Vittime civili dei raid Nato in Afghanistan. Intervista col generale Bertolini
Più impegno contro i talebani e i signori della guerra e "risultati concreti" contro
la corruzione. Queste in sintesi le richieste del presidente statunitense Obama che,
ieri alla Casa Bianca, ha ricevuto separatamente il presidente afghano Karzai e quello
pakistano Zardari. Ma a fare da sfondo agli incontri, è la questione delle vittime
civili delle operazioni militari alleate in Afghanistan. Proprio stamane centinaia
di afgani sono scesi nelle strade di Farah per protestare contro i bombardamenti della
Nato. Il comando Usa in Afghanistan e il presidente Hamid Karzai hanno ordinato l'apertura
di un’inchiesta sulla morte di decine di civili nel corso di un’incursione aerea nella
provincia di Farah, nell'ovest del Paese, verificatasi all’inizio della settimana.
Su questi terribili eventi, Stefano Leszczynski ha intervistato il generale
Marco Bertolini, capo di stato maggiore del comando ISAF, il contingente della
Nato in Afghanistan.
R. – Quello
delle vittime civili è un problema enorme. Intanto, è motivo di grande tristezza anche
per noi, perché nessun soldato vuole uccidere degli innocenti. Però, obiettivamente,
continuano ad esserci queste vittime, per vari motivi. Un motivo è che qui non ci
troviamo in una situazione di pace: la pace è l’obiettivo che vogliamo conseguire,
ma la pace, purtroppo, ancora non c’è. Non c’è un accordo tra le parti, così come
abbiamo visto in altre zone, in precedenti operazioni: nei Balcani, come attualmente
in Libano, come è stato in Somalia e così via. Questa, purtroppo, è una forma di guerra
che si sta sviluppando in un Paese nel quale le città sono abitate, le campagne sono
coltivate … Purtroppo, queste cose succedono con una certa frequenza proprio per il
fatto che siamo frammisti alla popolazione.
D. –
Quali sono le precauzioni, al di là – diciamo – anche di una questione etica che tocca
molto da vicino i militari, e cioè quando un nemico si nasconde in una casa abitata
con bambini, forse non bisognerebbe colpire la casa …
R.
– Sì, è vero: questa è una consapevolezza che possiamo forse avere in una situazione
che si svolge a casa nostra. Se si verificasse una situazione critica, dovremmo avere
abbastanza possibilità di sapere chi c’è dentro la casa, chi non c’è … Qui non ci
troviamo in una situazione del genere. Qua ci troviamo in situazioni di combattimenti
veri e propri. Sicuramente abbiamo le nostre responsabilità, però c’è anche la controparte
che utilizza queste persone, a volte discriminate, proprio per creare vittime, per
creare allarme sociale, per creare odio nei nostri confronti.
D.
– La notizia delle vittime civili nei combattimenti, come influisce sui rapporti tra
la popolazione afghana e le forze della coalizione e quindi l’Occidente che poi esse
rappresentano?
R. – Se le dicessi che non incide,
sarei un ipocrita e un bugiardo. E’ chiaro che incide, è chiaro che il padre, la madre
che si vedono uccidere il figlio o la figlia non si accontenteranno delle giustificazioni
che posso portare loro, che possiamo portare loro noi, che siamo qua. Lui sa soltanto
che la persona più importante della sua vita è stata uccisa, è stata eliminata da
un mio intervento. Quindi, su questo – obiettivamente – c’è poco da dire. E questo
è terribile. E’ terribile. Però, devo dire che la popolazione apprezza i nostri sforzi,
capisce quello che facciamo nell’ambito dei nostri mezzi. Per essere loro veramente
vicini in modo efficace non basta la nostra presenza: e questo è un altro aspetto
negativo che vorrei sottolineare. Non basta la presenza del soldato che cerca di portare
sicurezza con le proprie armi, se è necessario; c’è bisogno di un impegno totale delle
società che esprimono questi soldati, dovrebbe esserci veramente anche una presenza
civile che supporti le autorità afghane! E’ su questo che dobbiamo, secondo me, investire!
Ma questa presenza civile non c’è, e non c’è perché non viene qui.