La Beatificazione domani a Castres, in Francia, di suor Jeanne-Emilie de Villeneuve.
Intervista con mons. Angelo Amato
Sarà la cittadina di Castres, vicina ai Pirenei francesi, a ospitare domani pomeriggio
la solenne Messa di Beatificazione di Jeanne Emilie de Villeneuve, la religiosa fondatrice
della Congregazione dell’Immacolata Concezione, alla quale appartengono le cosiddette
"Suore azzurre". Proveniente da una famiglia nobile e vissuta a cavallo della metà
dell'Ottocento, "Suor Emilie" - com'era comunemente chiamata - creò un Istituto che
volle dedicato con un voto speciale alla santificazione del prossimo. Al microfono
di Roberto Piermarini, il prefetto della Congregazione delle Cause dei Santi,
l'arcivescovo Angelo Amato, che domani a Castres pronuncerà a nome del Papa
la formula di Beatificazione, traccia un profilo della vita e dell'opera di carità
della prossima Beata:
R. - Jeanne
Emilie de Villeneuve - comunemente chiamata Emilie - nacque a Tolosa, il 9 marzo 1811,
terza figlia dei conti di Villeneuve Hauterive. La sua vita si svolse prevalentemente
nel castello di Hauterive, vicino Castres. Emilie, era una ragazza schiva, riflessiva,
lontana dalla vita mondana e con una istintiva ripulsa all’ostentazione propria dei
giovani. La sua grande riservatezza e il suo temperamento calmo e metodico celavano
in realtà la ricerca di autenticità, che poi sfociò nella scelta della vita religiosa.
Vincendo la resistenza paterna, Emilie, l’8 dicembre 1836, a venticinque anni, con
altre due compagne, vestì l’abito blu di un nuovo Istituto, assumendo il nome di Suor
Marie. La sua fu una scelta coraggiosa perché passò dall’agiatezza e dalla sicurezza
del castello paterno alla precarietà di un alloggio povero e inospitale. Nel piccolo
laboratorio per cucito le religiose accolsero una trentina di ragazze, alle quali
offrivano, oltre alla formazione professionale, anche una istruzione e una catechesi
elementare. A poco a poco la loro azione apostolica si allarga anche al servizio della
mensa dei prigionieri.
D. - Oggi le sue figlie spirituali
sono presenti anche in terra di missione. Come ebbe inizio questo apostolato missionario?
R.
- L’incontro provvidenziale con Padre Libermann, fondatore di sacerdoti consacrati
alle missioni estere, aprì a Suor Marie l’orizzonte missionario. Le prime quattro
suore partirono per il Senegal nel dicembre del 1847. Il loro apostolato si allargherà
poi al Gabon e alla Guinea inglese. Questi inizi non furono facili, soprattutto per
le malattie. In un solo anno ben diciotto suore morirono per la malaria. Ma l’entusiasmo
missionario non venne meno. Nel 1853 erano già 24 le suore in Africa, distribuite
in quattro case. Per la Madre non c’era una missione più alta di quella di far conoscere
Gesù e di farlo amare da anime che mai avrebbero avuto questa felicità. Intanto si
aprono nuove fondazioni in altre città francesi e la Congregazione viene approvata
definitivamente dalla Santa Sede il 30 dicembre 1852.
D.
- Cosa dire della santità dei Madre Emilie?
R. -
Con un profondo atto di umiltà, nel 1853 la Madre decise di dimettersi da Superiora
Generale, volendo anch’ella esercitare l’obbedienza. Morì improvvisamente, vittima
di una epidemia di febbre miliare, il 2 ottobre 1854. Il quarto voto, da lei voluto,
esprime al meglio il carisma dell’Istituto: lavorare per la salvezza delle anime
e dedicarsi alla santificazione del prossimo. In concreto, l’Istituto si indirizza
ai poveri che mancano del necessario per una vita dignitosa; ai bambini e agli adulti
senza istruzione religiosa; ai carcerati; alle popolazioni lontane non cristiane.
