2009-03-12 12:17:19

Scrisoarea Papei privind iertarea excomunicării episcopilor consacraţi de mons. Lefebvre (text în italiană şi franceză)


(RV - 12 martie 2009) A fost publicată joi de Sala vaticană de presă Scrisoarea lui Benedict al XVI-lea către episcopii Bisericii catolice cu privire la iertarea excomunicării celor patru episcopi consacraţi în mod valid dar nelegitim în 1988 de mons. Marcel Lefebvre.

Iată textul integral al Scrisorii lui Benedict al XVI-lea mai întâi în limba italiană şi apoi în franceză.

LETTERA DI SUA SANTITÀ BENEDETTO XVI
AI VESCOVI DELLA CHIESA CATTOLICA
riguardo alla remissione della scomunica
dei quattro Vescovi consacrati dall’Arcivescovo Lefebvre

Cari Confratelli nel ministero episcopale!

La remissione della scomunica ai quattro Vescovi, consacrati nell’anno 1988 dall’Arcivescovo Lefebvre senza mandato della Santa Sede, per molteplici ragioni ha suscitato all’interno e fuori della Chiesa Cattolica una discussione di una tale veemenza quale da molto tempo non si era più sperimentata. Molti Vescovi si sono sentiti perplessi davanti a un avvenimento verificatosi inaspettatamente e difficile da inquadrare positivamente nelle questioni e nei compiti della Chiesa di oggi. Anche se molti Vescovi e fedeli in linea di principio erano disposti a valutare in modo positivo la disposizione del Papa alla riconciliazione, a ciò tuttavia si contrapponeva la questione circa la convenienza di un simile gesto a fronte delle vere urgenze di una vita di fede nel nostro tempo. Alcuni gruppi, invece, accusavano apertamente il Papa di voler tornare indietro, a prima del Concilio: si scatenava così una valanga di proteste, la cui amarezza rivelava ferite risalenti al di là del momento. Mi sento perciò spinto a rivolgere a voi, cari Confratelli, una parola chiarificatrice, che deve aiutare a comprendere le intenzioni che in questo passo hanno guidato me e gli organi competenti della Santa Sede. Spero di contribuire in questo modo alla pace nella Chiesa.

Una disavventura per me imprevedibile è stata il fatto che il caso Williamson si è sovrapposto alla remissione della scomunica. Il gesto discreto di misericordia verso quattro Vescovi, ordinati validamente ma non legittimamente, è apparso all’improvviso come una cosa totalmente diversa: come la smentita della riconciliazione tra cristiani ed ebrei, e quindi come la revoca di ciò che in questa materia il Concilio aveva chiarito per il cammino della Chiesa. Un invito alla riconciliazione con un gruppo ecclesiale implicato in un processo di separazione si trasformò così nel suo contrario: un apparente ritorno indietro rispetto a tutti i passi di riconciliazione tra cristiani ed ebrei fatti a partire dal Concilio – passi la cui condivisione e promozione fin dall’inizio era stato un obiettivo del mio personale lavoro teologico. Che questo sovrapporsi di due processi contrapposti sia successo e per un momento abbia disturbato la pace tra cristiani ed ebrei come pure la pace all’interno della Chiesa, è cosa che posso soltanto deplorare profondamente. Mi è stato detto che seguire con attenzione le notizie raggiungibili mediante l’internet avrebbe dato la possibilità di venir tempestivamente a conoscenza del problema. Ne traggo la lezione che in futuro nella Santa Sede dovremo prestar più attenzione a quella fonte di notizie. Sono rimasto rattristato dal fatto che anche cattolici, che in fondo avrebbero potuto sapere meglio come stanno le cose, abbiano pensato di dovermi colpire con un’ostilità pronta all’attacco. Proprio per questo ringrazio tanto più gli amici ebrei che hanno aiutato a togliere di mezzo prontamente il malinteso e a ristabilire l’atmosfera di amicizia e di fiducia, che – come nel tempo di Papa Giovanni Paolo II – anche durante tutto il periodo del mio pontificato è esistita e, grazie a Dio, continua ad esistere.

