del
pensiero per comprendere meglio le implicazioni del nostro essere una famiglia; l'interazione
tra i popoli del pianeta ci sollecita a questo slancio, affinché l'integrazione avvenga
nel segno della solidarietà129 piuttosto che della marginalizzazione. Un
simile pensiero obbliga ad un approfondimento critico e valoriale della categoria
della relazione. Si tratta di un impegno che non può essere svolto dalle sole scienze
sociali, in quanto richiede l'apporto di saperi come la metafisica e la teologia,
per cogliere in maniera illuminata la dignità trascendente dell'uomo. La creatura
umana, in quanto di natura spirituale, si realizza nelle relazioni interpersonali.
Più le vive in modo autentico, più matura anche la propria identità personale. Non
è isolandosi che l'uomo valorizza se stesso, ma ponendosi in relazione con gli altri
e con Dio. L'importanza di tali relazioni diventa quindi fondamentale. Ciò vale anche
per i popoli. È, quindi, molto utile al loro sviluppo una visione metafisica della
relazione tra le persone. A questo riguardo, la ragione trova ispirazione e orientamento
nella rivelazione cristiana, secondo la quale la comunità degli uomini non assorbe
in sé la persona annientandone l'autonomia, come accade nelle varie forme di totalitarismo,
ma la valorizza ulteriormente, perché il rapporto tra persona e comunità è di un tutto
verso un altro tutto.130 Come la comunità familiare non annulla in sé le
persone che la compongono e come la Chiesa stessa valorizza pienamente la “nuova creatura”
(Gal 6,15; 2 Cor 5,17) che con il battesimo si inserisce nel suo Corpo vivo, così
anche l'unità della famiglia umana non annulla in sé le persone, i popoli e le culture,
ma li rende più trasparenti l'uno verso l'altro, maggiormente uniti nelle loro legittime
diversità. 54. Il tema dello sviluppo coincide con quello dell'inclusione relazionale
di tutte le persone e di tutti i popoli nell'unica comunità della famiglia umana,
che si costruisce nella solidarietà sulla base dei fondamentali valori della giustizia
e della pace. Questa prospettiva trova un'illuminazione decisiva nel rapporto tra
le Persone della Trinità nell'unica Sostanza divina. La Trinità è assoluta unità,
in quanto le tre divine Persone sono relazionalità pura. La trasparenza reciproca
tra le Persone divine è piena e il legame dell'una con l'altra totale, perché costituiscono
un'assoluta unità e unicità. Dio vuole associare anche noi a questa realtà di comunione:
« perché siano come noi una cosa sola » (Gv 17,22). Di questa unità la Chiesa è segno
e strumento.131 Anche le relazioni tra gli uomini lungo la storia non hanno
che da trarre vantaggio dal riferimento a questo divino Modello. In particolare, alla
luce del mistero rivelato della Trinità si comprende che la vera apertura non significa
dispersione centrifuga, ma compenetrazione profonda. Questo risulta anche dalle comuni
esperienze umane dell'amore e della verità. Come l'amore sacramentale tra i coniugi
li unisce spiritualmente in « una carne sola » (Gn 2,24; Mt 19,5; Ef 5,31) e da due
che erano fa di loro un'unità relazionale e reale, analogamente la verità unisce gli
spiriti tra loro e li fa pensare all'unisono, attirandoli e unendoli in sé. 55.
La rivelazione cristiana sull'unità del genere umano presuppone un'interpretazione
metafisica dell'humanum in cui la relazionalità è elemento essenziale. Anche altre
culture e altre religioni insegnano la fratellanza e la pace e, quindi, sono di grande
importanza per lo sviluppo umano integrale. Non mancano, però, atteggiamenti religiosi
e culturali in cui non si assume pienamente il principio dell'amore e della verità
e si finisce così per frenare il vero sviluppo umano o addirittura per impedirlo.
Il mondo di oggi è attraversato da alcune culture a sfondo religioso, che non impegnano
l'uomo alla comunione, ma lo isolano nella ricerca del benessere individuale, limitandosi
a gratificarne le attese psicologiche. Anche una certa proliferazione di percorsi
religiosi di piccoli gruppi o addirittura di singole persone, e il sincretismo religioso
possono essere fattori di dispersione e di disimpegno. Un possibile effetto negativo
del processo di globalizzazione è la tendenza a favorire tale sincretismo,132
alimentando forme di “religione” che estraniano le persone le une dalle altre anziché
farle incontrare e le allontanano dalla realtà. Contemporaneamente, permangono talora
retaggi culturali e religiosi che ingessano la società in caste sociali statiche,
in credenze magiche irrispettose della dignità della persona, in atteggiamenti di
soggezione a forze occulte. In questi contesti, l'amore e la verità trovano difficoltà
ad affermarsi, con danno per l'autentico sviluppo. Per questo motivo, se è vero,
da un lato, che lo sviluppo ha bisogno delle religioni e delle culture dei diversi
popoli, resta pure vero, dall'altro, che è necessario un adeguato discernimento. La
libertà religiosa non significa indifferentismo religioso e non comporta che tutte
le religioni siano uguali.133 Il discernimento circa il contributo delle
culture e delle religioni si rende necessario per la costruzione della comunità sociale
nel rispetto del bene comune soprattutto per chi esercita il potere politico. Tale
discernimento dovrà basarsi sul criterio della carità e della verità. Siccome è in
gioco lo sviluppo delle persone e dei popoli, esso terrà conto della possibilità di
emancipazione e di inclusione nell'ottica di una comunità umana veramente universale.
« Tutto l'uomo e tutti gli uomini » è criterio per valutare anche le culture e le
religioni. Il Cristianesimo, religione del « Dio dal volto umano »,134
porta in se stesso un simile criterio. 56. La religione cristiana e le altre religioni
possono dare il loro apporto allo sviluppo solo se Dio trova un posto anche nella
sfera pubblica, con specifico riferimento alle dimensioni culturale, sociale, economica
e, in particolare, politica. La dottrina sociale della Chiesa è nata per rivendicare
questo « statuto di cittadinanza »135 della religione cristiana. La negazione
del diritto a professare pubblicamente la propria religione e ad operare perché le
verità della fede informino di sé anche la vita pubblica comporta conseguenze negative
sul vero sviluppo. L'esclusione della religione dall'ambito pubblico come, per altro
verso, il fondamentalismo religioso, impediscono l'incontro tra le persone e la loro
collaborazione per il progresso dell'umanità. La vita pubblica si impoverisce di motivazioni
e la politica assume un volto opprimente e aggressivo. I diritti umani rischiano di
non essere rispettati o perché vengono privati del loro fondamento trascendente o
perché non viene riconosciuta la libertà personale. Nel laicismo e nel fondamentalismo
si perde la possibilità di un dialogo fecondo e di una proficua collaborazione tra
la ragione e la fede religiosa. La ragione ha sempre bisogno di essere purificata
dalla fede, e questo vale anche per la ragione politica, che non deve credersi onnipotente.
A sua volta, la religione ha sempre bisogno di venire purificata dalla ragione per
mostrare il suo autentico volto umano. La rottura di questo dialogo comporta un costo
molto gravoso per lo sviluppo dell'umanità. 57. Il dialogo fecondo tra fede e
ragione non può che rendere più efficace l'opera della carità nel sociale e costituisce
la cornice più appropriata per incentivare la collaborazione fraterna tra credenti
e non credenti nella condivisa prospettiva di lavorare per la giustizia e la pace
dell'umanità. Nella Costituzione pastorale Gaudium et spes i Padri conciliari affermavano:
« Credenti e non credenti sono generalmente d'accordo nel ritenere che tutto quanto
esiste sulla terra deve essere riferito all'uomo, come a suo centro e a suo vertice
».136 Per i credenti, il mondo non è frutto del caso né della necessità,
ma di un progetto di Dio. Nasce di qui il dovere che i credenti hanno di unire i loro
sforzi con tutti gli uomini e le donne di buona volontà di altre religioni o non credenti,
affinché questo nostro mondo corrisponda effettivamente al progetto divino: vivere
come una famiglia, sotto lo sguardo del Creatore. Manifestazione particolare della
carità e criterio guida per la collaborazione fraterna di credenti e non credenti
è senz'altro il principio di sussidiarietà,137 espressione dell'inalienabile
libertà umana. La sussidiarietà è prima di tutto un aiuto alla persona, attraverso
l'autonomia dei corpi intermedi. Tale aiuto viene offerto quando la persona e i soggetti
sociali non riescono a fare da sé e implica sempre finalità emancipatrici, perché
favorisce la libertà e la partecipazione in quanto assunzione di responsabilità. La
sussidiarietà rispetta la dignità della persona, nella quale vede un soggetto sempre
capace di dare qualcosa agli altri. Riconoscendo nella reciprocità l'intima costituzione
dell'essere umano, la sussidiarietà è l'antidoto più efficace contro ogni forma di
assistenzialismo paternalista. Essa può dar conto sia della molteplice articolazione
dei piani e quindi della pluralità dei soggetti, sia di un loro coordinamento. Si
tratta quindi di un principio particolarmente adatto a governare la globalizzazione
e a orientarla verso un vero sviluppo umano. Per non dar vita a un pericoloso potere
universale di tipo monocratico, il governo della globalizzazione deve essere di tipo
sussidiario, articolato su più livelli e su piani diversi, che collaborino reciprocamente.