Un’opera che stava particolarmente a cuore alla Madre era la costruzione del “Rifugio”
per l’accoglienza delle giovani vittime dell’immoralità, alle quali offrire un aiuto
per uscire dal vizio e reinserirsi nella società. Si narra che, quando giungeva una
nuova “ospite”, il suono di una campana avvertiva la Madre, che sospendeva immediatamente
l’attività del momento, per accogliere la giovane.
D.
- Madre Emilie era di famiglia nobile. Come questa sua condizione ha contribuito alla
sua santificazione?
R. - Lo stemma nobiliare della
famiglia de Villeneuve aveva una spada su sfondo rosso sormontata da una corona e
con la scritta: Sicut sol emicat ensis (“come il sole brilla la spada”). La
vita della nostra Beata ha fatto brillare non la forza della spada, ma la carità del
cuore di Dio. Difatti, il motto di Madre Emilie e della sua Congregazione è infatti
“Dio solo”. Non mire umane, ma solo pensieri divini. Più che alla nobiltà umana, la
Madre aveva in mente solo la lode di Dio e la sua gloria sulla terra. Suor Sylvia,
Superiora Generale dal 1921 al 1936, testimonia: "Ella vede Dio in tutto, serve Dio
solo, cerca Dio solo, vuole Dio solo, ricorre a Dio solo, non cerca felicità, consolazione
o ricompensa che in Dio solo".
D. - Ci vuole indicare
qualche altro aspetto della sua personalità?
R. -
Ne indico tre. Anzitutto era fedele al Papa e figlia devotissima dalla Chiesa. In
un’epoca ancora pervasa di gallicanesimo, non aveva nessun ritegno ad affermare :
«Sono ultramontana», volendo esprimere con ciò la sua incondizionata devozione al
Papa. E come figlia amorosa della Santa Madre Chiesa, sceglie per la sua congregazione
le grandi devozioni cattoliche: amore all’Eucaristia, al Sacro Cuore, all’Immacolata.
Soleva ripetere: "Gettatevi nel cuore di Gesù e non uscitene più". Un secondo aspetto
è dato dalla lettura della Sacra Scrittura, come nutrimento quotidiano di santificazione
e di apostolato. È dal Vangelo che apprende la dignità del povero. È studiando la
vita di Gesù che lo Spirito del divino Maestro si fa strada nel suo cuore. Un ultimo
aspetto della sua santità era la percezione delle piccole cose, oggi diremmo l’attenzione
al buon comportamento, al galateo: ad esempio, camminare con posatezza, parlare con
dolcezza e gravità, amare la pulizia dell’abito, essere puntuali, non sprecare i ritagli
di carta o i pezzi di filo. Amava molto la povertà, che considerava il più bell’ornamento
di una consacrata.
D. - Quale eredità lascia Madre
Emilie alle sue Figlie spirituali e a tutta la Chiesa?
R.
- È anzitutto una eredità di santità, un invito costante alla propria perfezione e
santificazione. È anche una eredità di entusiasmo apostolico nel servizio ai più poveri
e ai più deboli della società, nell’educazione dei piccoli, nel sostegno agli immigrati,
nell’impegno missionario. La Madre insegna l’amore alla vita virtuosa, fatta di fede,
speranza e carità. L’eroicità delle sue virtù fu riconosciuta dal Santo Padre Giovanni
Paolo II con decreto del 6 luglio 1991.
D. - Cosa
dire del miracolo per la Beatificazione?
R. - Quasi
a ricompensare lo spirito missionario della Madre, il miracolo richiesto per la beatificazione
ha riguardato la guarigione, avvenuta nel 1995, di una giovane africana musulmana,
Binta Diaby, della Sierra Leone. Binta era stata ripudiata dalla famiglia perché incinta.
Disperata, tentò il suicidio con l’ingenstione di soda caustica, che le causò una
devastante distruzione di organi e di tessuti interni. Era in fase terminale, quando
alcune Suore, venute a conoscenza del caso, iniziarono una novena alla “Bonne Mère”.
Seguì una inaspettata, decisa e rapida guarigione. È questo un segno dal cielo che
la Madre intercede presso il Signore a favore dei bisognosi.