Un altro sbaglio, per il quale mi rammarico sinceramente, consiste nel fatto che la portata e i limiti del provvedimento del 21 gennaio 2009 non sono stati illustrati in modo sufficientemente chiaro al momento della sua pubblicazione. La scomunica colpisce persone, non istituzioni. Un’Ordinazione episcopale senza il mandato pontificio significa il pericolo di uno scisma, perché mette in questione l’unità del collegio episcopale con il Papa. Perciò la Chiesa deve reagire con la punizione più dura, la scomunica, al fine di richiamare le persone punite in questo modo al pentimento e al ritorno all’unità. A vent’anni dalle Ordinazioni, questo obiettivo purtroppo non è stato ancora raggiunto. La remissione della scomunica mira allo stesso scopo a cui serve la punizione: invitare i quattro Vescovi ancora una volta al ritorno. Questo gesto era possibile dopo che gli interessati avevano espresso il loro riconoscimento in linea di principio del Papa e della sua potestà di Pastore, anche se con delle riserve in materia di obbedienza alla sua autorità dottrinale e a quella del Concilio. Con ciò ritorno alla distinzione tra persona ed istituzione. La remissione della scomunica era un provvedimento nell’ambito della disciplina ecclesiastica: le persone venivano liberate dal peso di coscienza costituito dalla punizione ecclesiastica più grave. Occorre distinguere questo livello disciplinare dall’ambito dottrinale. Il fatto che la Fraternità San Pio X non possieda una posizione canonica nella Chiesa, non si basa in fin dei conti su ragioni disciplinari ma dottrinali. Finché la Fraternità non ha una posizione canonica nella Chiesa, anche i suoi ministri non esercitano ministeri legittimi nella Chiesa. Bisogna quindi distinguere tra il livello disciplinare, che concerne le persone come tali, e il livello dottrinale in cui sono in questione il ministero e l’istituzione. Per precisarlo ancora una volta: finché le questioni concernenti la dottrina non sono chiarite, la Fraternità non ha alcuno stato canonico nella Chiesa, e i suoi ministri – anche se sono stati liberati dalla punizione ecclesiastica – non esercitano in modo legittimo alcun ministero nella Chiesa.

Alla luce di questa situazione è mia intenzione di collegare in futuro la Pontificia Commissione “Ecclesia Dei” – istituzione dal 1988 competente per quelle comunità e persone che, provenendo dalla Fraternità San Pio X o da simili raggruppamenti, vogliono tornare nella piena comunione col Papa – con la Congregazione per la Dottrina della Fede. Con ciò viene chiarito che i problemi che devono ora essere trattati sono di natura essenzialmente dottrinale e riguardano soprattutto l’accettazione del Concilio Vaticano II e del magistero post-conciliare dei Papi. Gli organismi collegiali con i quali la Congregazione studia le questioni che si presentano (specialmente la consueta adunanza dei Cardinali al mercoledì e la Plenaria annuale o biennale) garantiscono il coinvolgimento dei Prefetti di varie Congregazioni romane e dei rappresentanti dell’Episcopato mondiale nelle decisioni da prendere. Non si può congelare l’autorità magisteriale della Chiesa all’anno 1962 – ciò deve essere ben chiaro alla Fraternità. Ma ad alcuni di coloro che si segnalano come grandi difensori del Concilio deve essere pure richiamato alla memoria che il Vaticano II porta in sé l’intera storia dottrinale della Chiesa. Chi vuole essere obbediente al Concilio, deve accettare la fede professata nel corso dei secoli e non può tagliare le radici di cui l’albero vive.

