Dopo ore di terrore è finito l’assedio alla scuola di polizia non lontano da Lahore,
in Pakistan. L’esercito ha, infatti, dichiarato di aver sconfitto il gruppo di assalitori
che, stamani, ha preso di mira la struttura e ingaggiato un duro scontro a fuoco con
le forze di sicurezza. Grave il bilancio dell’attacco: almeno 26 morti e quasi 90
feriti. La Chiesa cattolica del Paese ha condannato senza mezzi termini l’attentato.
Peter Jacob, segretario esecutivo della Commissione nazionale di Giustizia e Pace
parla di un gesto molto triste e spiega che la questione legata all’estremismo nel
Paese non è stata finora affrontata in maniera adeguata. Ieri, il presidente americano
Obama aveva escluso l’invio di altre truppe in Pakistan assicurando un pressing diplomatico
e un intervento civile per sradicare la presenza di Al Qaeda nel Paese. Benedetta
Capelli ha raccolto il commento di Emanuele Giordana, direttore dell’Associazione
giornalistica Lettera 22:
R. – Credo
che dobbiamo abituarci a considerare il Pakistan il terreno di uno scontro che è in
parte tra forze diverse interne e in parte internazionale su un contenzioso che si
gioca da anni lungo la frontiera indiana da una parte e quella afgana dall’altra.
Qui il Pakistan rappresenta il terreno migliore per azioni di destabilizzazione che
riguardano tutta l’area regionale. Quindi, gli attori sono spesso diversi, in molti
casi in combutta tra di loro, e agiscono in un momento di grave debolezza dell’esecutivo.
L’abbiamo visto nei giorni passati, sia il presidente Zardari che il primo ministro
Gilani sono in una situazione di grande fragilità istituzionale, non godono in realtà
di un grandissimo consenso ed è chiaro che questo è il momento migliore per fare cadere
l’istituzione Paese.
D. - Quindi si può ipotizzare
un legame con la strategia annunciata dagli Stati Uniti per contrastare la presenza
talebana nel Paese?
R. – Probabilmente sì. Inoltre Obama ha dato incarico
di andare a spiegare il piano esattamente a tre Paesi: l’Afghanistan il Pakistan e
l’India. C’è un filo rosso che li lega così come c’è un filo più ampio che lega tutti
i Paesi dell’area, nel senso esteso del termine, fino ad arrivare alla Cina, alla
Russia, all’Iran. La conferenza che si svolge mercoledì all’Aja sull’Afghanistan tiene
in realtà in considerazione anche questo fatto. Il tentativo degli americani è di
rafforzare il Pakistan, finalmente, non solo sul piano militare, ma investendo soldi
per ricostruire scuole, strade e ospedali. E' il tentativo di riprendere in mano la
situazione di quel Paese. La strategia esclusivamente militare non ha portato a nulla.
Va sottratta l’acqua al terrorismo e all’integralismo, creando le condizioni per cui
non ci sia più consenso verso queste forze destabilizzanti che invece in molti casi,
per il risentimento della gente comune, finiscono per trovare un terreno fertile e
poter andare avanti indisturbati.
D. – Questo approccio
diplomatico e civile sul quale spinge Obama, quali limiti e quali ostacoli può avere
nel contesto pakistano?
R. – I limiti sono tanti
anche perché è un’azione tardiva, in più il Pakistan è un Paese difficile che dalla
sua formazione, nel 1947, si trascina una sorta di peccato originale quando fu diviso
dall’India e creato artificiosamente ma in realtà con meno mezzi della sua "sorella
maggiore". Inoltre per tenere insieme l’identità di un Paese molto frazionato hanno
giocato la carta dell’islamismo radicale e questa è una carta che si rivolta contro
l’istituzione e i Paesi. Quindi, il piano di Obama va benissimo ma non ci si può illudere
che possa funzionare a breve termine. E’ un segnale importante, come sarà importante
che l’Unione europea - come sembra abbia promesso - decida degli accordi di libero
scambio commerciali con il Pakistan per favorire il rilancio dell’economia e quindi
la stabilizzazione del Paese.