La globalizzazione ha certo bisogno di autorità, in quanto pone il problema di un
bene comune globale da perseguire; tale autorità, però, dovrà essere organizzata in
modo sussidiario e poliarchico,138 sia per non ledere la libertà sia per
risultare concretamente efficace. 58. Il principio di sussidiarietà va mantenuto
strettamente connesso con il principio di solidarietà e viceversa, perché se la sussidiarietà
senza la solidarietà scade nel particolarismo sociale, è altrettanto vero che la solidarietà
senza la sussidiarietà scade nell'assistenzialismo che umilia il portatore di bisogno.
Questa regola di carattere generale va tenuta in grande considerazione anche quando
si affrontano le tematiche relative agli aiuti internazionali allo sviluppo. Essi,
al di là delle intenzioni dei donatori, possono a volte mantenere un popolo in uno
stato di dipendenza e perfino favorire situazioni di dominio locale e di sfruttamento
all'interno del Paese aiutato. Gli aiuti economici, per essere veramente tali, non
devono perseguire secondi fini. Devono essere erogati coinvolgendo non solo i governi
dei Paesi interessati, ma anche gli attori economici locali e i soggetti della società
civile portatori di cultura, comprese le Chiese locali. I programmi di aiuto devono
assumere in misura sempre maggiore le caratteristiche di programmi integrati e partecipati
dal basso. Resta vero infatti che la maggior risorsa da valorizzare nei Paesi da assistere
nello sviluppo è la risorsa umana: questa è l'autentico capitale da far crescere per
assicurare ai Paesi più poveri un vero avvenire autonomo. Va anche ricordato che,
in campo economico, il principale aiuto di cui hanno bisogno i Paesi in via di sviluppo
è quello di consentire e favorire il progressivo inserimento dei loro prodotti nei
mercati internazionali, rendendo così possibile la loro piena partecipazione alla
vita economica internazionale. Troppo spesso, nel passato, gli aiuti sono valsi a
creare soltanto mercati marginali per i prodotti di questi Paesi. Questo è dovuto
spesso a una mancanza di vera domanda di questi prodotti: è pertanto necessario aiutare
tali Paesi a migliorare i loro prodotti e ad adattarli meglio alla domanda. Inoltre,
alcuni hanno spesso temuto la concorrenza delle importazioni di prodotti, normalmente
agricoli, provenienti dai Paesi economicamente poveri. Va tuttavia ricordato che per
questi Paesi la possibilità di commercializzare tali prodotti significa molto spesso
garantire la loro sopravvivenza nel breve e nel lungo periodo. Un commercio internazionale
giusto e bilanciato in campo agricolo può portare benefici a tutti, sia dal lato dell'offerta
che da quello della domanda. Per questo motivo, non solo è necessario orientare commercialmente
queste produzioni, ma stabilire regole commerciali internazionali che le sostengano,
e rafforzare il finanziamento allo sviluppo per rendere più produttive queste economie. 59.
La cooperazione allo sviluppo non deve riguardare la sola dimensione economica; essa
deve diventare una grande occasione di incontro culturale e umano. Se i soggetti della
cooperazione dei Paesi economicamente sviluppati non tengono conto, come talvolta
avviene, della propria ed altrui identità culturale fatta di valori umani, non possono
instaurare alcun dialogo profondo con i cittadini dei Paesi poveri. Se questi ultimi,
a loro volta, si aprono indifferentemente e senza discernimento a ogni proposta culturale,
non sono in condizione di assumere la responsabilità del loro autentico sviluppo.139
Le società tecnologicamente avanzate non devono confondere il proprio sviluppo tecnologico
con una presunta superiorità culturale, ma devono riscoprire in se stesse virtù talvolta
dimenticate, che le hanno fatte fiorire lungo la storia. Le società in crescita devono
rimanere fedeli a quanto di veramente umano c'è nelle loro tradizioni, evitando di
sovrapporvi automaticamente i meccanismi della civiltà tecnologica globalizzata. In
tutte le culture ci sono singolari e molteplici convergenze etiche, espressione della
medesima natura umana, voluta dal Creatore, e che la sapienza etica dell'umanità chiama
legge naturale.140 Una tale legge morale universale è saldo fondamento
di ogni dialogo culturale, religioso e politico e consente al multiforme pluralismo
delle varie culture di non staccarsi dalla comune ricerca del vero, del bene e di
Dio. L'adesione a quella legge scritta nei cuori, pertanto, è il presupposto di ogni
costruttiva collaborazione sociale. In tutte le culture vi sono pesantezze da cui
liberarsi, ombre a cui sottrarsi. La fede cristiana, che si incarna nelle culture
trascendendole, può aiutarle a crescere nella convivialità e nella solidarietà universali
a vantaggio dello sviluppo comunitario e planetario. 60. Nella ricerca di soluzioni
della attuale crisi economica, l'aiuto allo sviluppo dei Paesi poveri deve esser considerato
come vero strumento di creazione di ricchezza per tutti. Quale progetto di aiuto può
prospettare una crescita di valore così significativa — anche dell'economia mondiale
— come il sostegno a popolazioni che si trovano ancora in una fase iniziale o poco
avanzata del loro processo di sviluppo economico? In questa prospettiva, gli Stati
economicamente più sviluppati faranno il possibile per destinare maggiori quote del
loro prodotto interno lordo per gli aiuti allo sviluppo, rispettando gli impegni che
su questo punto sono stati presi a livello di comunità internazionale. Lo potranno
fare anche rivedendo le politiche di assistenza e di solidarietà sociale al loro interno,
applicandovi il principio di sussidiarietà e creando sistemi di previdenza sociale
maggiormente integrati, con la partecipazione attiva dei soggetti privati e della
società civile. In questo modo è possibile perfino migliorare i servizi sociali e
di assistenza e, nello stesso tempo, risparmiare risorse, anche eliminando sprechi
e rendite abusive, da destinare alla solidarietà internazionale. Un sistema di solidarietà
sociale maggiormente partecipato e organico, meno burocratizzato ma non meno coordinato,
permetterebbe di valorizzare tante energie, oggi sopite, a vantaggio anche della solidarietà
tra i popoli. Una possibilità di aiuto per lo sviluppo potrebbe derivare dall'applicazione
efficace della cosiddetta sussidiarietà fiscale, che permetterebbe ai cittadini di
decidere sulla destinazione di quote delle loro imposte versate allo Stato. Evitando
degenerazioni particolaristiche, ciò può essere di aiuto per incentivare forme di
solidarietà sociale dal basso, con ovvi benefici anche sul versante della solidarietà
per lo sviluppo. 61. Una solidarietà più ampia a livello internazionale si esprime
innanzitutto nel continuare a promuovere, anche in condizioni di crisi economica,
un maggiore accesso all'educazione, la quale, d'altro canto, è condizione essenziale
per l'efficacia della stessa cooperazione internazionale. Con il termine “educazione”
non ci si riferisce solo all'istruzione o alla formazione al lavoro, entrambe cause
importanti di sviluppo, ma alla formazione completa della persona. A questo proposito
va sottolineato un aspetto problematico: per educare bisogna sapere chi è la persona
umana, conoscerne la natura. L'affermarsi di una visione relativistica di tale natura
pone seri problemi all'educazione, soprattutto all'educazione morale, pregiudicandone
l'estensione a livello universale. Cedendo ad un simile relativismo, si diventa tutti
più poveri, con conseguenze negative anche sull'efficacia dell'aiuto alle popolazioni
più bisognose, le quali non hanno solo necessità di mezzi economici o tecnici, ma
anche di vie e di mezzi pedagogici che assecondino le persone nella loro piena realizzazione
umana. Un esempio della rilevanza di questo problema ci è offerto dal fenomeno
del turismo internazionale,141 che può costituire un notevole fattore di
sviluppo economico e di crescita culturale, ma che può trasformarsi anche in occasione
di sfruttamento e di degrado morale. La situazione attuale offre singolari opportunità
perché gli aspetti economici dello sviluppo, ossia i flussi di denaro e la nascita
in sede locale di esperienze imprenditoriali significative, arrivino a combinarsi
con quelli culturali, primo fra tutti l'aspetto educativo. In molti casi questo avviene,
ma in tanti altri il turismo internazionale è evento diseducativo sia per il turista
sia per le popolazioni locali. Queste ultime spesso sono poste di fronte a comportamenti
immorali, o addirittura perversi, come nel caso del turismo cosiddetto sessuale, al
quale sono sacrificati tanti esseri umani, perfino in giovane età. È doloroso constatare
che ciò si svolge spesso con l'avallo dei governi locali, con il silenzio di quelli
da cui provengono i turisti e con la complicità di tanti operatori del settore. Anche
quando non si giunge a tanto, il turismo internazionale, non poche volte, è vissuto
in modo consumistico ed edonistico, come evasione e con modalità organizzative tipiche
dei Paesi di provenienza, così da non favorire un vero incontro tra persone e culture.