Spero, cari Confratelli, che con ciò sia chiarito il significato positivo come anche il limite del provvedimento del 21 gennaio 2009. Ora però rimane la questione: Era tale provvedimento necessario? Costituiva veramente una priorità? Non ci sono forse cose molto più importanti? Certamente ci sono delle cose più importanti e più urgenti. Penso di aver evidenziato le priorità del mio Pontificato nei discorsi da me pronunciati al suo inizio. Ciò che ho detto allora rimane in modo inalterato la mia linea direttiva. La prima priorità per il Successore di Pietro è stata fissata dal Signore nel Cenacolo in modo inequivocabile: “Tu … conferma i tuoi fratelli” (Lc 22, 32). Pietro stesso ha formulato in modo nuovo questa priorità nella sua prima Lettera: “Siate sempre pronti a rispondere a chiunque vi domandi ragione della speranza che è in voi” (1 Pt 3, 15). Nel nostro tempo in cui in vaste zone della terra la fede è nel pericolo di spegnersi come una fiamma che non trova più nutrimento, la priorità che sta al di sopra di tutte è di rendere Dio presente in questo mondo e di aprire agli uomini l’accesso a Dio. Non ad un qualsiasi dio, ma a quel Dio che ha parlato sul Sinai; a quel Dio il cui volto riconosciamo nell’amore spinto sino alla fine (cfr Gv 13, 1) – in Gesù Cristo crocifisso e risorto. Il vero problema in questo nostro momento della storia è che Dio sparisce dall’orizzonte degli uomini e che con lo spegnersi della luce proveniente da Dio l’umanità viene colta dalla mancanza di orientamento, i cui effetti distruttivi ci si manifestano sempre di più.

Condurre gli uomini verso Dio, verso il Dio che parla nella Bibbia: questa è la priorità suprema e fondamentale della Chiesa e del Successore di Pietro in questo tempo. Da qui deriva come logica conseguenza che dobbiamo avere a cuore l’unità dei credenti. La loro discordia, infatti, la loro contrapposizione interna mette in dubbio la credibilità del loro parlare di Dio. Per questo lo sforzo per la comune testimonianza di fede dei cristiani – per l’ecumenismo – è incluso nella priorità suprema. A ciò si aggiunge la necessità che tutti coloro che credono in Dio cerchino insieme la pace, tentino di avvicinarsi gli uni agli altri, per andare insieme, pur nella diversità delle loro immagini di Dio, verso la fonte della Luce – è questo il dialogo interreligioso. Chi annuncia Dio come Amore “sino alla fine” deve dare la testimonianza dell’amore: dedicarsi con amore ai sofferenti, respingere l’odio e l’inimicizia – è la dimensione sociale della fede cristiana, di cui ho parlato nell’Enciclica Deus caritas est.

Se dunque l’impegno faticoso per la fede, per la speranza e per l’amore nel mondo costituisce in questo momento (e, in forme diverse, sempre) la vera priorità per la Chiesa, allora ne fanno parte anche le riconciliazioni piccole e medie. Che il sommesso gesto di una mano tesa abbia dato origine ad un grande chiasso, trasformandosi proprio così nel contrario di una riconciliazione, è un fatto di cui dobbiamo prendere atto. Ma ora domando: Era ed è veramente sbagliato andare anche in questo caso incontro al fratello che “ha qualche cosa contro di te” (cfr Mt 5, 23s) e cercare la riconciliazione? Non deve forse anche la società civile tentare di prevenire le radicalizzazioni e di reintegrare i loro eventuali aderenti – per quanto possibile – nelle grandi forze che plasmano la vita sociale, per evitarne la segregazione con tutte le sue conseguenze? Può essere totalmente errato l’impegnarsi per lo scioglimento di irrigidimenti e di restringimenti, così da far spazio a ciò che vi è di positivo e di ricuperabile per l’insieme? Io stesso ho visto, negli anni dopo il 1988, come mediante il ritorno di comunità prima separate da Roma sia cambiato il loro clima interno; come il ritorno nella grande ed ampia Chiesa comune abbia fatto superare posizioni unilaterali e sciolto irrigidimenti così che poi ne sono emerse forze positive per l’insieme. Può lasciarci totalmente indifferenti una comunità nella quale si trovano 491 sacerdoti, 215 seminaristi, 6 seminari, 88 scuole, 2 Istituti universitari, 117 frati, 164 suore e migliaia di fedeli? Dobbiamo davvero tranquillamente lasciarli andare alla deriva lontani dalla Chiesa? Penso ad esempio ai 491 sacerdoti. Non possiamo conoscere l’intreccio delle loro motivazioni. Penso tuttavia che non si sarebbero decisi per il sacerdozio se, accanto a diversi elementi distorti e malati, non ci fosse stato l’amore per Cristo e la volontà di annunciare Lui e con Lui il Dio vivente. Possiamo noi semplicemente escluderli, come rappresentanti di un gruppo marginale radicale, dalla ricerca della riconciliazione e dell’unità? Che ne sarà poi?

