Un vecchio proverbio dice: “Il buon giorno si vede dal mattino”. Inaugurando dieci
giorni fa la sua 62.sima edizione con “Up” di Pete Docter, film d’animazione sui valori
umani fondamentali, il Festival di Cannes aveva già scelto una strada, che era quella
di un cinema di alto profilo, dotato di uno sguardo profondo sulle cose e al tempo
stesso di una leggerezza narrativa che non scoraggiava lo spettatore. Alla vigilia
del Palmarès, ora che i giochi sono fatti, ci sentiamo di poter affermare che quasi
tutti i film si sono posti su questa strada, coinvolgendo il pubblico in un’emozione
che serrava la gola e lo faceva talvolta esplodere in risate liberatorie. Il “quasi”
è d’obbligo perché in questi due ultimi giorni, sono state proiettate almeno due pellicole
da dimenticare:“Visage” di Tsai Ming-liang e, soprattutto, “Enter the Void” di Gaspar
Noé. Se il cineasta orientale, in questo suo primo film totalmente europeo, si perde
in un estetismo estenuante attraverso la rappresentazione del mito di Salomé, francamente
insopportabile e provocatorio, al limite dello spregio si rivela Noé, che in due ore
e mezzo di immagini noiose e volgari segue la tragica esperienza di due fratelli a
Tokyo. Fortunatamente per la conclusione del suo concorso, il Festival di Cannes ha
riservato anche delle sorprese, capaci di parlare dell’oggi con sincerità e coraggio:
“A l’origine” di Xavier Giannoli e “The Time That Remains” di Elia Suleiman. Il protagonista
del film di Giannoli è un ex-carcerato isolato dal mondo e abbandonato da tutti. Il
suo ritorno alla vita civile è segnato dallo scacco e da un rinnovato ricorso al crimine:
non trovando lavoro, usa la sua intelligenza per truffare il prossimo. Fino a che
la sua vicenda privata si incrocia con quella degli esseri che la crisi economica
ha lasciato senza lavoro e senza dignità. Allora prende forma un disegno di salvezza,
che non passa per l’egoismo individuale ma attraverso la solidarietà e lo sforzo di
tutti. Tratto da una storia vera, messo in scena efficacemente, altrettanto efficacemente
interpretato, il film supera la sua forma «tradizionale» grazie a un afflato edificante
e alla voglia militante di essere esemplare. Più discreto e personale, “The Time That
Remains” è forse il lavoro più toccante di questo festival. Nato dall’esperienza personale
di Suleiman, il film ripercorre con grazia distante la storia della sua famiglia e,
allo stesso tempo, quella del suo Paese, in un procedere segnato dall’umorismo stralunato
e da improvvisi, strazianti, momenti di tenerezza. Si apre a Nazareth negli anni che
vedono la sconfitta e la diaspora dei palestinesi, e prosegue nel corso del tempo
seguendo la dissoluzione di una cultura, di una lingua, di un modo di vivere, fino
a giungere alla situazione di oggi, quando i suoi genitori sono scomparsi, la resistenza
si perde nella globalizzazione e il protagonista rimane ostinatamente muto. Maschera
da Buster Keaton, Suleiman non accusa, constata. E fa partecipare lo spettatore all’assurdità
del mondo, ma anche alle piccole grandi cose della vita. Questa sera i primi verdetti,
quello della Giuria Ecumenica e dei vari premi collaterali. Domani il Palmarès ufficiale.
Chiunque vinca, ormai siamo arrivati alla fine. Ed è stato uno dei migliori festival
degli ultimi anni. (A cura di Luciano Barisone)