Bisogna, allora, pensare a un turismo diverso, capace di promuovere una vera conoscenza
reciproca, senza togliere spazio al riposo e al sano divertimento: un turismo di questo
genere va incrementato, grazie anche ad un più stretto collegamento con le esperienze
di cooperazione internazionale e di imprenditoria per lo sviluppo. 62. Un altro
aspetto meritevole di attenzione, trattando dello sviluppo umano integrale, è il fenomeno
delle migrazioni. È fenomeno che impressiona per la quantità di persone coinvolte,
per le problematiche sociali, economiche, politiche, culturali e religiose che solleva,
per le sfide drammatiche che pone alle comunità nazionali e a quella internazionale.
Possiamo dire che siamo di fronte a un fenomeno sociale di natura epocale, che richiede
una forte e lungimirante politica di cooperazione internazionale per essere adeguatamente
affrontato. Tale politica va sviluppata a partire da una stretta collaborazione tra
i Paesi da cui partono i migranti e i Paesi in cui arrivano; va accompagnata da adeguate
normative internazionali in grado di armonizzare i diversi assetti legislativi, nella
prospettiva di salvaguardare le esigenze e i diritti delle persone e delle famiglie
emigrate e, al tempo stesso, quelli delle società di approdo degli stessi emigrati.
Nessun Paese da solo può ritenersi in grado di far fronte ai problemi migratori del
nostro tempo. Tutti siamo testimoni del carico di sofferenza, di disagio e di aspirazioni
che accompagna i flussi migratori. Il fenomeno, com'è noto, è di gestione complessa;
resta tuttavia accertato che i lavoratori stranieri, nonostante le difficoltà connesse
con la loro integrazione, recano un contributo significativo allo sviluppo economico
del Paese ospite con il loro lavoro, oltre che a quello del Paese d'origine grazie
alle rimesse finanziarie. Ovviamente, tali lavoratori non possono essere considerati
come una merce o una mera forza lavoro. Non devono, quindi, essere trattati come qualsiasi
altro fattore di produzione. Ogni migrante è una persona umana che, in quanto tale,
possiede diritti fondamentali inalienabili che vanno rispettati da tutti e in ogni
situazione.142 63. Nella considerazione dei problemi dello sviluppo,
non si può non mettere in evidenza il nesso diretto tra povertà e disoccupazione.
I poveri in molti casi sono il risultato della violazione della dignità del lavoro
umano, sia perché ne vengono limitate le possibilità (disoccupazione, sotto-occupazione),
sia perché vengono svalutati « i diritti che da esso scaturiscono, specialmente il
diritto al giusto salario, alla sicurezza della persona del lavoratore e della sua
famiglia ».143 Perciò, già il 1o maggio 2000, il mio Predecessore
Giovanni Paolo II, di venerata memoria, in occasione del Giubileo dei Lavoratori,
lanciò un appello per « una coalizione mondiale in favore del lavoro decente »,144
incoraggiando la strategia dell'Organizzazione Internazionale del Lavoro. In tal modo,
conferiva un forte riscontro morale a questo obiettivo, quale aspirazione delle famiglie
in tutti i Paesi del mondo. Che cosa significa la parola « decenza » applicata al
lavoro? Significa un lavoro che, in ogni società, sia l'espressione della dignità
essenziale di ogni uomo e di ogni donna: un lavoro scelto liberamente, che associ
efficacemente i lavoratori, uomini e donne, allo sviluppo della loro comunità; un
lavoro che, in questo modo, permetta ai lavoratori di essere rispettati al di fuori
di ogni discriminazione; un lavoro che consenta di soddisfare le necessità delle famiglie
e di scolarizzare i figli, senza che questi siano costretti essi stessi a lavorare;
un lavoro che permetta ai lavoratori di organizzarsi liberamente e di far sentire
la loro voce; un lavoro che lasci uno spazio sufficiente per ritrovare le proprie
radici a livello personale, familiare e spirituale; un lavoro che assicuri ai lavoratori
giunti alla pensione una condizione dignitosa. 64. Riflettendo sul tema del lavoro,
è opportuno anche un richiamo all'urgente esigenza che le organizzazioni sindacali
dei lavoratori, da sempre incoraggiate e sostenute dalla Chiesa, si aprano alle nuove
prospettive che emergono nell'ambito lavorativo. Superando le limitazioni proprie
dei sindacati di categoria, le organizzazioni sindacali sono chiamate a farsi carico
dei nuovi problemi delle nostre società: mi riferisco, ad esempio, a quell'insieme
di questioni che gli studiosi di scienze sociali identificano nel conflitto tra persona-lavoratrice
e persona-consumatrice. Senza dover necessariamente sposare la tesi di un avvenuto
passaggio dalla centralità del lavoratore alla centralità del consumatore, sembra
comunque che anche questo sia un terreno per innovative esperienze sindacali. Il contesto
globale in cui si svolge il lavoro richiede anche che le organizzazioni sindacali
nazionali, prevalentemente chiuse nella difesa degli interessi dei propri iscritti,
volgano lo sguardo anche verso i non iscritti e, in particolare, verso i lavoratori
dei Paesi in via di sviluppo, dove i diritti sociali vengono spesso violati. La difesa
di questi lavoratori, promossa anche attraverso opportune iniziative verso i Paesi
di origine, permetterà alle organizzazioni sindacali di porre in evidenza le autentiche
ragioni etiche e culturali che hanno loro consentito, in contesti sociali e lavorativi
diversi, di essere un fattore decisivo per lo sviluppo. Resta sempre valido il tradizionale
insegnamento della Chiesa, che propone la distinzione di ruoli e funzioni tra sindacato
e politica. Questa distinzione consentirà alle organizzazioni sindacali di individuare
nella società civile l'ambito più consono alla loro necessaria azione di difesa e
promozione del mondo del lavoro, soprattutto a favore dei lavoratori sfruttati e non
rappresentati, la cui amara condizione risulta spesso ignorata dall'occhio distratto
della società. 65. Bisogna, poi, che la finanza in quanto tale, nelle necessariamente
rinnovate strutture e modalità di funzionamento dopo il suo cattivo utilizzo che ha
danneggiato l'economia reale, ritorni ad essere uno strumento finalizzato alla miglior
produzione di ricchezza ed allo sviluppo. Tutta l'economia e tutta la finanza, non
solo alcuni loro segmenti, devono, in quanto strumenti, essere utilizzati in modo
etico così da creare le condizioni adeguate per lo sviluppo dell'uomo e dei popoli.
È certamente utile, e in talune circostanze indispensabile, dar vita a iniziative
finanziarie nelle quali la dimensione umanitaria sia dominante. Ciò, però, non deve
far dimenticare che l'intero sistema finanziario deve essere finalizzato al sostegno
di un vero sviluppo. Soprattutto, bisogna che l'intento di fare del bene non venga
contrapposto a quello dell'effettiva capacità di produrre dei beni. Gli operatori
della finanza devono riscoprire il fondamento propriamente etico della loro attività
per non abusare di quegli strumenti sofisticati che possono servire per tradire i
risparmiatori. Retta intenzione, trasparenza e ricerca dei buoni risultati sono compatibili
e non devono mai essere disgiunti. Se l'amore è intelligente, sa trovare anche i modi
per operare secondo una previdente e giusta convenienza, come indicano, in maniera
significativa, molte esperienze nel campo della cooperazione di credito. Tanto
una regolamentazione del settore tale da garantire i soggetti più deboli e impedire
scandalose speculazioni, quanto la sperimentazione di nuove forme di finanza destinate
a favorire progetti di sviluppo, sono esperienze positive che vanno approfondite ed
incoraggiate, richiamando la stessa responsabilità del risparmiatore. Anche l'esperienza
della microfinanza, che affonda le proprie radici nella riflessione e nelle opere
degli umanisti civili — penso soprattutto alla nascita dei Monti di Pietà –, va rafforzata
e messa a punto, soprattutto in questi momenti dove i problemi finanziari possono
diventare drammatici per molti segmenti più vulnerabili della popolazione, che vanno
tutelati dai rischi di usura o dalla disperazione. I soggetti più deboli vanno educati
a difendersi dall'usura, così come i popoli poveri vanno educati a trarre reale vantaggio
dal microcredito, scoraggiando in tal modo le forme di sfruttamento possibili in questi
due campi. Poiché anche nei Paesi ricchi esistono nuove forme di povertà, la microfinanza
può dare concreti aiuti per la creazione di iniziative e settori nuovi a favore dei
ceti deboli della società anche in una fase di possibile impoverimento della società
stessa. 66. La interconnessione mondiale ha fatto emergere un nuovo potere politico,
quello dei consumatori e delle loro associazioni. Si tratta di un fenomeno da approfondire,
che contiene elementi positivi da incentivare e anche eccessi da evitare. È bene che
le persone si rendano conto che acquistare è sempre un atto morale, oltre che economico.
C'è dunque una precisa responsabilità sociale del consumatore, che si accompagna alla
responsabilità sociale dell'impresa. I consumatori vanno continuamente educati 145
al ruolo che quotidianamente esercitano e che essi possono svolgere nel rispetto dei
principi morali, senza sminuire la razionalità economica intrinseca all'atto dell'acquistare.