Certamente, da molto tempo e poi di nuovo in quest’occasione concreta abbiamo sentito da rappresentanti di quella comunità molte cose stonate – superbia e saccenteria, fissazione su unilateralismi ecc. Per amore della verità devo aggiungere che ho ricevuto anche una serie di testimonianze commoventi di gratitudine, nelle quali si rendeva percepibile un’apertura dei cuori. Ma non dovrebbe la grande Chiesa permettersi di essere anche generosa nella consapevolezza del lungo respiro che possiede; nella consapevolezza della promessa che le è stata data? Non dovremmo come buoni educatori essere capaci anche di non badare a diverse cose non buone e premurarci di condurre fuori dalle strettezze? E non dobbiamo forse ammettere che anche nell’ambiente ecclesiale è emersa qualche stonatura? A volte si ha l’impressione che la nostra società abbia bisogno di un gruppo almeno, al quale non riservare alcuna tolleranza; contro il quale poter tranquillamente scagliarsi con odio. E se qualcuno osa avvicinarglisi – in questo caso il Papa – perde anche lui il diritto alla tolleranza e può pure lui essere trattato con odio senza timore e riserbo.

Cari Confratelli, nei giorni in cui mi è venuto in mente di scrivere questa lettera, è capitato per caso che nel Seminario Romano ho dovuto interpretare e commentare il brano di Gal 5, 13 – 15. Ho notato con sorpresa l’immediatezza con cui queste frasi ci parlano del momento attuale: “Che la libertà non divenga un pretesto per vivere secondo la carne, ma mediante la carità siate a servizio gli uni degli altri. Tutta la legge infatti trova la sua pienezza in un solo precetto: amerai il prossimo tuo come te stesso. Ma se vi mordete e divorate a vicenda, guardate almeno di non distruggervi del tutto gli uni gli altri!” Sono stato sempre incline a considerare questa frase come una delle esagerazioni retoriche che a volte si trovano in san Paolo. Sotto certi aspetti può essere anche così. Ma purtroppo questo “mordere e divorare” esiste anche oggi nella Chiesa come espressione di una libertà mal interpretata. È forse motivo di sorpresa che anche noi non siamo migliori dei Galati? Che almeno siamo minacciati dalle stesse tentazioni? Che dobbiamo imparare sempre di nuovo l’uso giusto della libertà? E che sempre di nuovo dobbiamo imparare la priorità suprema: l’amore? Nel giorno in cui ho parlato di ciò nel Seminario maggiore, a Roma si celebrava la festa della Madonna della Fiducia. Di fatto: Maria ci insegna la fiducia. Ella ci conduce al Figlio, di cui noi tutti possiamo fidarci. Egli ci guiderà – anche in tempi turbolenti. Vorrei così ringraziare di cuore tutti quei numerosi Vescovi, che in questo tempo mi hanno donato segni commoventi di fiducia e di affetto e soprattutto mi hanno assicurato la loro preghiera. Questo ringraziamento vale anche per tutti i fedeli che in questo tempo mi hanno dato testimonianza della loro fedeltà immutata verso il Successore di san Pietro. Il Signore protegga tutti noi e ci conduca sulla via della pace. È un augurio che mi sgorga spontaneo dal cuore in questo inizio di Quaresima, che è tempo liturgico particolarmente favorevole alla purificazione interiore e che tutti ci invita a guardare con speranza rinnovata al traguardo luminoso della Pasqua.
Con una speciale Benedizione Apostolica mi confermo
Vostro nel Signore
 
[Benedictus PP. XVI]
Dal Vaticano, 10 Marzo 2009.
/fine.

