In attesa della "Caritas in veritate": cenni sul rapporto tra Chiesa, economia ed
etica nel pensiero di Benedetto XVI
Mancano due giorni alla pubblicazione dell'Enciclica "Caritas in veritate". Il rapporto
tra Chiesa, economia ed etica è stato più volte preso in esame dal Santo Padre. Si
trovano in particolare diversi riferimenti nella conferenza "Chiesa ed economia. Responsabilità
per il futuro dell’economia mondiale", tenuta dall’allora cardinale Joseph Ratzinger
ad un convegno dell’Università Urbaniana svoltosi il 23 novembre 1985. Il testo dell'intervento
è stato pubblicato su "Communio Usa" nel 1986 ed ora in uscita nell’edizione italiana
di "Communio" nel mese di gennaio 2009. Di seguito alcuni passaggi della conferenza
estrapolati da Luis Badilla:
Chiesa ed economia. La disparità
economica tra Nord e Sud dell’emisfero terrestre costituisce una minaccia sempre più
grave per la conservazione stessa della famiglia umana. (...) Per trovare soluzioni
veramente progressiste occorrono nuove idee economiche, le quali tuttavia senza nuovi
impulsi morali sono impossibili e soprattutto appaiono essere inattuabili. Su questo
punto è possibile e necessario un dialogo tra la Chiesa e l’economia. (...) Se si
parte da una concezione classica dell’economia, a prima vista non si riesce a vedere
che cosa abbiano a che fare tra loro Chiesa ed economia, a meno che non si consideri
il fatto che anche la Chiesa è soggetto di imprese economiche ed è quindi un fattore
del mercato. Nel nostro caso però la Chiesa non deve entrare in questione per questa
specificità in quanto Chiesa.
Efficienza e moralità. A questo punto
ci si trova di fronte all’obiezione che proprio dopo il Concilio Vaticano II occorre
avere un rispetto assoluto per l’autonomia delle competenze e quindi l’economia deve
agire secondo le sue regole specifiche e non secondo considerazioni morali introdotte
dall’esterno. In base alla tradizione risalente a Adam Smith, si sostiene che il mercato
è incompatibile con l’etica, giacché i comportamenti volontaristicamente "morali"
sono contrari alle regole del mercato e non farebbero altro che tagliar fuori dal
mercato gli imprenditori "moraleggianti". Per questo l’etica economica è stata considerata
per molto tempo come un "erro di legn", perché nell’economia si deve guardare solo
all’efficienza e non alla moralità. La logica interna del mercato ci dispenserebbe
dalla necessità di dover fare affidamento sulla moralità più o meno grande del singolo
soggetto economico, in quanto il corretto gioco delle regole del mercato garantirebbe
al massimo il progresso e pure l’equità della distribuzione. L’uomo non è fattore
superfluo. Il grande successo che questa teoria ha goduto ha fatto trascurare per
lungo tempo i suoi limiti. In una situazione mutata appaiono molto chiaramente i suoi
presupposti filosofici e quindi anche i suoi problemi. Per quanto questa concezione
si fondi sulla libertà del singolo soggetto economico e pertanto possa essere considerata
in quanto tale liberistica, tuttavia nella sua essenza essa è deterministica. Presuppone
che il libero gioco delle forze di mercato, con questi uomini e in questo modo, spinga
verso una sola direzione, cioè verso l’equilibrio tra offerta e domanda, verso l’efficienza
economica e il progresso. Ma in questo determinismo – nel quale l’uomo, nonostante
la sua apparente libertà, in realtà opera esclusivamente secondo le costringenti regole
del mercato – è insito anche un altro forse ancor più sconcertante presupposto: che
le leggi naturali del mercato – se posso così esprimermi – sono essenzialmente buone
e conducono necessariamente al bene, senza dipendere dalla moralità della singola
persona. I due presupposti non sono completamente errati, come è dimostrato dai successi
dell’economia di mercato, ma neppure applicabili senza limiti, né assolutamente giusti,
come appare evidente dai problemi dell’economia mondiale attuale. Senza entrare specificamente
nel problema – cosa del resto che non mi compete – vorrei ricordare solamente una
frase di Peter Koslowski, perché indica il punto che ci interessa: "L’economia non
è retta solo dalle leggi economiche, ma è guidata dagli uomini".
Un’ingiustizia
strutturale. Se finora ho tentato di far riferimento al contrasto che viene a
crearsi tra un modello economico assolutamente liberale e una problematica morale,
affrontando così un primo nucleo di questioni, che certamente giocherà un ruolo in
questo simposio, ora conviene che io faccia riferimento anche al contrasto opposto.
Il problema riguardante il mercato e la morale oggi non è più un problema soltanto
teorico. Poiché le disparità che esistono all’interno di ciascuna grande area economica
mettono in pericolo il gioco del mercato, a partire dagli anni ’50 si è cercato di
riequilibrare la bilancia economica con progetti di sviluppo. Ma oggi dobbiamo riconoscere
che il tentativo, nella forma finora seguita, è fallito e che le differenze sono addirittura
ulteriormente cresciute. La conseguenza è che vasti settori nel terzo mondo, i quali
all’inizio avevano guardato con grandi speranze agli aiuti per lo sviluppo, ora considerano
l’economia un sistema di sfruttamento, un peccato e un’ingiustizia divenuti strutturali.
