Nel sud della Somalia quattro operatori dell’Onu - un somalo, un keniota, un francese
e un altro occidentale di cui non si conosce ancora la nazionalità - sono stati rapiti
da un gruppo armato, a circa 250 km dalla capitale Mogadiscio. I cooperanti appartengono
al Programma Alimentare Mondiale e al programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo.
Sulla situazione nel Paese africano, Stefano Leszczynski ha intervistato mons. Giorgio
Bertin amministratore apostolico per Mogadiscio:
R. – Certamente
il nuovo governo, nato dopo la 15.ma conferenza di riconciliazione e di pace a Gibuti,
si trova di fronte un Paese completamente distrutto, soprattutto nelle sue istituzioni.
Nel centro sud, in modo particolare, c'è una mancanza totale di sicurezza. Questo
rapimento, questo sequestro di persone non è, dunque, una novità assoluta, fa un po'
parte di quello che è avvenuto in questi ultimi mesi. Purtroppo a farne le spese sono
le popolazioni che sono nel bisogno. È una regione che, in questi ultimi due mesi,
è finita nelle mani di islamisti radicali che si oppongono di fatto al nuovo governo.
D.
– Eccellenza, come mai in Somalia, un Paese in un assoluto stato di bisogno e di emergenza,
chi ha il controllo cerca di colpire coloro che portano aiuto e assistenza umanitaria.
In questo caso sono le Nazioni Unite, in altri casi sono stati i missionari e Organizzazioni
non governative…
R. – Innanzitutto per attirare l’attenzione e per dimostrare
che il nuovo governo non controlla. È un messaggio politico. Penso che sia la tattica
della cosiddetta “terra bruciata”: più la situazione diventa disastrosa e più colpisce
non quelli che si oppongono alla rinascita dello Stato ma quelli che stanno cercando
di far rinascere lo Stato. È molto triste dire questo perché, in effetti, chi poi
paga questa tattica sono proprio le persone e la maggior parte della popolazione che
è in condizioni di estrema necessità.