 LETTRE DE SA SAINTETÉ BENOÎT XVI
AUX ÉVÊQUES DE L’ÉGLISE CATHOLIQUE

au sujet de la levée de l’excommunication
des quatre Évêques consacrés par Mgr Lefebvre


Chers Confrères dans le ministère épiscopal !

La levée de l’excommunication des quatre Évêques, consacrés en 1988 par Mgr Lefebvre sans mandat du Saint-Siège, a suscité, pour de multiples raisons, au sein et en dehors de l’Église catholique une discussion d’une véhémence telle qu’on n’en avait plus connue depuis très longtemps. Cet événement, survenu à l’improviste et difficile à situer positivement dans les questions et dans les tâches de l’Église d’aujourd’hui, a laissé perplexes de nombreux Évêques. Même si beaucoup d’Évêques et de fidèles étaient disposés, à priori, à considérer positivement la disposition du Pape à la réconciliation, néanmoins la question de l’opportunité d’un tel geste face aux vraies urgences d’une vie de foi à notre époque s’y opposait. Inversement, certains groupes accusaient ouvertement le Pape de vouloir revenir en arrière, au temps d’avant le Concile : d’où le déchaînement d’un flot de protestations, dont l’amertume révélait des blessures remontant au-delà de l’instant présent. C’est pourquoi je suis amené, chers Confrères, à vous fournir quelques éclaircissements, qui doivent aider à comprendre les intentions qui m’ont guidé moi-même ainsi que les organes compétents du Saint-Siège à faire ce pas. J’espère contribuer ainsi à la paix dans l’Église.

Le fait que le cas Williamson se soit superposé à la levée de l’excommunication a été pour moi un incident fâcheux imprévisible. Le geste discret de miséricorde envers quatre Évêques, ordonnés validement mais non légitimement, est apparu tout à coup comme totalement différent : comme le démenti de la réconciliation entre chrétiens et juifs, et donc comme la révocation de ce que le Concile avait clarifié en cette matière pour le cheminement de l’Église. Une invitation à la réconciliation avec un groupe ecclésial impliqué dans un processus de séparation se transforma ainsi en son contraire : un apparent retour en arrière par rapport à tous les pas de réconciliation entre chrétiens et juifs faits à partir du Concile – pas dont le partage et la promotion avaient été dès le début un objectif de mon travail théologique personnel. Que cette superposition de deux processus opposés soit advenue et qu’elle ait troublé un moment la paix entre chrétiens et juifs ainsi que la paix à l’intérieur de l’Église, est une chose que je ne peux que déplorer profondément. Il m’a été dit que suivre avec attention les informations auxquelles on peut accéder par internet aurait permis d’avoir rapidement connaissance du problème. J’en tire la leçon qu’à l’avenir au Saint-Siège nous devrons prêter davantage attention à cette source d’informations. J’ai été peiné du fait que même des catholiques, qui au fond auraient pu mieux savoir ce qu’il en était, aient pensé devoir m’offenser avec une hostilité prête à se manifester. C’est justement pour cela que je remercie d’autant plus les amis juifs qui ont aidé à dissiper rapidement le malentendu et à rétablir l’atmosphère d’amitié et de confiance, qui – comme du temps du Pape Jean-Paul II – comme aussi durant toute la période de mon pontificat a existé et, grâce à Dieu, continue à exister.

