Lo statu quo in Terra Santa: intervista con padre Macora
Durante la sua visita in Terra Santa il Papa visiterà alcuni luoghi, come il Santo
Sepolcro, regolati dal cosiddetto “statu quo”. Si tratta di un aspetto molto delicato,
soprattutto a livello ecumenico. Roberto Piermarini ne ha parlato con padre
Atanasio Macora, segretario per la Commissione dello “statu quo” della Custodia
di Terra Santa: R. – Lo “statu
quo” in senso stretto riguarda determinati santuari della Terra Santa, tra cui il
Santo Sepolcro, la chiesa della Natività a Betlemme, il Santuario dell’Ascensione
e la Tomba della Vergine, che sono condivisi da diverse comunità cristiane. Lo “statu
quo” regola questa condivisione, nel senso che lo “statu quo” è un decreto che obbliga
ciascuna delle diverse comunità a rimanere nel suo stato attuale, e non è consentito
ad una comunità di andare oltre il proprio confine. Si tratta di questioni di pulizia,
di mantenimento, di proprietà, di uso. Per esempio, per quanto riguarda il tempo liturgico:
ogni comunità è obbligata a pregare nel tempo ad essa riservato e a non andare oltre. D.
– Chi regola lo “statu quo” nei Luoghi Santi? R. – Lo “statu
quo” è regolato … nell’anno 1852 dal sultano turco, che obbligava ciascuna comunità
a rimanere al proprio posto, e questo veniva a confermare – a sua volta – una situazione
precedente che risaliva al 1757. Quindi, lo “statu quo” non è un codice ma è l’imposizione
di un cessate-il-fuoco, in cui ciascuno rimane al proprio posto. Ma è importante sottolineare
che di per sé non è un codice, non c’è un testo unico al quale ciascuna comunità possa
rivolgersi per provare i propri diritti. D. – Padre Macora,
il problema – secondo lei – è lo “statu quo” o la sua interpretazione? R.
– Di per sé, il problema è che non esiste un codice. Cioè, lo “statu quo” è vago,
è in se stesso una cosa vaga, perché non è definito. Non abbiamo un codice comune.
Per essere più precisi: negli anni Sessanta, le tre comunità maggiori del Santo Sepolcro,
cioè i greci-ortodossi, i latini rappresentati dai Francescani e gli armeni, si sono
messi d’accordo per fare i restauri. Per fare i restauri della Basilica, hanno dovuto
stilare degli accordi scritti. Questi accordi scritti, a mio parere, prendono il posto
dello “statu quo”: ormai, in alcune situazioni, esiste una specie di codice scritto
al quale possiamo appellarci, dicendo: questo è nostro perché l’abbiamo aggiustato
nel 1962. Quindi, lì lo “statu quo” non presenta alcun problema, c’è chiarezza. Ma
lo “statu quo” è un grande problema. Ultimamente, a novembre, c’è stato grande conflitto
tra armeni e greci causato da una interpretazione: ecco, queste parti vaghe creano
difficoltà. D. – La difficile questione di Gerusalemme, che
sembra quasi inestricabile, influisce sullo “statu quo”? R.
– Di per sé, no. Lo “statu quo” in senso stretto, è riferito ai Luoghi Santi. Ciò
nonostante, ogni tanto qualcuno usa questa espressione di “statu quo” per indicare
che le potenze politiche di oggi rimangono sulle loro posizioni. D.
– Ultima domanda, padre Macora: c’è stato un problema – dovuto alla presenza di Benedetto
XVI – qui, per quanto riguarda lo “statu quo”, o è stato superato ogni problema? R.
– Non c’è stato nessun problema: io ho trovato i greci e gli armeni disponibilissimi,
al massimo; noi abbiamo dovuto chiedere – per esempio – qualche cortesia, qualche
eccezione alle regole dello “statu quo”: ad esempio, i microfoni, perché nella Basilica
del Santo Sepolcro è proibito l’uso di altoparlanti, per ovvi motivi. Se tutti ne
facessero uso, non si riuscirebbe più a pregare. Però, in via eccezionale, possiamo
usarli con il consenso delle altre due comunità che hanno acconsentito all’uso degli
altoparlanti. Sono stati veramente bravi e io sono loro riconoscente.