La vita regolata dal caso, il mondo oscuro di un artista, le invenzioni di un film
di guerra, la radiografia di un luogo e di un’epoca: avviandosi verso la conclusione,
il Festival di Cannes ritrova sulla sua strada alcuni dei maestri che ne hanno segnato
la storia. "Les Herbes folles" di Alain Resnais, "Los Abrazos rotos" di Pedro Almodovar,
"Inglorious Basterds" di Quentin Tarantino e "The White Ribbon" di Michael Haneke
sono film che si mantengono su una strada già tracciata, talvolta ancora vitali, talvolta
più stanchi, ma mai noiosi, accademici o manierati. Il film del regista francese sorprende
lo spettatore abituato a storie dal procedimento lineare. Elaborato come un flusso
di coscienza, in cui si mescolano descrizione introspettiva dei personaggi, svolgimento
dei fatti e voce narrante dell’autore, "Les Herbes folles" segue le vicende che fanno
seguito a uno scippo e al successivo ritrovamento dei documenti d’identità della vittima
da parte di un individuo turbato dai rapporti con l’altro sesso. Le erbe cui fa riferimento
il titolo sono quelle invasive, che approfittano di qualsiasi crepa nell’asfalto o
in un muro per piantarvi le radici. Tali sono le caratteristiche degli spiriti tormentati
che abitano il film, preda delle proprie pulsioni e in cerca di una ragione per vivere.
Abitato da misteriose sensazioni che lo percorrono fino alla fine, il film si interroga
e ci interroga sul nostro presente sfuggente, lasciandoci soli, sulla soglia, senza
istruzioni per l’uso del nostro passaggio su questa terra. Più semplice – e anche
meno coinvolgente – "Los Abrazos rotos" di Pedro Almodovar rievoca l’esistenza marginale
di un artista dalla doppia vita di scrittore e di cineasta, diventato cieco a seguito
di un incidente stradale in cui ha perso la moglie. Il regista spagnolo, da sempre
abile confezionatore di melodrammi dai toni di commedia, non sembra molto distante
dal suo personaggio di cui si coglie la stanchezza e lo sguardo disincantato sul mondo.
Se le caratteristiche del suo cinema ci sono tutte, il dispositivo risulta tuttavia
privo di quell’energia e di quello sguardo ludico che davano forma a tutte le sue
precedenti prove d’autore. La stessa constatazione si potrebbe fare per Quentin Tarantino,
il cui "Inglorious Basterds" è stato, insieme ad "Antichrist" di Lars Von Trier, l’evento
più mediatizzato del Festival. Anche qui tuttavia, come nel caso del regista danese,
ci troviamo di fronte ad una supervalutazione preventiva di un’opera che riserva invece
molte delusioni. Sullo stile disinvolto di Tarantino, sulla sua capacità di costruire
talvolta dei sorprendenti snodi di sceneggiatura, sulle invenzioni che mescolano la
cinefilia e il divertimento della rilettura postmoderna, non ci piove. "Inglorious
Besterds", fantasiosa storia di una missione speciale che elimina Hitler e tutti i
gerarchi nazisti, ponendo fine alla Seconda Guerra mondiale, conferma ampiamente queste
caratteristiche. Il problema è che il suo cinema, privo di ogni riferimento all’etica,
funziona se tutti i suoi meccanismi sono perfettamente sincronizzati: qui invece il
regista americano si perde nelle troppe parole, nelle promesse di azione non mantenute,
nel seguire un dispositivo che dopo mezzora è largamente prevedibile. Un esito del
tutto opposto consegue invece "The White Ribbon" di Michael Haneke, che nel silenzio
di inquadrature fortemente pittoriche, nel procedere di un implacabile tessuto narrativo,
nello sguardo freddo e distante su un mondo antico che richiama l’oggi, ci lascia
affascinati e turbati. Raccontando di un villaggio del Nord della Germania, alla vigilia
della Prima Guerra Mondiale, e degli inquietanti episodi che ne sconvolgono la quieta
esistenza, il regista austriaco ci pone di fronte, come sempre, a un discorso che
è al contempo politico e morale. L’allusione alle pulsioni di onnipotenza punitiva
che portarono al disastro nazista risuona come l’eco di una minaccia che ancora oggi
è palpabile nell’aria e fa di "The White Ribbon" al contempo un monito e un film da
non perdere. (Da Cannes, Luciano Barisone)