Il Papa al Campo profughi di Aida: tragica la costruzione del muro. Per la pace occorre
andare oltre le recriminazioni e rompere il ciclo delle violenze
Esprimo “la mia solidarietà a tutti i Palestinesi senza casa, che bramano di poter
tornare ai luoghi natii, o di vivere permanentemente in una patria propria”. Con queste
parole il Papa ha salutato i profughi del Campo di Aida dove vivono circa 7 mila persone.
Secondo l’Onu i profughi palestinesi sono circa 4 milioni e 600 mila. Nei territori
palestinesi gli sfollati sono un milione e 300 mila. L’incontro si è svolto proprio
a ridosso del muro di separazione eretto da Israele. Nel Campo - Benedetto XVI ha
incontrato - come è stato a Gerusalemme per la famiglia del soldato Shalit prigioniero
di Hamas - due bambine, una cristiana e l’altra musulmana, figlie di genitori detenuti
in Israele. Il Pontefice ha sottolineato la sua solidarietà per la sofferenza della
popolazione palestinese. “È comprensibile – ha detto - che vi sentiate spesso frustrati.
Le vostre legittime aspirazioni ad una patria permanente, ad uno Stato Palestinese
indipendente, restano incompiute. E voi, al contrario, vi sentite intrappolati, come
molti in questa regione e nel mondo, in una spirale di violenza, di attacchi e contrattacchi,
di vendette e di distruzioni continue”. Ha quindi rilevato “dura consapevolezza del
punto morto a cui sembrano essere giunti i contatti tra Israeliani e Palestinesi
– il muro. In un mondo in cui le frontiere vengono sempre più aperte – al commercio,
ai viaggi, alla mobilità della gente, agli scambi culturali – è tragico vedere che
vengono tuttora eretti dei muri. Quanto aspiriamo a vedere i frutti del ben più difficile
compito di edificare la pace! Quanto ardentemente preghiamo perché finiscano le ostilità
che hanno causato l’erezione di questo muro!”. Quindi ha aggiunto: “Da entrambe le
parti del muro è necessario grande coraggio per superare la paura e la sfiducia, se
si vuole contrastare il bisogno di vendetta per perdite o ferimenti. Occorre magnanimità
per ricercare la riconciliazione dopo anni di scontri armati. E tuttavia la storia
ci insegna che la pace viene soltanto quando le parti in conflitto sono disposte ad
andare oltre le recriminazioni e a lavorare insieme a fini comuni, prendendo sul serio
gli interessi e le preoccupazioni degli altri e cercando decisamente di costruire
un’atmosfera di fiducia. Deve esserci una determinazione ad intraprendere iniziative
forti e creative per la riconciliazione: se ciascuno insiste su concessioni preliminari
da parte dell’altro, il risultato sarà soltanto lo stallo delle trattative”. Ha ribadito
la necessità di un intervento della comunità internazionale perché “nessuno s’attende
che i popoli Palestinese e Israeliano” arrivino da soli ad una soluzione del conflitto.