Une autre erreur, qui m’attriste sincèrement, réside dans le fait que la portée et les limites de la mesure du 21 janvier 2009 n’ont pas été commentées de façon suffisamment claire au moment de sa publication. L’excommunication touche des personnes, non des institutions. Une ordination épiscopale sans le mandat pontifical signifie le danger d’un schisme, parce qu’elle remet en question l’unité du collège épiscopal avec le Pape. C’est pourquoi l’Église doit réagir par la punition la plus dure, l’excommunication, dans le but d’appeler les personnes punies de cette façon au repentir et au retour à l’unité. Vingt ans après les ordinations, cet objectif n’a malheureusement pas encore été atteint. La levée de l’excommunication vise le même but auquel sert la punition : inviter encore une fois les quatre Évêques au retour. Ce geste était possible une fois que les intéressés avaient exprimé leur reconnaissance de principe du Pape et de son autorité de Pasteur, bien qu’avec des réserves en matière d’obéissance à son autorité doctrinale et à celle du Concile. Je reviens par là à la distinction entre personne et institution. La levée de l’excommunication était une mesure dans le domaine de la discipline ecclésiastique : les personnes étaient libérées du poids de conscience que constitue la punition ecclésiastique la plus grave. Il faut distinguer ce niveau disciplinaire du domaine doctrinal. Le fait que la Fraternité Saint-Pie X n’ait pas de position canonique dans l’Église, ne se base pas en fin de comptes sur des raisons disciplinaires mais doctrinales. Tant que la Fraternité n’a pas une position canonique dans l’Église, ses ministres non plus n’exercent pas de ministères légitimes dans l’Église. Il faut ensuite distinguer entre le niveau disciplinaire, qui concerne les personnes en tant que telles, et le niveau doctrinal où sont en question le ministère et l’institution. Pour le préciser encore une fois : tant que les questions concernant la doctrine ne sont pas éclaircies, la Fraternité n’a aucun statut canonique dans l’Église, et ses ministres – même s’ils ont été libérés de la punition ecclésiastique – n’exercent de façon légitime aucun ministère dans l’Église.

À la lumière de cette situation, j’ai l’intention de rattacher à l’avenir la Commission pontificale “ Ecclesia Dei ” – institution compétente, depuis 1988, pour les communautés et les personnes qui, provenant de la Fraternité Saint-Pie X ou de regroupements semblables, veulent revenir à la pleine communion avec le Pape – à la Congrégation pour la Doctrine de la Foi. Il devient clair ainsi que les problèmes qui doivent être traités à présent sont de nature essentiellement doctrinale et regardent surtout l’acceptation du Concile Vatican II et du magistère post-conciliaire des Papes. Les organismes collégiaux avec lesquels la Congrégation étudie les questions qui se présentent (spécialement la réunion habituelle des Cardinaux le mercredi et l’Assemblé plénière annuelle ou biennale) garantissent l’engagement des Préfets des diverses Congrégations romaines et des représentants de l’Épiscopat mondial dans les décisions à prendre. On ne peut geler l’autorité magistérielle de l’Église à l’année 1962 – ceci doit être bien clair pour la Fraternité. Cependant, à certains de ceux qui se proclament comme de grands défenseurs du Concile, il doit aussi être rappelé que Vatican II renferme l’entière histoire doctrinale de l’Église. Celui qui veut obéir au Concile, doit accepter la foi professée au cours des siècles et il ne peut couper les racines dont l’arbre vit.

