2009-06-23 14:25:05

Al seminario promosso dal Centro "Oasis" di Venezia, ribadita la necessità del dialogo tra cristiani e musulmani. Con noi, il cardinale Scola


L'importanza della tradizione e la necessità del dialogo tra cristiani e musulmani sono stati i temi forti del seminario promosso dal Comitato internazionale della Fondazione Oasis, tenutosi ieri e oggi a Venezia. Uno degli interventi più significativi è stato quello del cardinale Jean-Louis Tauran, sul quale ci riferisce il nostro inviato a Venezia, Fabrizio Mastrofini:RealAudioMP3

“Cristiani e musulmani, siamo tutti ‘condannati’ al dialogo”. Lo ha detto il cardinale Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, intervenendo alla riunione del Comitato scientifico della Fondazione internazionale "Oasis" che termina oggi a Venezia. “L’Islam fa paura – ha osservato il cardinale - Per molti esso si riduce al fanatismo, alla guerra santa (Jihâd), al terrorismo, alla poligamia, al proselitismo”, ma “non bisogna averne paura” “perché ciò che incontriamo non è un sistema religioso, ma uomini e donne che condividono con noi lo stesso destino” come “compagni d’umanità. Eccoci tutti ‘condannati’ al dialogo!”. Diversi, secondo il cardinale Tauran, gli elementi di separazione tra Cristianesimo e Islam: “Il rapporto con la Scrittura; il concetto di rivelazione; la figura di Gesù; la Trinità; l’uso della ragione; la preghiera”. Tuttavia, avverte, vi è molto in comune: “l’unicità di Dio; la sacralità della vita; la necessità di trasmettere i valori morali alle giovani generazioni; l’insegnamento della religione nell’educazione”. “È su queste basi che il Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso invita le Chiese locali a praticare il dialogo”. Il cardinale Tauran ribadisce peraltro la necessità del dialogo e invita musulmani e cristiani a raccogliere insieme una triplice sfida: dell’identità, della differenza, del pluralismo. “C’è – conclude - un solo futuro possibile: un futuro condiviso. Lo si costruisce in famiglia, a scuola, in chiesa, in moschea. Io insisto soprattutto con la scuola perché è lì che si costruisce realmente il futuro”.

 
La tradizione è una realtà vitale ed un fatto educativo: è necessaria una vigorosa azione perché si è perduta la trasmissione dei valori da una generazione all’altra. Ecco un compito urgente della famiglia, della Chiesa, dello Stato, ognuno nel proprio campo. È quanto ha ribadito ai microfoni della Radio Vaticana il cardinale Angelo Scola, Patriarca di Venezia, alla conclusione del seminario. Ma perchè oggi è così difficile far comprendere il valore della tradizione? Al microfono Fabrizio Mastrofini, risponde il cardinale Scola:RealAudioMP3

R. - Bisognerebbe operare delle differenze tra il mondo occidentale, europeo, e l’area orientale e medio-orientale. In ogni caso la ragione è dovuta alla emergenza o alla crisi di educazione. Siccome l’anello più elementare per la trasmissione dell’educazione - che come diceva Blondel è un fatto di esperienza e di pratica - è la famiglia e le cosiddette comunità intermedie il fatto che le nostre società non pongano sufficiente attenzione a queste esperienze produce una rottura generativa nella famiglia tra un anello e l’altro. Ciò rende più difficile assumere la tradizione come un valore pratico. Quando vediamo taluni elementi di contrasto come in Occidente la questione del burka o del velo, vediamo i segni di uno scontro tra le tradizioni perché i musulmani vogliono mantenere questi segni e noi occidentali siamo invece in una fase in cui è in atto un processo che vuole neutralizzare tutti i segni e le tradizioni, che vuole instaurare un’antitradizione di tipo individualistico.

 
D. - Parlare di Tradizione sembra volersi riferire a qualcosa di statico. C’è un aspetto dinamico da prendere in considerazione nell’idea di tradizione?

 
R. - L’aspetto dinamico è legato al fatto che i soggetti principali sono coloro che trasmettono e che devono essere capaci di attivare i soggetti che ricevono. Per questo la tradizione non può essere tradizionalismo – un convergere meccanicamente su pacchetti di idee del passato – ma neppure dare origine a soluzioni rivoluzionarie per cui bisogna soltanto guardare al futuro. La tradizione va interpretata da soggetti vitali. Come si fa? Entra in campo la ragione critica che va incarnata nella vita di un popolo attraverso una religione e una fede. Le tradizioni vanno viste alla luce dell’inevitabile interpretazione culturale della fede e della religione. C’è un circolo benefico tra fede e cultura. La fede interpreta la realtà, entra nel concreto della vita e a sua volta l’esperienza elementare di ogni uomo legge i misteri della fede alla luce delle condizioni vitali. Il circuito virtuoso tra fede e cultura vissuto dal soggetto che passa una tradizione al soggetto che la riceve permette alla tradizione di essere vitale, aprire al futuro e consentire il cambiamento.

 
D. - C’è un ruolo di stimolo della Chiesa verso la società civile e le istituzioni politiche?

 
R. - Certamente basta considerare talune nostre città italiane. Quelle che si sono molto sviluppate nelle periferie industriali negli anni Settanta e Novanta e nelle nuove forme di lavoro in atto oggi. Nella visita pastorale che sto compiendo sto verificando cosa abbia voluto dire da parte di Papa Roncalli, quando era Patriarca di Venezia, la fondazione di parrocchie subito dopo la nascita di Marghera. Tutti riconoscono che senza queste parrocchie la realtà civile di Marghera non sarebbe mai nata. La presenza capillare della comunità cristiana come luogo di educazione della persona ha creato dei cittadini ha consentito di costruire socialità. È innegabile la forza del cristianesimo in Italia e la forza delle religioni in generale perché capaci di dare concretezza agli ideali universali. Quando sono astrattamente richiamati sono difficilmente assumibili dalle persone. Solo le persone che vivono nel concreto possono assumere quegli atteggiamenti virtuosi che sono alla base del cittadino autentico e della comunità civile, ovviamente fatte le dovute distinzioni perché oggi viviamo in Italia in una società plurale.







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