In questa prospettiva l’economia centralizzata appare essere l’alternativa morale,
alla quale ci si rivolge con una fiducia quasi religiosa e la sua forma diviene addirittura
contenuto della religione. Infatti, mentre l’economia di mercato prende in considerazione
le inevitabili conseguenze dell’egoismo e le limita con la concorrenza tra gli egoismi,
in questa sembra dominare il pensiero di una giusta guida allo scopo di offrire gli
stessi diritti per tutti e l’equa distribuzione dei beni fra tutti. Certamente le
esperienze finora fatte non sono molto incoraggianti, tuttavia non basta per contrastare
la speranza che ciò nonostante si possa realizzare l’idea morale. Si pensa che, se
si tentasse di fondare l’intero sistema su una base morale più solida, in una società
non determinata dal massimo guadagno, ma dall’autoregolamentazione e dal servizio
reciproco, si dovrebbe riuscire a conciliare la morale con l’efficienza.
Il
13 giugno scorso, Benedetto XVI, rivolgendosi ai partecipanti a un convegno della
‘Fondazione Centesimus Annus Pro Pontifice’ ha ricordato che la libertà nel settore
economico deve essere una libertà responsabile, il cui centro è etico religioso. Alla
vigilia della pubblicazione dell’enciclica sociale di Benedetto XVI – ‘Caritas in
veritate’ – è legittimo chiedersi se l’esigenza riconosciuta dal Papa di ripensare
in chiave etica i paradigmi economici-finanziari dominanti negli ultimi anni, sia
avvertita anche al di fuori della Chiesa. Fabio Colagrande lo ha chiesto a
Flavio Felice, docente di dottrine economiche e politiche alla Pontificia Università
Lateranense e di Filosofia dell'impresa alla Luiss di Roma.
R. – Ormai
saranno 30 anni, forse 40 anni, durante i quali il discorso tra etica ed economia
è diventato un leitmotiv molto diffuso. Capire quale sia l'economia e quale l'etica
è sempre molto difficile. Quella che è emersa in economia, almeno negli ultimi 200
anni, indubbiamente è l’etica utilitaristica. Tutto il processo economico, tutta l’analisi
economica si è costruita intorno a questa idea: l’etica dell’utile come ultima misura
del processo economico. Non che l’utile non sia una misura indispensabile, perché
senza utile non avremmo la spinta all’agire economico. Ma quando l’utile diventa il
parametro attraverso il quale costruire politiche pubbliche, entriamo nell’utilitarismo.
Dal nostro punto di vista, che è quello della Dottrina sociale della Chiesa, invece,
la visione antropologica è quella di un uomo creato ad immagine e somiglianza del
Creatore: quindi è Gesù Redentore la figura di riferimento. Dunque, quando parliamo
di etica parliamo di qualcosa di completamente diverso. In questa enciclica, la speranza
è ben riposta in quanto è sempre accaduto, anche nelle precedenti encicliche, che
il riferimento forte all’etica sia fatto a partire da una visione antropologica: così
come Giovanni Paolo II ha posto in evidenza sia dalla “Redemptor hominis” fino alla
sua prima enciclica sociale, la “Laborem exercens”, per arrivare alla “Centesimus
annus”, il riferimento forte è stato sempre all’uomo, inteso come persona. In virtù
di questa definizione antropologica, Giovanni Paolo II è riuscito a ridefinire il
termine “capitale”, il termine “impresa, il termine “lavoro” in contrapposizione a
quella battaglia che si stava combattendo nell’Est Europa – pensiamo a Solidarnosc
– ed è riuscito a ri-definire il termine “sviluppo”, il termine “capitalismo”, “mercato”
…
D. – Questo deficit etico nell’ambito economico-finanziario,
di cui Benedetto XVI ha parlato più volte, secondo lei è riconosciuto davvero dai
politici, dagli economisti, dagli operatori del settore come causa della crisi globale?
R.
– Io credo che non vi sia una grande consapevolezza di tutto ciò. Temo che ci si stia
di nuovo arrotolando intorno ad una pretesa razionalistica, quella di pensare che
qualche algoritmo non abbia ben funzionato. E allora bisognerà rimettere a posto l’algoritmo,
bisogna risistemare il modello … Invece qui è questione di pensare che l’economia
è fatta di persone, che le persone agiscono sapendo di non sapere tutto; dunque il
coefficiente di rischio è un elemento fondamentale,. Lo si può ridurre ma non lo si
può annullare e qualora qualcuno pretenda di annullarlo, è soltanto perché lo sta
trasferendo su qualcun altro, magari il più debole della catena. Mi sembra che si
stia ragionando più su che cosa non sia andato bene nel giochetto, nel modellino che
ci eravamo costruiti, piuttosto che nel cambiare il modello …