J’espère, chers Confrères, qu’ainsi a été éclaircie la signification positive ainsi que les limites de la mesure du 21 janvier 2009. Cependant demeure à présent la question : cette mesure était-elle nécessaire ? Constituait-elle vraiment une priorité ? N’y a-t-il pas des choses beaucoup plus importantes ? Il y a certainement des choses plus importantes et plus urgentes. Je pense avoir souligné les priorités de mon Pontificat dans les discours que j’ai prononcés à son début. Ce que j’ai dit alors demeure de façon inaltérée ma ligne directive. La première priorité pour le Successeur de Pierre a été fixée sans équivoque par le Seigneur au Cénacle : « Toi… affermis tes frères » (Lc 22, 32). Pierre lui-même a formulé de façon nouvelle cette priorité dans sa première Lettre : « Vous devez toujours être prêts à vous expliquer devant tous ceux qui vous demandent de rendre compte de l’espérance qui est en vous » (I P 3, 15). À notre époque où dans de vastes régions de la terre la foi risque de s’éteindre comme une flamme qui ne trouve plus à s’alimenter, la priorité qui prédomine est de rendre Dieu présent dans ce monde et d’ouvrir aux hommes l’accès à Dieu. Non pas à un dieu quelconque, mais à ce Dieu qui a parlé sur le Sinaï ; à ce Dieu dont nous reconnaissons le visage dans l’amour poussé jusqu’au bout (cf. Jn 13, 1) – en Jésus Christ crucifié et ressuscité. En ce moment de notre histoire, le vrai problème est que Dieu disparaît de l’horizon des hommes et que tandis que s’éteint la lumière provenant de Dieu, l’humanité manque d’orientation, et les effets destructeurs s’en manifestent toujours plus en son sein.

Conduire les hommes vers Dieu, vers le Dieu qui parle dans la Bible : c’est la priorité suprême et fondamentale de l’Église et du Successeur de Pierre aujourd’hui. D’où découle, comme conséquence logique, que nous devons avoir à cœur l’unité des croyants. En effet, leur discorde, leur opposition interne met en doute la crédibilité de ce qu’ils disent de Dieu. C’est pourquoi l’effort en vue du témoignage commun de foi des chrétiens – par l’œcuménisme – est inclus dans la priorité suprême. À cela s’ajoute la nécessité que tous ceux qui croient en Dieu recherchent ensemble la paix, tentent de se rapprocher les uns des autres, pour aller ensemble, même si leurs images de Dieu sont diverses, vers la source de la Lumière – c’est là le dialogue interreligieux. Qui annonce Dieu comme Amour “jusqu’au bout” doit donner le témoignage de l’amour : se consacrer avec amour à ceux qui souffrent, repousser la haine et l’inimitié – c’est la dimension sociale de la foi chrétienne, dont j’ai parlé dans l’encyclique Deus caritas est.

Si donc l’engagement ardu pour la foi, pour l’espérance et pour l’amour dans le monde constitue en ce moment (et, dans des formes diverses, toujours) la vraie priorité pour l’Église, alors les réconciliations petites et grandes en font aussi partie. Que l’humble geste d’une main tendue soit à l’origine d’un grand tapage, devenant ainsi le contraire d’une réconciliation, est un fait dont nous devons prendre acte. Mais maintenant je demande : Était-il et est-il vraiment erroné d’aller dans ce cas aussi à la rencontre du frère qui “a quelque chose contre toi” (cf. Mt 5, 23 s.) et de chercher la réconciliation ? La société civile aussi ne doit-elle pas tenter de prévenir les radicalisations et de réintégrer – autant que possible – leurs éventuels adhérents dans les grandes forces qui façonnent la vie sociale, pour en éviter la ségrégation avec toutes ses conséquences ? Le fait de s’engager à réduire les durcissements et les rétrécissements, pour donner ainsi une place à ce qu’il y a de positif et de récupérable pour l’ensemble, peut-il être totalement erroné ? Moi-même j’ai vu, dans les années qui ont suivi 1988, que, grâce au retour de communautés auparavant séparées de Rome, leur climat interne a changé ; que le retour dans la grande et vaste Église commune a fait dépasser des positions unilatérales et a atténué des durcissements de sorte qu’ensuite en ont émergé des forces positives pour l’ensemble. Une communauté dans laquelle se trouvent 491 prêtres, 215 séminaristes, 6 séminaires, 88 écoles, 2 instituts universitaires, 117 frères, 164 sœurs et des milliers de fidèles peut-elle nous laisser totalement indifférents ? Devons-nous impassiblement les laisser aller à la dérive loin de l’Église ? Je pense par exemple aux 491 prêtres. Nous ne pouvons pas connaître l’enchevêtrement de leurs motivations. Je pense toutefois qu’ils ne se seraient pas décidés pour le sacerdoce si, à côté de différents éléments déformés et malades, il n’y avait pas eu l’amour pour le Christ et la volonté de L’annoncer et avec lui le Dieu vivant. Pouvons-nous simplement les exclure, comme représentants d’un groupe marginal radical, de la recherche de la réconciliation et de l’unité ? Qu’en sera-t-il ensuite ?

