Nell'Africa orientale cresce il traffico di esseri umani
In Africa Orientale il traffico di esseri umani finalizzato al lavoro forzato o allo
sfruttamento sessuale è in preoccupante aumento. È quanto emerge da un nuovo studio
condotto dal “Koinonia Advisory Research and Development Service” (KARDS), un’agenzia
cattolica di ricerca per lo sviluppo in Africa. Lo studio – riferisce l’agenzia africana
Cisa - ha preso in esame due Paesi: il Kenya e la Tanzania, avvalendosi delle informazioni
fornite da una cinquantina di organizzazioni non governative, laiche e confessionali,
impegnate nella lotta a questa piaga. Come altrove, le principali vittime di queste
nuove forme di schiavitù sono minori, soprattutto bambine, e donne. In Tanzania i
ragazzi vittime del traffico sono impiegati nelle piantagioni, nelle miniere, nel
settore ittico e in altre attività dell’economia sommersa, mentre le ragazze sono
destinate alle aree urbane dello Zanzibar, ma anche ad alcuni Paesi mediorientali
e persino in Europa, dove vengono impiegate nei lavori domestici e spesso finiscono
nel giro delle prostituzione. Molti uomini adulti finiscono invece in Sudafrica. Secondo
l’indagine, in Kenya i bambini ridotti in schiavitù sono destinati ai lavori domestici
o a lavorare come venditori ambulanti, nei campi, nella pastorizia o come inservienti
nei locali. Una parte viene portata in altri Paesi africani, in Medio oriente , in
particolare in Arabia Saudita e negli Emirati Arabi Uniti, ma anche in Europa e Nord
America. Anche in questo caso molti sono costretti alla prostituzione, soprattutto
le bambine. Ma il Kenya e la Tanzania sono anche paesi di transito per bambine e donne
provenienti dall’Asia e da altri Paesi africani e destinate al mercato della prostituzione
in Europa. Una parte viene sfruttata anche nel mercato del sesso locale. Ad alimentare
questo turpe traffico – spiega il rapporto – è come sempre la povertà, la disoccupazione,
le migrazioni, la globalizzazione e la mancata registrazione all’anagrafe dei bambini
che li rende particolarmente vulnerabili. Lo studio rileva inoltre che il fenomeno
è favorito anche dall’’assenza di una legislazione ad hoc nei Paesi interessati. (L.Z.)