Ecco il testo integrale del discorso del Papa: Signor
Presidente, Cari Amici, la mia
visita al Campo Profughi di Aida questo pomeriggio mi offre la gradita opportunità
di esprimere la mia solidarietà a tutti i Palestinesi senza casa, che bramano di poter
tornare ai luoghi natii, o di vivere permanentemente in una patria propria. Grazie,
Signor Presidente, per il suo cortese saluto. E grazie anche a Lei, Signora Abu Zayd,
e agli altri speaker. A tutti gli ufficiali della United Nations Relief and Works
Agency (Agenzia per il soccorso e il sostegno delle Nazioni Unite), che si prendono
cura dei profughi, manifesto l’apprezzamento che provano innumerevoli uomini e donne
di tutto il mondo per l’opera fatta qui ed in altri campi nella regione. Estendo
un saluto particolare ai bambini e agli insegnanti della scuola. Attraverso il vostro
impegno nell’educazione esprimete speranza nel futuro. A tutti i giovani qui presenti
dico: rinnovate i vostri sforzi per prepararvi al tempo in cui sarete responsabili
degli affari del popolo Palestinese negli anni a venire. I genitori hanno qui un ruolo
molto importante. A tutte le famiglie presenti in questo campo dico: non mancate di
sostenere i vostri figli nei loro studi e nel coltivare i loro doni, così che non
vi sia scarsità di personale ben formato per occupare nel futuro posizioni di responsabilità
nella comunità Palestinese. So che molte vostre famiglie sono divise – a causa di
imprigionamento di membri della famiglia o di restrizioni alla libertà di movimento
– e che molti tra voi hanno sperimentato perdite nel corso delle ostilità. Il mio
cuore si unisce a quello di coloro che, per tale ragione, soffrono. Siate certi che
tutti i profughi Palestinesi nel mondo, specie quelli che hanno perso casa e persone
care durante il recente conflitto di Gaza, sono costantemente ricordati nelle mie
preghiere. Desidero dare atto del buon lavoro
svolto da molte agenzie della Chiesa nel prendersi cura dei profughi qui e in altre
parti dei Territori Palestinesi. La Missione Pontificia per la Palestina, fondata
circa sessant’anni orsono per coordinare l’assistenza umanitaria cattolica ai rifugiati,
continua la propria opera molto necessaria fianco a fianco di altre simili organizzazioni.
In questo campo la presenza delle Suore Missionarie Francescane del Cuore Immacolato
di Maria richiama alla mente la figura carismatica di san Francesco, grande apostolo
di pace e di riconciliazione. A questo proposito, voglio esprimere il mio particolare
apprezzamento per l’enorme contributo dato dai diversi membri della Famiglia francescana
nel prendersi cura della gente di queste terre, facendo di se stessi “strumenti di
pace”, secondo la nota espressione attribuita al Santo di Assisi. Strumenti
di pace. Quanto le persone di questo campo, di questi Territori e dell’intera regione
anelano alla pace! In questi giorni tale desiderio assume una particolare intensità
mentre ricordate gli eventi del maggio del 1948 e gli anni di un conflitto tuttora
irrisolto, che seguirono a quegli eventi. Voi ora vivete in condizioni precarie e
difficili, con limitate opportunità di occupazione. È comprensibile che vi sentiate
spesso frustrati. Le vostre legittime aspirazioni ad una patria permanente, ad uno
Stato Palestinese indipendente, restano incompiute. E voi, al contrario, vi sentite
intrappolati, come molti in questa regione e nel mondo, in una spirale di violenza,
di attacchi e contrattacchi, di vendette e di distruzioni continue. Tutto il mondo
desidera fortemente che sia spezzata questa spirale, anela a che la pace metta fine
alle perenni ostilità. Incombente su di noi, mentre siamo qui riuniti questo pomeriggio,
è la dura consapevolezza del punto morto a cui sembrano essere giunti i contatti tra
Israeliani e Palestinesi – il muro. In un mondo
in cui le frontiere vengono sempre più aperte – al commercio, ai viaggi, alla mobilità
della gente, agli scambi culturali – è tragico vedere che vengono tuttora eretti dei
muri. Quanto aspiriamo a vedere i frutti del ben più difficile compito di edificare
la pace! Quanto ardentemente preghiamo perché finiscano le ostilità che hanno causato
l’erezione di questo muro! Da entrambe le parti
