Mons. Vegliò: accogliere, non respingere quanti fuggono da fame, povertà e guerre
I tanti immigrati che fuggono da povertà, fame e guerre “possano essere accolti e
non respinti”: è questo l’appello lanciato ieri sera dall’arcivescovo Antonio Maria
Vegliò durante la preghiera ecumenica che si è svolta nella Basilica romana di Santa
Maria in Trastevere a Roma in memoria delle vittime dei viaggi verso l’Europa. Il
presidente del Pontificio Consiglio della Pastorale per i Migranti e gli Itineranti
ha parlato dell’indifferenza del mondo ricco di fronte ai drammi di tanti profughi:
“la loro accoglienza – ha affermato citando il Papa – pone non poche difficoltà ma
è doverosa”. “Non bisogna distogliere lo sguardo – ha aggiunto – e dimenticare la
sofferenza in cui intere popolazioni vivono”. Ma ascoltiamo la testimonianza di Dagmawi
Yimer, un immigrato etiope, arrivato in Italia dopo oltre un anno di sofferenze,
e autore di un documentario sui viaggi della speranza. L’intervista è di Marina
Tomarro:
R. – Quando
decidiamo di uscire, di certo non sappiamo cosa ci aspetta; ma piuttosto che morire
a casa nostra nella miseria, decidiamo di andare avanti e provare a cercare un futuro.
Ma prima di arrivare in Italia c’è una grande sofferenza che nessuno si può immaginare.
Il viaggio è molto duro; tutti gli episodi che affrontiamo soprattutto con la polizia
libica sono momenti molto duri. La maggior parte di noi non riesce nemmeno a superare
quelle sofferenze e a testimoniare qui le cose che ha passato. D.
– Dagmawi, ci racconti la tua esperienza? R. – Io e i miei amici
siamo partiti dall’Etiopia, da Addis Abeba. Fino al Sudan non c’è stato problema;
dal Sudan in poi iniziano le sofferenze. Siamo finiti nelle mani dei contrabbandieri
perché ci siamo trovati in mezzo al deserto e siamo stati costretti a stare alle loro
condizioni, sia per quando riguardava il denaro, sia per le donne obbligate a subire
violenza sessuale. Poi, con tanta fatica siamo riusciti ad arrivare in Libia e lì
è iniziato un altro gioco, dove ogni intermediario ha il suo territorio. Noi non sapevamo
dove saremmo andati a finire perché tra gli intermediari c'erano anche poliziotti
libici: avevamo solo la scelta di pagare e andare a Tripoli perché se non si paga
si viene arrestati. Poi, a Tripoli o a Bengasi, quando siamo arrivati ci sono state
le retate ad opera della polizia libica: ci hanno arrestato per conoscere la nostra
identità, così dicono. Ma in realtà, non avviene così: la prima cosa sono le botte,
senza chiedere da dove veniamo, perché siamo lì … Dopo l’arresto, siamo rimasti nelle
prigioni. Poi, stipati in un container con altre 100 persone, ci hanno mandato verso
Cufra, che è al confine tra il Sudan e la Libia. A Cufra un’altra esperienza: quella
della compravendita tra intermediari e poliziotti. Usciamo con la polizia fingendo
che stanno per espellerci, ma in realtà non succede così: ci lasciano in un luogo
tra i cespugli dove ci raccoglie l’intermediario per portarci via per compiere ancora
il viaggio verso le principali città della Libia. Lì la maggior parte sceglie di imbarcarsi,
anche quando il mare è grosso, perché lì la sofferenza è tale per cui piuttosto che
subire le carceri libiche, è meglio andare via! D. – Ma, nonostante
tutte queste sofferenze, cosa vi spinge ad andare avanti? R.
– Una volta che sei partito, l’unica soluzione è andare avanti: non c’è ritorno, perché
ritornare vuol dire rischiare di nuovo la vita per niente, perché non è sicuro che
alla fine tu riesca a tornare indietro. Il profitto ed il guadagno degli intermediari,
infatti, è portarti verso la Libia, non riportarti indietro!