Anche nel campo degli acquisti, proprio in momenti come quelli che si stanno sperimentando
dove il potere di acquisto potrà ridursi e si dovrà consumare con maggior sobrietà,
è necessario percorrere altre strade, come per esempio forme di cooperazione all'acquisto,
quali le cooperative di consumo, attive a partire dall'Ottocento anche grazie all'iniziativa
dei cattolici. È utile inoltre favorire forme nuove di commercializzazione di prodotti
provenienti da aree depresse del pianeta per garantire una retribuzione decente ai
produttori, a condizione che si tratti veramente di un mercato trasparente, che i
produttori non ricevano solo maggiori margini di guadagno, ma anche maggiore formazione,
professionalità e tecnologia, e infine che non s'associno a simili esperienze di economia
per lo sviluppo visioni ideologiche di parte. Un più incisivo ruolo dei consumatori,
quando non vengano manipolati essi stessi da associazioni non veramente rappresentative,
è auspicabile come fattore di democrazia economica. 67. Di fronte all'inarrestabile
crescita dell'interdipendenza mondiale, è fortemente sentita, anche in presenza di
una recessione altrettanto mondiale, l'urgenza della riforma sia dell'Organizzazione
delle Nazioni Unite che dell'architettura economica e finanziaria internazionale,
affinché si possa dare reale concretezza al concetto di famiglia di Nazioni. Sentita
è pure l'urgenza di trovare forme innovative per attuare il principio di responsabilità
di proteggere 146 e per attribuire anche alle Nazioni più povere una voce
efficace nelle decisioni comuni. Ciò appare necessario proprio in vista di un ordinamento
politico, giuridico ed economico che incrementi ed orienti la collaborazione internazionale
verso lo sviluppo solidale di tutti i popoli. Per il governo dell'economia mondiale;
per risanare le economie colpite dalla crisi, per prevenire peggioramenti della stessa
e conseguenti maggiori squilibri; per realizzare un opportuno disarmo integrale, la
sicurezza alimentare e la pace; per garantire la salvaguardia dell'ambiente e per
regolamentare i flussi migratori, urge la presenza di una vera Autorità politica mondiale,
quale è stata già tratteggiata dal mio Predecessore, il Beato Giovanni XXIII. Una
simile Autorità dovrà essere regolata dal diritto, attenersi in modo coerente ai principi
di sussidiarietà e di solidarietà, essere ordinata alla realizzazione del bene comune,147
impegnarsi nella realizzazione di un autentico sviluppo umano integrale ispirato ai
valori della carità nella verità. Tale Autorità inoltre dovrà essere da tutti riconosciuta,
godere di potere effettivo per garantire a ciascuno la sicurezza, l'osservanza della
giustizia, il rispetto dei diritti.148 Ovviamente, essa deve godere della
facoltà di far rispettare dalle parti le proprie decisioni, come pure le misure coordinate
adottate nei vari fori internazionali. In mancanza di ciò, infatti, il diritto internazionale,
nonostante i grandi progressi compiuti nei vari campi, rischierebbe di essere condizionato
dagli equilibri di potere tra i più forti. Lo sviluppo integrale dei popoli e la collaborazione
internazionale esigono che venga istituito un grado superiore di ordinamento internazionale
di tipo sussidiario per il governo della globalizzazione 149 e che si dia
finalmente attuazione ad un ordine sociale conforme all'ordine morale e a quel raccordo
tra sfera morale e sociale, tra politica e sfera economica e civile che è già prospettato
nello Statuto delle Nazioni Unite.
CAPITOLO SESTO LO SVILUPPO DEI POPOLI E
LA TECNICA 68. Il tema dello sviluppo dei popoli è legato intimamente a quello
dello sviluppo di ogni singolo uomo. La persona umana per sua natura è dinamicamente
protesa al proprio sviluppo. Non si tratta di uno sviluppo garantito da meccanismi
naturali, perché ognuno di noi sa di essere in grado di compiere scelte libere e responsabili.
Non si tratta nemmeno di uno sviluppo in balia del nostro capriccio, in quanto tutti
sappiamo di essere dono e non risultato di autogenerazione. In noi la libertà è originariamente
caratterizzata dal nostro essere e dai suoi limiti. Nessuno plasma la propria coscienza
arbitrariamente, ma tutti costruiscono il proprio “io” sulla base di un “sé” che ci
è stato dato. Non solo le altre persone sono indisponibili, ma anche noi lo siamo
a noi stessi. Lo sviluppo della persona si degrada, se essa pretende di essere l'unica
produttrice di se stessa. Analogamente, lo sviluppo dei popoli degenera se l'umanità
ritiene di potersi ri-creare avvalendosi dei “prodigi” della tecnologia. Così come
lo sviluppo economico si rivela fittizio e dannoso se si affida ai “prodigi” della
finanza per sostenere crescite innaturali e consumistiche. Davanti a questa pretesa
prometeica, dobbiamo irrobustire l'amore per una libertà non arbitraria, ma resa veramente
umana dal riconoscimento del bene che la precede. Occorre, a tal fine, che l'uomo
rientri in se stesso per riconoscere le fondamentali norme della legge morale naturale
che Dio ha inscritto nel suo cuore. 69. Il problema dello sviluppo oggi è strettamente
congiunto con il progresso tecnologico, con le sue strabilianti applicazioni in campo
biologico. La tecnica — è bene sottolinearlo — è un fatto profondamente umano, legato
all'autonomia e alla libertà dell'uomo. Nella tecnica si esprime e si conferma la
signoria dello spirito sulla materia. Lo spirito, « reso così “meno schiavo delle
cose, può facilmente elevarsi all'adorazione e alla contemplazione del Creatore” ».150
La tecnica permette di dominare la materia, di ridurre i rischi, di risparmiare fatica,
di migliorare le condizioni di vita. Essa risponde alla stessa vocazione del lavoro
umano: nella tecnica, vista come opera del proprio genio, l'uomo riconosce se stesso
e realizza la propria umanità. La tecnica è l'aspetto oggettivo dell'agire umano,151
la cui origine e ragion d'essere sta nell'elemento soggettivo: l'uomo che opera. Per
questo la tecnica non è mai solo tecnica. Essa manifesta l'uomo e le sue aspirazioni
allo sviluppo, esprime la tensione dell'animo umano al graduale superamento di certi
condizionamenti materiali. La tecnica, pertanto, si inserisce nel mandato di “coltivare
e custodire la terra” (cfr Gn 2,15), che Dio ha affidato all'uomo e va orientata a
rafforzare quell'alleanza tra essere umano e ambiente che deve essere specchio dell'amore
creatore di Dio. 70. Lo sviluppo tecnologico può indurre l'idea dell'autosufficienza
della tecnica stessa quando l'uomo, interrogandosi solo sul come, non considera i
tanti perché dai quali è spinto ad agire. È per questo che la tecnica assume un volto
ambiguo. Nata dalla creatività umana quale strumento della libertà della persona,
essa può essere intesa come elemento di libertà assoluta, quella libertà che vuole
prescindere dai limiti che le cose portano in sé. Il processo di globalizzazione potrebbe
sostituire le ideologie con la tecnica,152 divenuta essa stessa un potere
ideologico, che esporrebbe l'umanità al rischio di trovarsi rinchiusa dentro un a
priori dal quale non potrebbe uscire per incontrare l'essere e la verità. In tal caso,
noi tutti conosceremmo, valuteremmo e decideremmo le situazioni della nostra vita
dall'interno di un orizzonte culturale tecnocratico, a cui apparterremmo strutturalmente,
senza mai poter trovare un senso che non sia da noi prodotto. Questa visione rende
oggi così forte la mentalità tecnicistica da far coincidere il vero con il fattibile.
Ma quando l'unico criterio della verità è l'efficienza e l'utilità, lo sviluppo viene
automaticamente negato. Infatti, il vero sviluppo non consiste primariamente nel fare.
Chiave dello sviluppo è un'intelligenza in grado di pensare la tecnica e di cogliere
il senso pienamente umano del fare dell'uomo, nell'orizzonte di senso della persona
presa nella globalità del suo essere. Anche quando opera mediante un satellite o un
impulso elettronico a distanza, il suo agire rimane sempre umano, espressione di libertà
responsabile. La tecnica attrae fortemente l'uomo, perché lo sottrae alle limitazioni
fisiche e ne allarga l'orizzonte. Ma la libertà umana è propriamente se stessa, solo
quando risponde al fascino della tecnica con decisioni che siano frutto di responsabilità
morale. Di qui, l'urgenza di una formazione alla responsabilità etica nell'uso della
tecnica. A partire dal fascino che la tecnica esercita sull'essere umano, si deve
recuperare il senso vero della libertà, che non consiste nell'ebbrezza di una totale
autonomia, ma nella risposta all'appello dell'essere, a cominciare dall'essere che
siamo noi stessi. 71. Questa possibile deviazione della mentalità tecnica dal suo
originario alveo umanistico è oggi evidente nei fenomeni della tecnicizzazione sia
dello sviluppo che della pace. Spesso lo sviluppo dei popoli è considerato un problema
di ingegneria finanziaria, di apertura dei mercati, di abbattimento di dazi, di investimenti
produttivi, di riforme istituzionali, in definitiva un problema solo tecnico. Tutti
questi ambiti sono quanto mai importanti, ma ci si deve chiedere perché le scelte
di tipo tecnico finora abbiano funzionato solo relativamente. La ragione va ricercata
più in profondità. Lo sviluppo non sarà mai garantito compiutamente da forze in qualche
misura automatiche e impersonali, siano esse quelle del mercato o quelle della politica
internazionale. Lo sviluppo è impossibile senza uomini retti, senza operatori economici
e uomini politici che vivano fortemente nelle loro coscienze l'appello del bene comune.