del muro è necessario grande coraggio per superare la paura e la sfiducia, se si vuole
contrastare il bisogno di vendetta per perdite o ferimenti. Occorre magnanimità per
ricercare la riconciliazione dopo anni di scontri armati. E tuttavia la storia ci
insegna che la pace viene soltanto quando le parti in conflitto sono disposte ad andare
oltre le recriminazioni e a lavorare insieme a fini comuni, prendendo sul serio gli
interessi e le preoccupazioni degli altri e cercando decisamente di costruire un’atmosfera
di fiducia. Deve esserci una determinazione ad intraprendere iniziative forti e creative
per la riconciliazione: se ciascuno insiste su concessioni preliminari da parte dell’altro,
il risultato sarà soltanto lo stallo delle trattative. L’aiuto
umanitario, come quello che viene offerto in questo campo, ha un ruolo essenziale
da svolgere, ma la soluzione a lungo termine ad un conflitto come questo non può essere
che politica. Nessuno s’attende che i popoli Palestinese e Israeliano vi arrivino
da soli. È vitale il sostegno della comunità internazionale. Rinnovo perciò il mio
appello a tutte le parti coinvolte perché esercitino la propria influenza in favore
di una soluzione giusta e duratura, nel rispetto delle legittime esigenze di tutte
le parti e riconoscendo il loro diritto di vivere in pace e con dignità, secondo il
diritto internazionale. Allo stesso tempo, tuttavia, gli sforzi diplomatici potranno
avere successo soltanto se gli stessi Palestinesi e Israeliani saranno disposti a
rompere con il ciclo delle aggressioni. Mi vengono alla mente le splendide parole
attribuite a san Francesco: “Dove c’è odio, che io porti amore; dove c’è l’offesa
il perdono…dove c’è tenebra, luce, dove c’è tristezza, gioia”. A
ciascuno di voi rinnovo l’invito ad un profondo impegno nel coltivare la pace e la
non violenza, seguendo l’esempio di san Francesco e di altri grandi costruttori di
pace. La pace deve aver inizio nel proprio ambiente, nella propria famiglia, nel proprio
cuore. Continuo a pregare perché tutte le parti in conflitto in questa terra abbiano
il coraggio e l’immaginazione di perseguire l’esigente ma indispensabile via della
riconciliazione. Possa la pace fiorire ancora una volta in queste terre! Dio benedica
il suo popolo con la pace! Della
situazione del Campo profughi di Aida ci parla padre William Shomali rettore
del seminario di Beit Jala, al microfono di Roberto Piermarini:
R. – Il Campo
profughi di Aida è uno dei tre campi che si trovano a Betlemme; era un terreno che
apparteneva alla popolazione cristiana di Beit Jala. Hanno costruito prima di tutto
qualche tenda, all’inizio, nel ’48; dopo hanno costruito delle case che adesso sono
come tutte le altre case di Betlemme, quelle più povere, con strade malmesse: le fognature
sono spesso inesistenti. La popolazione non arriva a più di sei, sette mila persone,
per la maggior parte musulmana eccetto qualche famiglia cristiana che aveva dei terreni
là e vi ha costruito. D. – Come vivono queste poche famiglie
cristiane all’interno di questo campo profughi, a maggioranza musulmana? R.
– Dipende. C’è qualcuno che vive meglio: non sono mendicanti, direi che sono persone
normali. D. – Sono in armonia con la comunità musulmana? R.
– Direi di sì perché ogni volta che noi cristiani siamo minoritari, non c’è problema.
Il problema arriva quando siamo maggioritari, come a Betlemme o in altre città dove
il numero è consistente: ma quando siamo un due per cento, non siamo oggetto di minaccia
per nessuno. D. – Quali problematiche ci sono all’interno di
questo campo di Aida? R. – Questa gente vuol ritornare alla sua
casa di origine: hanno lasciato la propria terra, la casa, i familiari. Ogni anno
la situazione diventa più difficile perché i primi profughi, quelli del ’48, sono
quasi tutti morti. Ci sono i figli, ma dopo tre generazioni, la possibilità di ritornare,
diventa meno probabile. Dunque, una certa disperazione di ritornare, esiste, sapendo
che gli israeliani non vogliono il ritorno dei profughi. Hanno messo questa condizione
per qualsiasi soluzione al problema. Forse permetteranno il ritorno dei profughi all’interno
dei Territori palestinesi, ma mai all’interno di Israele. (Montaggio a cura
di Maria Brigini)