Le comunità immigrate di Roma si incontrano oggi alla XVII Festa dei Popoli
La diocesi di Roma celebra oggi la XVIII Festa dei Popoli, un incontro che vuole radunare
le comunità immigrate della capitale per favorirne l’integrazione. Animazione, preghiera,
momenti culturali, gastronomia e spettacolo sono gli ingredienti di questo avvenimento
organizzato nella basilica e nella piazza di San Giovanni in Laterano. Ad organizzare
l’evento - quest’anno sul tema “Roma con altri occhi” - la famiglia scalabriniana,
il Vicariato ed il Comune di Roma, Caritas, Acli ed ancora Città dei ragazzi e Comunità
di Sant’Egidio. Tiziana Campisi ha chiesto a don Pierpaolo Felicolo,
vicedirettore dell’ufficio diocesano per la pastorale delle migrazioni, come è stata
pensata la Festa dei Popoli:
R. – C’è
un’idea bella di questa festa, a mio avviso: fare incontrare, fare lavorare insieme
le persone. Preparare la festa vuol dire incontrarsi: cominciamo i preparativi a
gennaio con i laici e nell’incontro nasce amicizia, rapporto tra le varie etnie. E’
importante anche far lavorare i sacerdoti tra di loro perché è bello accogliere le
comunità. Tuttavia, dobbiamo vincere anche la tentazione che si chiudano tra loro
cercando di farli aprire al rapporto con la diocesi che li accoglie. E la festa, secondo
me, in questo tempo, ha un ulteriore significato: l’incontrarsi ci fa superare ogni
paura, pregiudizio, nell’amicizia reciproca e nel rispetto delle regole di chi viene
qui e viene accolto. D. – Qual è la realtà, oggi, delle comunità
immigrate a Roma? R. – E’ molto variegata. Io parlo per le comunità
cattoliche: la comunità filippina è già alla seconda generazione, come la comunità
polacca, e sono bene inserite, ben strutturate. Penso alla comunità latino americana:
con i cappellani ed i laici andiamo a trovare le persone che sono in carcere, che
sono in difficoltà, che sono in ospedale. Sono comunità attente all’uomo, attente
alle loro esigenze. C’è la comunità egiziana che ha poche persone ma il cappellano
la aiuta con l’amicizia nel rapporto personale. C’è la comunità sudanese che è nata
da poco con tanti profughi del Darfur. Le comunità straniere aiutano a far vivere
ancora meglio l’anima cristiana della nostra città e la Chiesa di Roma è più ricca
perché, nell’accoglienza e nella diversità, se vissute bene, c’è una grande ricchezza. D.
– Che cosa donano alla città queste comunità? R. – Tanto nella
diversità. Penso alla liturgia che esprimono le comunità africane, le comunità latino
americane, la gioia della liturgia, la gioia dell’incontro con il Signore. Testimoniano
la fede. Penso a tante badanti che accompagnano anziani nella parte finale della loro
vita, accompagnandoli anche nella fede. D. – Di che cosa necessitano
queste persone? R. – Penso ai bambini e penso ad un inserimento
normale nelle scuole. Penso alle comunità rumena e polacca che hanno una grande facilità
ad imparare la nostra lingua ma anche alle comunità asiatiche che, proprio per struttura,
fanno una gran fatica. Penso a tanti che oggi perdono il lavoro e quindi hanno bisogno
di un sostegno. D. – Che cosa può dirci della sua personale
esperienza con gli immigrati? R. – E’ stata una grazia per il
mio sacerdozio. Il mio sacerdozio, accanto a loro, si è aperto, si è aperto alla mondialità.
Innanzitutto, attenzione all’altro, cioè a pormi di fronte all’altro, non con le mie
idee, non con i miei preconcetti, con la mia visione, ma cercando di capire cosa pensano
gli altri. Poi questa varietà: il pensare nella diversità è una ricchezza. Capire
che non c’è un pensiero unico è anche per me una sollecitazione a vivere in modo nuovo
e a testimoniare, nella gioia e nella speranza - siamo in pieno tempo pasquale - la
fede del risorto.