Sono necessarie sia la preparazione professionale sia la coerenza morale. Quando prevale
l'assolutizzazione della tecnica si realizza una confusione fra fini e mezzi, l'imprenditore
considererà come unico criterio d'azione il massimo profitto della produzione; il
politico, il consolidamento del potere; lo scienziato, il risultato delle sue scoperte.
Accade così che, spesso, sotto la rete dei rapporti economici, finanziari o politici,
permangono incomprensioni, disagi e ingiustizie; i flussi delle conoscenze tecniche
si moltiplicano, ma a beneficio dei loro proprietari, mentre la situazione reale delle
popolazioni che vivono sotto e quasi sempre all'oscuro di questi flussi rimane immutata,
senza reali possibilità di emancipazione. 72. Anche la pace rischia talvolta di
essere considerata come un prodotto tecnico, frutto soltanto di accordi tra governi
o di iniziative volte ad assicurare efficienti aiuti economici. È vero che la costruzione
della pace esige la costante tessitura di contatti diplomatici, di scambi economici
e tecnologici, di incontri culturali, di accordi su progetti comuni, come anche l'assunzione
di impegni condivisi per arginare le minacce di tipo bellico e scalzare alla radice
le ricorrenti tentazioni terroristiche. Tuttavia, perché tali sforzi possano produrre
effetti duraturi, è necessario che si appoggino su valori radicati nella verità della
vita. Occorre cioè sentire la voce e guardare alla situazione delle popolazioni interessate
per interpretarne adeguatamente le attese. Ci si deve porre, per così dire, in continuità
con lo sforzo anonimo di tante persone fortemente impegnate nel promuovere l'incontro
tra i popoli e nel favorire lo sviluppo partendo dall'amore e dalla comprensione reciproca.
Tra queste persone ci sono anche fedeli cristiani, coinvolti nel grande compito di
dare allo sviluppo e alla pace un senso pienamente umano. 73. Connessa con lo sviluppo
tecnologico è l'accresciuta pervasività dei mezzi di comunicazione sociale. È ormai
quasi impossibile immaginare l'esistenza della famiglia umana senza di essi. Nel bene
e nel male, sono così incarnati nella vita del mondo, che sembra davvero assurda la
posizione di coloro che ne sostengono la neutralità, rivendicandone di conseguenza
l'autonomia rispetto alla morale che tocca le persone. Spesso simili prospettive,
che enfatizzano la natura strettamente tecnica dei media, favoriscono di fatto la
loro subordinazione al calcolo economico, al proposito di dominare i mercati e, non
ultimo, al desiderio di imporre parametri culturali funzionali a progetti di potere
ideologico e politico. Data la loro fondamentale importanza nella determinazione di
mutamenti nel modo di percepire e di conoscere la realtà e la stessa persona umana,
diventa necessaria un'attenta riflessione sulla loro influenza specie nei confronti
della dimensione etico-culturale della globalizzazione e dello sviluppo solidale dei
popoli. Al pari di quanto richiesto da una corretta gestione della globalizzazione
e dello sviluppo, il senso e la finalizzazione dei media vanno ricercati nel fondamento
antropologico. Ciò vuol dire che essi possono divenire occasione di umanizzazione
non solo quando, grazie allo sviluppo tecnologico, offrono maggiori possibilità di
comunicazione e di informazione, ma soprattutto quando sono organizzati e orientati
alla luce di un'immagine della persona e del bene comune che ne rispecchi le valenze
universali. I mezzi di comunicazione sociale non favoriscono la libertà né globalizzano
lo sviluppo e la democrazia per tutti, semplicemente perché moltiplicano le possibilità
di interconnessione e di circolazione delle idee. Per raggiungere simili obiettivi
bisogna che essi siano centrati sulla promozione della dignità delle persone e dei
popoli, siano espressamente animati dalla carità e siano posti al servizio della verità,
del bene e della fraternità naturale e soprannaturale. Infatti, nell'umanità la libertà
è intrinsecamente collegata con questi valori superiori. I media possono costituire
un valido aiuto per far crescere la comunione della famiglia umana e l'ethos delle
società, quando diventano strumenti di promozione dell'universale partecipazione nella
comune ricerca di ciò che è giusto. 74. Campo primario e cruciale della lotta
culturale tra l'assolutismo della tecnicità e la responsabilità morale dell'uomo è
oggi quello della bioetica, in cui si gioca radicalmente la possibilità stessa di
uno sviluppo umano integrale. Si tratta di un ambito delicatissimo e decisivo, in
cui emerge con drammatica forza la questione fondamentale: se l'uomo si sia prodotto
da se stesso o se egli dipenda da Dio. Le scoperte scientifiche in questo campo e
le possibilità di intervento tecnico sembrano talmente avanzate da imporre la scelta
tra le due razionalità: quella della ragione aperta alla trascendenza o quella della
ragione chiusa nell'immanenza. Si è di fronte a un aut aut decisivo. La razionalità
del fare tecnico centrato su se stesso si dimostra però irrazionale, perché comporta
un rifiuto deciso del senso e del valore. Non a caso la chiusura alla trascendenza
si scontra con la difficoltà a pensare come dal nulla sia scaturito l'essere e come
dal caso sia nata l'intelligenza.153 Di fronte a questi drammatici problemi,
ragione e fede si aiutano a vicenda. Solo assieme salveranno l'uomo. Attratta dal
puro fare tecnico, la ragione senza la fede è destinata a perdersi nell'illusione
della propria onnipotenza. La fede senza la ragione, rischia l'estraniamento dalla
vita concreta delle persone.154 75. Già Paolo VI aveva riconosciuto
e indicato l'orizzonte mondiale della questione sociale. 155 Seguendolo
su questa strada, oggi occorre affermare che la questione sociale è diventata radicalmente
questione antropologica, nel senso che essa implica il modo stesso non solo di concepire,
ma anche di manipolare la vita, sempre più posta dalle biotecnologie nelle mani dell'uomo.
La fecondazione in vitro, la ricerca sugli embrioni, la possibilità della clonazione
e dell'ibridazione umana nascono e sono promosse nell'attuale cultura del disincanto
totale, che crede di aver svelato ogni mistero, perché si è ormai arrivati alla radice
della vita. Qui l'assolutismo della tecnica trova la sua massima espressione. In tale
tipo di cultura la coscienza è solo chiamata a prendere atto di una mera possibilità
tecnica. Non si possono tuttavia minimizzare gli scenari inquietanti per il futuro
dell'uomo e i nuovi potenti strumenti che la « cultura della morte » ha a disposizione.
Alla diffusa, tragica, piaga dell'aborto si potrebbe aggiungere in futuro, ma è già
surrettiziamente in nuce, una sistematica pianificazione eugenetica delle nascite.
Sul versante opposto, va facendosi strada una mens eutanasica, manifestazione non
meno abusiva di dominio sulla vita, che in certe condizioni viene considerata non
più degna di essere vissuta. Dietro questi scenari stanno posizioni culturali negatrici
della dignità umana. Queste pratiche, a loro volta, sono destinate ad alimentare una
concezione materiale e meccanicistica della vita umana. Chi potrà misurare gli effetti
negativi di una simile mentalità sullo sviluppo? Come ci si potrà stupire dell'indifferenza
per le situazioni umane di degrado, se l'indifferenza caratterizza perfino il nostro
atteggiamento verso ciò che è umano e ciò che non lo è? Stupisce la selettività arbitraria
di quanto oggi viene proposto come degno di rispetto. Pronti a scandalizzarsi per
cose marginali, molti sembrano tollerare ingiustizie inaudite. Mentre i poveri del
mondo bussano ancora alle porte dell'opulenza, il mondo ricco rischia di non sentire
più quei colpi alla sua porta, per una coscienza ormai incapace di riconoscere l'umano.
