Bashir in Libia nonostante il mandato di cattura internazionale
Ennesima sfida alla comunità internazionale del presidente sudanese Omar el Bashir
contro il quale la Corte penale internazionale ha emesso un mandato di cattura per
crimini contro l'umanità e di guerra per quando accaduto in Darfur. Stamani Bashir
è giunto in Libia dopo aver messo piede in Etiopia e in Egitto, dove aveva incontrato
il presidente Mubarak. Intanto, l’Onu ha denunciato che nella regione sudanese del
Darfur oltre un milione di persone resterà senza cibo entro maggio per l'impossibilità
di distribuire aiuti alimentari, dopo che el Beshir ha espulso le ong straniere. Sull’incapacità
della Corte di imporre la sue decisioni, Gabriella Ceraso ha parlato con Andrea
Bianchi, docente di Relazioni internazionali alla Cattolica di Milano:
R.
– Io credo che la comunità internazionale si sia trovata di fronte ad una scelta,
quella di continuare la via del negoziato politico, diplomatico, che non ha dato i
frutti sperati negli ultimi anni, oppure di avvalersi di questo nuovo strumento, che
è la Corte penale internazionale, per cercare di far valere le responsabilità di coloro
che vengono accusati di avere la responsabilità per quello che è successo. Quindi,
è una scelta molto coraggiosa, che, però, deve essere giudicata non nell’immediato,
ma credo nel medio e lungo termine. Perché non è da sottovalutare il potere deterrente
di un’azione penale che limita di molto, non solo la credibilità politica, ma anche
la libertà di movimento della persona incriminata. Perché el Bashir può fare visita,
come ha fatto, a Paesi che non hanno ratificato lo Statuto della Corte, ma nel momento
in cui dovesse mettere piede in uno dei 110 Stati che lo hanno fatto, certamente si
troverebbe in grandi difficoltà, perché questi Stati hanno l’obbligo di arrestarlo
e di consegnarlo alla Corte penale internazionale.
D.
– Era prevedibile, secondo lei, la chiusura rispetto alle ong, e quindi anche un maggiore
isolamento della popolazione nel Darfur?
R. – Penso
che fosse stato messo in conto, dal momento in cui la decisione è stata presa. Credo,
però, che possa a lungo termine portare a degli effetti positivi, perché è un messaggio
molto forte, lanciato nei confronti di tutti coloro, che compiono atti che la comunità
internazionale considera non più tollerabili, e che possono essere chiamati a risponderne.
D. – Perché non accade per il Darfur quello che è successo
per la ex Jugoslavia o per il Rwanda?
R. – Anche questa
è una scelta di carattere, come dire, di politica normativa, perché all’epoca in cui
furono creati i tribunali per il Rwanda e per la ex Jugoslavia non c’era la Corte
penale internazionale. Quindi, fu il Consiglio di sicurezza che, in qualche modo,
si trovò a dover colmare questa lacuna, creandoli lui stesso con una sua risoluzione.
Alla fine degli anni ’90, forse anche grazie a questa attività di precursore, che
soprattutto il Tribunale per la ex Jugoslavia ha avuto, si è reso possibile negoziare
uno strumento diverso, cioè un Tribunale internazionale che non si occupasse di situazioni
specifiche, ma che avesse una sorta di competenza più generale. E quindi, sotto questo
profilo, credo che siamo di fronte ad un passo avanti, perché la giustizia limitata
a casi speciali o a conflitti particolari, credo che, comunque, si accompagni sempre
ad un senso di selettività, che a lungo termine può essere pregiudizievole.