Iran: sdegno nel mondo per l'esecuzione della pittrice Darabi
Ha suscitato forti reazioni e sdegno nel mondo l’esecuzione capitale, avvenuta in
Iran, della giovane pittrice, Delara Darabi, condannata a morte per un omicidio che
avrebbe commesso a 17 anni. Nonostante i gravi dubbi sulla sua reale colpevolezza,
i giudici iraniani hanno ordinato che venisse uccisa, tramite impiccagione, all’alba
di ieri, senza che il suo avvocato venisse informato, come invece vorrebbe la legge.
Marco Guerra ne ha parlato con Mario Marazziti, portavoce della comunità
di Sant’Egidio:
R. - La pena
di morte non è considerata una violazione dei diritti umani sempre e dovunque. Negli
stessi Stati Uniti è considerata un atto di giustizia normale, in alcuni casi. Siamo
noi che percepiamo questo come una grande violazione: in questo caso perché riguarda
una donna, perché riguarda una donna di cultura, un reato imputato addirittura in
un’età in cui si è ancora troppo giovani per capire la differenza tra bene e male
in maniera piena. Il problema è che la pena di morte è qualcosa che va eliminata comunque
dalla faccia della terra. D. - La pittrice Darabi è stata condannata
per un reato commesso da minorenne e la stessa esecuzione è avvenuta senza tutele
legali. Casi del genere, ci sono anche in altre parti del mondo? R.
- Dobbiamo ricordare che fino al primo marzo del 2004, questa pratica era normale
anche negli Stati Uniti. E' stata poi la Corte Suprema a dire che c’è un mutamento
del sentimento di decenza del quale anche gli Stati Uniti devono tener conto. Per
cui l’esecuzione, in questo caso, di persone ancora minorenni al momento del reato
- e poi dei disabili mentali - è diventata illegale negli Stati Uniti. In realtà c’è
un gruppo di Paesi - pensiamo, oltre a questi, alla Somalia - dove in realtà la vita
umana non conta niente e che ancora ammettono l’esecuzione anche dei minorenni, o
di minorenni al tempo del reato. Per una persona che sia completamente responsabile,
anche magari di un crimine compiuto all’età di 13, 14, 15 anni, direi che il mondo
dovrà trovare un altro modo per comminare la pena. D. - Al momento
si registra qualche segnale positivo nella lotta alla pena di morte? R.
- Negli ultimi 30 anni, siamo passati da 20, 30 Paesi contro la pena di morte, a praticamente
120 Paesi che oggi non usano la pena capitale. Noi abbiamo assistito, negli ultimissimi
tempi, all’abolizione nel New Mexico ed anche in Africa ci sono diversi Paesi che
l’hanno abolita recentemente, come il Gabon, il Burundi. E c’è un’iniziativa che speriamo
arrivi in porto in Malawi. Ci sono poi l’Uzbekistan, il Kirghizistan e il Kazakistan
che oggi la stanno abolendo. Sono, questi, grandissimi segnali positivi. Dobbiamo
fare un grande lavoro culturale, è un sentimento di rispetto della vita che sta salendo
nel mondo: penso al fatto del Tribunale penale internazionale che non ammette la pena
di morte neanche per i crimini contro l’umanità. D. - La comunità
internazionale si sta sempre più mobilitando contro la pena di morte. Ma perché non
c’è la stessa presa di coscienza in difesa della vita nascente? R.
- La pena di morte, che è sempre stata popolare nella storia umana, è diventata meno
popolare dopo la Seconda guerra mondiale. La reazione è partita dall’Europa. Dall’Europa
è nata un’idea per cui democrazia, libertà, non possono coincidere con la morte. In
realtà, oggi, c’è anche una cultura, che si è affermata in Occidente, di forte individualismo.
Negli ultimi decenni, si è affermato un pensiero di libertà che è diventato estremo
fino all’individualismo, quasi come una religione. Allora, in questa chiave, il corpo
della donna ed il diritto di chi "vive" è diventato più forte del diritto di chi deve
nascere. Io credo che anche qui ci sarà un ripensamento.