Dio svela l'uomo all'uomo; la ragione e la fede collaborano nel mostrargli il bene,
solo che lo voglia vedere; la legge naturale, nella quale risplende la Ragione creatrice,
indica la grandezza dell'uomo, ma anche la sua miseria quando egli disconosce il richiamo
della verità morale. 76. Uno degli aspetti del moderno spirito tecnicistico è riscontrabile
nella propensione a considerare i problemi e i moti legati alla vita interiore soltanto
da un punto di vista psicologico, fino al riduzionismo neurologico. L'interiorità
dell'uomo viene così svuotata e la consapevolezza della consistenza ontologica dell'anima
umana, con le profondità che i Santi hanno saputo scandagliare, progressivamente si
perde. Il problema dello sviluppo è strettamente collegato anche alla nostra concezione
dell'anima dell'uomo, dal momento che il nostro io viene spesso ridotto alla psiche
e la salute dell'anima è confusa con il benessere emotivo. Queste riduzioni hanno
alla loro base una profonda incomprensione della vita spirituale e portano a disconoscere
che lo sviluppo dell'uomo e dei popoli, invece, dipende anche dalla soluzione di problemi
di carattere spirituale. Lo sviluppo deve comprendere una crescita spirituale oltre
che materiale, perché la persona umana è un'« unità di anima e corpo »,156
nata dall'amore creatore di Dio e destinata a vivere eternamente. L'essere umano si
sviluppa quando cresce nello spirito, quando la sua anima conosce se stessa e le verità
che Dio vi ha germinalmente impresso, quando dialoga con se stesso e con il suo Creatore.
Lontano da Dio, l'uomo è inquieto e malato. L'alienazione sociale e psicologica e
le tante nevrosi che caratterizzano le società opulente rimandano anche a cause di
ordine spirituale. Una società del benessere, materialmente sviluppata, ma opprimente
per l'anima, non è di per sé orientata all'autentico sviluppo. Le nuove forme di schiavitù
della droga e la disperazione in cui cadono tante persone trovano una spiegazione
non solo sociologica e psicologica, ma essenzialmente spirituale. Il vuoto in cui
l'anima si sente abbandonata, pur in presenza di tante terapie per il corpo e per
la psiche, produce sofferenza. Non ci sono sviluppo plenario e bene comune universale
senza il bene spirituale e morale delle persone, considerate nella loro interezza
di anima e corpo. 77. L'assolutismo della tecnica tende a produrre un'incapacità
di percepire ciò che non si spiega con la semplice materia. Eppure tutti gli uomini
sperimentano i tanti aspetti immateriali e spirituali della loro vita. Conoscere non
è un atto solo materiale, perché il conosciuto nasconde sempre qualcosa che va al
di là del dato empirico. Ogni nostra conoscenza, anche la più semplice, è sempre un
piccolo prodigio, perché non si spiega mai completamente con gli strumenti materiali
che adoperiamo. In ogni verità c'è più di quanto noi stessi ci saremmo aspettati,
nell'amore che riceviamo c'è sempre qualcosa che ci sorprende. Non dovremmo mai cessare
di stupirci davanti a questi prodigi. In ogni conoscenza e in ogni atto d'amore l'anima
dell'uomo sperimenta un « di più » che assomiglia molto a un dono ricevuto, ad un'altezza
a cui ci sentiamo elevati. Anche lo sviluppo dell'uomo e dei popoli si colloca a una
simile altezza, se consideriamo la dimensione spirituale che deve connotare necessariamente
tale sviluppo perché possa essere autentico. Esso richiede occhi nuovi e un cuore
nuovo, in grado di superare la visione materialistica degli avvenimenti umani e di
intravedere nello sviluppo un “oltre” che la tecnica non può dare. Su questa via sarà
possibile perseguire quello sviluppo umano integrale che ha il suo criterio orientatore
nella forza propulsiva della carità nella verità.
CONCLUSIONE 78. Senza
Dio l'uomo non sa dove andare e non riesce nemmeno a comprendere chi egli sia. Di
fronte agli enormi problemi dello sviluppo dei popoli che quasi ci spingono allo sconforto
e alla resa, ci viene in aiuto la parola del Signore Gesù Cristo che ci fa consapevoli:
« Senza di me non potete far nulla » (Gv 15,5) e c'incoraggia: « Io sono con voi tutti
i giorni, fino alla fine del mondo » (Mt 28,20). Di fronte alla vastità del lavoro
da compiere, siamo sostenuti dalla fede nella presenza di Dio accanto a coloro che
si uniscono nel suo nome e lavorano per la giustizia. Paolo VI ci ha ricordato nella
Populorum progressio che l'uomo non è in grado di gestire da solo il proprio progresso,
perché non può fondare da sé un vero umanesimo. Solo se pensiamo di essere chiamati
in quanto singoli e in quanto comunità a far parte della famiglia di Dio come suoi
figli, saremo anche capaci di produrre un nuovo pensiero e di esprimere nuove energie
a servizio di un vero umanesimo integrale. La maggiore forza a servizio dello sviluppo
è quindi un umanesimo cristiano,157 che ravvivi la carità e si faccia guidare
dalla verità, accogliendo l'una e l'altra come dono permanente di Dio. La disponibilità
verso Dio apre alla disponibilità verso i fratelli e verso una vita intesa come compito
solidale e gioioso. Al contrario, la chiusura ideologica a Dio e l'ateismo dell'indifferenza,
che dimenticano il Creatore e rischiano di dimenticare anche i valori umani, si presentano
oggi tra i maggiori ostacoli allo sviluppo. L'umanesimo che esclude Dio è un umanesimo
disumano. Solo un umanesimo aperto all'Assoluto può guidarci nella promozione e realizzazione
di forme di vita sociale e civile — nell'ambito delle strutture, delle istituzioni,
della cultura, dell'ethos — salvaguardandoci dal rischio di cadere prigionieri delle
mode del momento. È la consapevolezza dell'Amore indistruttibile di Dio che ci sostiene
nel faticoso ed esaltante impegno per la giustizia, per lo sviluppo dei popoli, tra
successi ed insuccessi, nell'incessante perseguimento di retti ordinamenti per le
cose umane. L'amore di Dio ci chiama ad uscire da ciò che è limitato e non definitivo,
ci dà il coraggio di operare e di proseguire nella ricerca del bene di tutti, anche
se non si realizza immediatamente, anche se quello che riusciamo ad attuare, noi e
le autorità politiche e gli operatori economici, è sempre meno di ciò a cui aneliamo.158
Dio ci dà la forza di lottare e di soffrire per amore del bene comune, perché Egli
è il nostro Tutto, la nostra speranza più grande. 79. Lo sviluppo ha bisogno di
cristiani con le braccia alzate verso Dio nel gesto della preghiera, cristiani mossi
dalla consapevolezza che l'amore pieno di verità, caritas in veritate, da cui procede
l'autentico sviluppo, non è da noi prodotto ma ci viene donato. Perciò anche nei momenti
più difficili e complessi, oltre a reagire con consapevolezza, dobbiamo soprattutto
riferirci al suo amore. Lo sviluppo implica attenzione alla vita spirituale, seria
considerazione delle esperienze di fiducia in Dio, di fraternità spirituale in Cristo,
di affidamento alla Provvidenza e alla Misericordia divine, di amore e di perdono,
di rinuncia a se stessi, di accoglienza del prossimo, di giustizia e di pace. Tutto
ciò è indispensabile per trasformare i « cuori di pietra » in « cuori di carne » (Ez
36,26), così da rendere « divina » e perciò più degna dell'uomo la vita sulla terra.
Tutto questo è dell'uomo, perché l'uomo è soggetto della propria esistenza; ed insieme
è di Dio, perché Dio è al principio e alla fine di tutto ciò che vale e redime: «
Il mondo, la vita, la morte, il presente, il futuro: tutto è vostro! Ma voi siete
di Cristo e Cristo è di Dio » (1 Cor 3,22-23). L'anelito del cristiano è che tutta
la famiglia umana possa invocare Dio come « Padre nostro! ». Insieme al Figlio unigenito,
possano tutti gli uomini imparare a pregare il Padre e a chiedere a Lui, con le parole
che Gesù stesso ci ha insegnato, di saperLo santificare vivendo secondo la sua volontà,
e poi di avere il pane quotidiano necessario, la comprensione e la generosità verso
i debitori, di non essere messi troppo alla prova e di essere liberati dal male (cfr
Mt 6,9-13). Al termine dell'Anno Paolino mi piace esprimere questo auspicio con
le parole stesse dell'Apostolo nella sua Lettera ai Romani: “La carità non sia ipocrita:
detestate il male, attaccatevi al bene; amatevi gli uni gli altri con affetto fraterno,
gareggiate nello stimarvi a vicenda” (12,9-10). Che la Vergine Maria, proclamata da
Paolo VI Mater Ecclesiae e onorata dal popolo cristiano come Speculum iustitiae e
Regina pacis, ci protegga e ci ottenga, con la sua celeste intercessione, la forza,
la speranza e la gioia necessarie per continuare a dedicarci con generosità all'impegno
di realizzare lo « sviluppo di tutto l'uomo e di tutti gli uomini ».159 Dato
a Roma, presso San Pietro, il 29 giugno, solennità dei SS. Apostoli Pietro e Paolo,
dell'anno 2009, quinto del mio Pontificato. 1Paolo VI, Lett. enc. Populorum
progressio (26 marzo 1967), 22: AAS 59 (1967), 268; cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost.
past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 69. 2Discorso
per la giornata dello sviluppo (23 agosto 1968): AAS 60 (1968), 626-627. 3Cfr
Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2002: AAS 94 (2002),
132-140. 4Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo
contemporaneo Gaudium et spes, 26. 5Cfr Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem
in terris (11 aprile 1963): AAS 55 (1963), 268-270. 6Cfr n. 16: l.c.,
265. 7Cfr ibid., 82: l.c., 297. 8Ibid., 42: l.c., 278. 9Ibid.,
20: l.c., 267. 10Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel
mondo contemporaneo Gaudium et spes, 36; Paolo VI, Lett. ap. Octogesima adveniens
(14 maggio 1971), 4: AAS 63 (1971), 403-404; Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus
annus (1º maggio 1991), 43: AAS 83 (1991), 847. 11Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio,13: l.c., 263-264. 12Cfr Pontificio Consiglio della
Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa, n. 76. 13Cfr
Benedetto XVI, Discorso alla sessione inaugurale dei lavori della V Conferenza generale
dell'Episcopato Latinoamericano e dei Caraibi (13 maggio 2007): Insegnamenti III,
1 (2007), 854-870. 14Cfr nn. 3-5: l.c., 258-260. 15Cfr
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis (30 dicembre 1987), 6-7: AAS
80 (1988), 517-519. 16Cfr Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio,
14: l.c., 264. 17Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est (25 dicembre
2005), 18: AAS 98 (2006), 232. 18Ibid., 6: l.c., 222. 19Cfr
Benedetto XVI, Discorso alla Curia Romana per la presentazione degli auguri natalizi
(22 dicembre 2005): Insegnamenti I (2005), 1023-1032. 20Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 3: l.c., 515. 21Cfr
ibid.,1: l.c., 513-514. 22Cfr ibid., 3: l.c., 515. 23Cfr
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens (14 settembre 1981), 3: AAS 73 (1981),
583-584. 24Cfr Id., Lett. enc. Centesimus annus, 3: l.c., 794-796. 25Cfr
Lett. enc. Populorum progressio, 3: l.c., 258. 26Cfr ibid., 34: l.c.,
274. 27Cfr nn. 8-9: AAS 60 (1968), 485-487; Benedetto XVI, Discorso
ai Partecipanti al Convegno Internazionale organizzato nel 40º anniversario dell'«
Humanae vitae » (10 maggio 2008): Insegnamenti IV, 1 (2008), 753-756. 28Cfr
Lett. enc. Evangelium vitae (25 marzo 1995), 93: AAS 87 (1995), 507-508. 29Ibid.,
101: l.c., 516-518. 30N. 29: AAS 68 (1976), 25. 31Ibid.,
31: l.c., 26. 32Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis,
41: l.c., 570-572. 33Cfr ibid.; Id. Lett. enc. Centesimus annus, 5.54:
l.c. 799. 859-860. 34N. 15: l.c., 265. 35Cfr ibid., 2:
l.c., 258; Leone XIII, Lett. enc. Rerum novarum (15 maggio 1891): Leonis XIII P.M.
Acta, XI, Romae 1892, 97-144; Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis,
8: l.c., 519-520 ; Id., Lett. enc. Centesimus annus, 5: l.c., 799. 36Cfr
Lett. enc. Populorum progressio, 2.13: l.c., 258. 263-264. 37Ibid.,
42: l.c., 278. 38Ibid., 11: l.c., 262; cfr Giovanni Paolo II, Lett.
enc. Centesimus annus, 25: l.c, 822-824. 39Lett. enc. Populorum progressio,
15: l.c., 265. 40Ibid., 3: l.c., 258. 41Ibid., 6: l.c.,
260. 42Ibid., 14: l.c., 264. 43Ibid.; cfr Giovanni Paolo
II, Lett. enc. Centesimus annus, 53-62: l.c., 859-867; Id., Lett. enc. Redemptor hominis
(4 marzo 1979) 13-14: AAS 71 (1979), 282-286. 44Cfr Paolo VI, Lett.
enc. Populorum progressio, 12: l.c., 262-263. 45Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 22. 46Paolo
VI, Lett. enc. Populorum progressio, 13: l.c., 263-264. 47Cfr Benedetto
XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno Ecclesiale Nazionale della Chiesa che
è in Italia (19 ottobre 2006): Insegnamenti II, 2 (2006), 465-477. 48Cfr
Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 16: l.c., 265. 49Ibid. 50Benedetto
XVI, Discorso ai giovani al molo di Barangaroo: L'Osservatore Romano, 18 luglio 2008,
p. 8. 51Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 20: l.c., 267. 52Ibid.,
66: l.c., 289-290. 53Ibid., 21: l.c., 267-268. 54Cfr
nn. 3.29.32: l.c., 258.272.273. 55Cfr Lett. enc. Sollicitudo rei socialis,
28: l.c., 548-550. 56Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 9: l.c.,
261-262. 57Cfr Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 20: l.c., 536-537.
58Cfr Lett. enc. Centesimus annus, 22-29: l.c., 819-830. 59Cfr
nn. 23.33: l.c., 268-269. 273-274. 60Cfr l.c., 135. 61Conc.
Ecum. Vat. II, Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 63. 62Cfr
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 24: l.c., 821-822. 63Cfr
Id., Lett. enc. Veritatis splendor (6 agosto 1993), 33.46.51: AAS 85 (1993), 1160.1169-1171.1174-1175;
Id., Discorso all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite per la celebrazione del 50º
di fondazione (5 ottobre 1995), 3: Insegnamenti XVIII, 2 (1995), 732-733. 64Cfr
Lett. enc. Populorum progressio, 47: l.c., 280-281; Giovanni Paolo II, Lett. enc.
Sollicitudo rei socialis, 42: l.c., 572-574. 65Cfr Benedetto XVI, Messaggio
in occasione della Giornata Mondiale dell'Alimentazione 2007: AAS 99 (2007), 933-935. 66Cfr
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Evangelium vitae, 18.59.63-64: l.c., 419-421. 467-468.
472-475. 67Cfr Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della
Pace 2007, 5: Insegnamenti II, 2 (2006), 778. 68Cfr Giovanni Paolo II,
Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2002, 4-7.12-15: AAS 94 (2002), 134-136.
138- 140; id., Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2004, 8: AAS 96 (2004),
119; id., Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2005, 4: AAS 97 (2005), 177-178;
Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2006, 9-10: AAS 98 (2006),
60-61; id., Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007, 5.14: l.c., 778. 782-783. 69Cfr
Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2002, 6: l.c., 135;
Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2006, 9-10: l.c., 60-61. 70Cfr
Benedetto XVI, Omelia alla Santa Messa nell'« Islinger Feld » di Regensburg (12 settembre
2006): Insegnamenti II, 2 (2006), 252-256. 71Cfr Id., Lett. enc. Deus
caritas est, 1: l.c., 217-218. 72Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo
rei socialis, 28: l.c., 548-550. 73Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio,
19: l.c., 266-267. 74Ibid., 39: l.c., 276-277. 75Ibid.,
75: l.c., 293-294. 76Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est,
28: l.c., 238-240. 77Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus,
59: l.c., 864. 78Cfr Lett. enc. Populorum progressio, 40.85: l.c., 277.
298- 299. 79Ibid., 13: l.c., 263-264. 80Cfr Giovanni Paolo
II, Lett. enc. Fides et ratio (14 settembre 1998), 85: AAS 91 (1999), 72-73. 81Cfr
Ibid., 83: l.c., 70-71. 82Benedetto XVI, Discorso all'Università di
Regensburg (12 settembre 2006): Insegnamenti II, 2 (2006), 265. 83Cfr
Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 33: l.c., 273-274. 84Cfr
Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2000, 15: AAS 92
(2000), 366. 85Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 407; cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 25: l.c., 822-824. 86Cfr n. 17:
AAS 99 (2007), 1000. 87Cfr ibid., 23: l.c., 1004-1005. 88Sant'Agostino
espone in modo dettagliato questo insegnamento nel dialogo sul libero arbitrio (De
libero arbitrio II 3,8 sgg.). Egli indica l'esistenza dentro l'anima umana di un «
senso interno ». Questo senso consiste in un atto che si compie al di fuori delle
normali funzioni della ragione, atto irriflesso e quasi istintivo, per cui la ragione,
rendendosi conto della sua condizione transeunte e fallibile, ammette al di sopra
di sé l'esistenza di qualcosa di eterno, assolutamente vero e certo. Il nome che sant'Agostino
dà a questa verità interiore è talora quello di Dio (Confessioni 10,24,35; 12,25,35;
De libero arbitrio II 3,8), più spesso quello di Cristo (De magistro 11,38; Confessioni
VII,18,24; XI,2,4). 89Benedetto XVI, Lett. enc. Deus caritas est, 3:
l.c., 219. 90Cfr n. 49: l.c., 281. 91Giovanni Paolo II,
Lett. enc. Centesimus annus, 28: l.c., 827-828. 92Cfr n. 35: l.c.,
836-838. 93Cfr Giovanni Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis,
38: l.c., 565-566. 94N. 44: l.c., 279. 95Cfr Ibid., 24:
l.c., 269. 96Cfr Lett. enc. Centesimus annus, 36: l.c., 838-840. 97Cfr
Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 24: l.c., 269. 98Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 32: l.c., 832-833; Paolo VI, Lett. enc. Populorum
progressio, 25: l.c., 269-270. 99Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem
exercens, 24: l.c., 637-638. 100Ibid., 15: l.c., 616-618. 101Lett.
enc. Populorum progressio, 27: l.c., 271. 102Cfr Congregazione per la
Dottrina della Fede, Istruzione sulla libertà cristiana e la liberazione Libertatis
conscientia (22 marzo 1987) 74: AAS 79 (1987), 587. 103Cfr Giovanni
Paolo II, Intervista al quotidiano cattolico « La Croix », 20 agosto 1997. 104Giovanni
Paolo II, Discorso alla Pontificia Accademia delle Scienze Sociali (27 aprile 2001):
Insegnamenti XXIV, 1 (2001), 800. 105Paolo VI, Lett. enc. Populorum
progressio, 17: l.c., 265-266. 106Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per
la Giornata Mondiale della Pace 2003, 5: AAS 95 (2003), 343. 107Cfr
ibid. 108Cfr Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della
Pace 2007, 13: l.c., 781-782. 109Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio,
65: l.c., 289. 110Cfr ibid., 36-37: l.c., 275-276. 111Cfr
ibid., 37: l.c., 275-276. 112 Cfr Conc. Ecum.Vat. II, Decreto sull'apostolato
dei laici Apostolicam actuositatem, 11. 113Cfr Paolo VI, Lett. enc.
Populorum progressio, 14: l.c., 264; Giovanni Paolo II Lett. enc. Centesimus annus,
32: l.c., 832-833. 114Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 77:
l.c., 295. 115Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale
della Pace 1990, 6: AAS 82 (1990), 150. 116Eraclito di Efeso (Efeso
535 a.C. ca. – 475 a.C. ca.), Frammento 22B124, in H. Diels-W. Kranz, Die Fragmente
der Vorsokratiker, Weidmann, Berlin 19526. 117Cfr Pontificio
Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina sociale della Chiesa,
nn. 451- 487. 118Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale
della Pace 1990, 10: l.c., 152-153. 119Paolo VI, Lett. enc. Populorum
progressio, 65: l.c., 289. 120 Benedetto XVI, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 2008, 7: AAS 100 (2008), 41. 121Cfr Id., Discorso
ai partecipanti all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite (18 aprile 2008): Insegnamenti
IV, 1 (2008), 618- 626. 122Cfr Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata
Mondiale della Pace 1990, 13: l.c., 154-155. 123Id., Lett. enc. Centesimus
annus, 36: l.c., 838-840. 124Ibid., 38: l.c., 840-841; cfr Benedetto
XVI, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2007, 8: l.c., 779. 125Cfr
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 41: l.c., 843-845. 126Cfr
ibid. 127Cfr Id., Lett. enc. Evangelium vitae, 20: l.c., 422-424. 128Lett.
enc. Populorum progressio, 85: l.c., 298-299. 129Cfr Giovanni Paolo
II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 1998, 3: AAS 90 (1998), 150; Id.,
Discorso ai Membri della Fondazione « Centesimus Annus » (9 maggio 1998), 2: Insegnamenti
XXI, 1 (1998), 873-874; Id., Discorso alle Autorità Civili e Politiche e al Corpo
Diplomatico durante l'incontro nel « Wiener Hofburg » (20 giugno 1998), 8: Insegnamenti
XXI, 1 (1998), 1435-1436; Id., Messaggio al Rettore Magnifico dell'Università Cattolica
del Sacro Cuore nella ricorrenza annuale della giornata (5 maggio 2000), 6: Insegnamenti
XXIII, 1 (2000), 759-760. 130Secondo San Tommaso « ratio partis contrariatur
rationi personae » in III Sent. d. 5, 3, 2.; anche « Homo non ordinatur ad communitatem
politicam secundum se totum et secundum omnia sua » in Summa Theologiae I-II, q. 21,
a. 4, ad 3um. 131Cfr Conc. Ecum.Vat. II, Cost. dogm. sulla Chiesa Lumen
gentium, 1. 132Cfr Giovanni Paolo II, Discorso ai partecipanti alla
seduta pubblica delle Pontificie Accademie di Teologia e di San Tommaso d'Aquino (8
novembre 2001), 3: Insegnamenti XXIV, 2 (2001), 676-677. 133Cfr Congregazione
per la Dottrina della Fede, Dich. circa l'unicità e l'universalità salvifica di Gesù
Cristo e della Chiesa Dominus Jesus (6 agosto 2000), 22: AAS 92 (2000), 763-764; Id.,
Nota Dottrinale circa alcune questioni riguardanti l'impegno e il comportamento dei
cattolici nella vita politica (24 novembre 2002), 8: AAS 96 (2004), 369-370. 134Benedetto
XVI, Lett. enc. Spe salvi, 31: l.c., 1010; Id., Discorso ai partecipanti al IV Convegno
Ecclesiale Nazionale della Chiesa che è in Italia (19 ottobre 2006): l.c., 465-477. 135Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 5: l.c., 798-800; cfr Benedetto XVI, Discorso
ai partecipanti al IV Convegno Ecclesiale Nazionale della Chiesa che è in Italia (19
ottobre 2006): l.c., 471. 136 N. 12. 137Cfr Pio XI, Lett.
enc. Quadragesimo anno (15 maggio 1931): AAS 23 (1931), 203; Giovanni Paolo II, Lett.
enc. Centesimus annus, 48: l.c., 852-854; Catechismo della Chiesa Cattolica, n. 1883. 138Cfr
Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris: l.c., 274. 139Cfr Paolo
VI, Lett. enc. Populorum progressio, 10.41: l.c., 262.277-278. 140Cfr
Benedetto XVI, Discorso ai Membri della Commissione Teologica Internazionale (5 ottobre
2007): Insegnamenti III, 2 (2007), 418-421; Id., Discorso ai partecipanti al Congresso
internazionale su « Legge Morale Naturale » promosso dalla Pontificia Università Lateranense
(12 febbraio 2007): Insegnamenti III, 1 (2007), 209-212. 141Cfr Benedetto
XVI, Discorso ai Presuli della Conferenza Episcopale della Thailandia in visita ad
limina (16 maggio 2008): Insegnamenti IV, 1 (2008), 798-801. 142Cfr
Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti, Istruzione Erga
migrantes caritas Christi (3 maggio 2004): AAS 96 (2004), 762-822. 143Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 8: l.c., 594-598. 144Discorso
al termine della Concelebrazione Eucaristica in occasione del Giubileo dei Lavoratori
(1º maggio 2000): Insegnamenti XXIII, 1 (2000), 720. 145Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Centesimus annus, 36: l.c., 838-840. 146Cfr Benedetto
XVI, Discorso ai partecipanti all'Assemblea Generale delle Nazioni Unite (18 aprile
2008): l.c., 618-626. 147Cfr Giovanni XXIII, Lett. enc. Pacem in terris:
l.c., 293; Pontificio Consiglio della Giustizia e della Pace, Compendio della Dottrina
sociale della Chiesa, n. 441. 148Cfr Conc. Ecum. Vat. II, Cost. past.
sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 82. 149Cfr Giovanni
Paolo II, Lett. enc. Sollicitudo rei socialis, 43: l.c., 574-575. 150Paolo
VI, Lett. enc. Populorum progressio, 41: l.c., 277- 278; Cfr Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 57. 151Cfr
Giovanni Paolo II, Lett. enc. Laborem exercens, 5: l.c., 586-589. 152Cfr
Paolo VI, Lett. ap. Octogesima adveniens, 29: l.c., 420. 153Cfr Benedetto
XVI, Discorso ai partecipanti al IV Convegno Ecclesiale Nazionale della Chiesa che
è in Italia (19 ottobre 2006): l.c., 465-477; Id., Omelia alla Santa Messa nell'«
Islinger Feld » di Regensburg (12 settembre 2006): l.c., 252-256. 154Cfr
Congregazione per la Dottrina della Fede, Istruzione su alcune questioni di bioetica
Dignitas personae (8 settembre 2008): AAS 100 (2008), 858-887. 155Cfr
Lett. enc. Populorum progressio, 3: l.c., 258. 156Conc. Ecum. Vat. II,
Cost. past. sulla Chiesa nel mondo contemporaneo Gaudium et spes, 14. 157Cfr
n. 42: l.c., 278. 158Cfr Benedetto XVI, Lett. enc. Spe salvi, 35: l.c.,
1013-1014. 159Paolo VI, Lett. enc. Populorum progressio, 42: l.c., 278.
I
N D I C E Introduzione . . . . . . . . . . . . 3 Capitolo Primo: Il messaggio
della Populorum progressio . . . . . . . . . . . . . . 13 Capitolo Secondo: Lo
sviluppo umano nel nostro tempo . . . . . . . . . . . . 31 Capitolo Terzo: Fraternità,
sviluppo economico e società civile . . . . . . . . . 57 Capitolo Quarto: Sviluppo
dei popoli, diritti e doveri, ambiente . . . . . . . . . . 79 Capitolo Quinto:
La collaborazione della famiglia umana . . . . . . . . . . . . 99 Capitolo Sesto:
Lo sviluppo dei popoli e la tecnica . . . . . . . . . . . . . . 125 Conclusione
. . . . . . . . . . . . . 139 TIPOGRAFIA VATICANA