Certainement, depuis longtemps, et puis à nouveau en cette occasion concrète, nous avons entendu de la part de représentants de cette communauté beaucoup de choses discordantes – suffisance et présomption, fixation sur des unilatéralismes etc. Par amour de la vérité je dois ajouter que j’ai reçu aussi une série de témoignages émouvants de gratitude, dans lesquels était perceptible une ouverture des cœurs. Mais la grande Église ne devrait-elle pas se permettre d’être aussi généreuse, consciente de la grande envergure qu’elle possède ; consciente de la promesse qui lui a été faite ? Ne devrions-nous pas, comme de bons éducateurs, être aussi capables de ne pas prêter attention à différentes choses qui ne sont pas bonnes et nous préoccuper de sortir des étroitesses ? Et ne devrions-nous pas admettre que dans le milieu ecclésial aussi sont ressorties quelques discordances ? Parfois on a l’impression que notre société a besoin d’un groupe au moins, auquel ne réserver aucune tolérance ; contre lequel pouvoir tranquillement se lancer avec haine. Et si quelqu’un ose s’en rapprocher – dans le cas présent le Pape – il perd lui aussi le droit à la tolérance et peut lui aussi être traité avec haine sans crainte ni réserve.

Chers Confrères, durant les jours où il m’est venu à l’esprit d’écrire cette lettre, par hasard, au Séminaire romain, j’ai dû interpréter et commenter le passage de Ga 5, 13-15. J’ai noté avec surprise la rapidité avec laquelle ces phrases nous parlent du moment présent : “Que cette liberté ne soit pas un prétexte pour satisfaire votre égoïsme ; au contraire mettez-vous, par amour, au service les uns des autres. Car toute la Loi atteint sa perfection dans un seul commandement, et le voici : Tu aimeras ton prochain comme toi-même. Si vous vous mordez et vous dévorez les uns les autres, prenez garde : vous allez vous détruire les uns les autres !” J’ai toujours été porté à considérer cette phrase comme une des exagérations rhétoriques qui parfois se trouvent chez saint Paul. Sous certains aspects, il peut en être ainsi. Mais malheureusement ce “mordre et dévorer” existe aussi aujourd’hui dans l’Église comme expression d’une liberté mal interprétée. Est-ce une surprise que nous aussi nous ne soyons pas meilleurs que les Galates ? Que tout au moins nous soyons menacés par les mêmes tentations ? Que nous devions toujours apprendre de nouveau le juste usage de la liberté ? Et que toujours de nouveau nous devions apprendre la priorité suprême : l’amour ? Le jour où j’en ai parlé au grand Séminaire, à Rome, on célébrait la fête de la Vierge de la Confiance. De fait : Marie nous enseigne la confiance. Elle nous conduit à son Fils, auquel nous pouvons tous nous fier. Il nous guidera – même en des temps agités. Je voudrais ainsi remercier de tout cœur tous ces nombreux Évêques, qui en cette période m’ont donné des signes émouvants de confiance et d’affection et surtout m’ont assuré de leur prière. Ce remerciement vaut aussi pour tous les fidèles qui ces jours-ci m’ont donné un témoignage de leur fidélité immuable envers le Successeur de saint Pierre. Que le Seigneur nous protège tous et nous conduise sur le chemin de la paix ! C’est un souhait qui jaillit spontanément du cœur en ce début du Carême, qui est un temps liturgique particulièrement favorable à la purification intérieure et qui nous invite tous à regarder avec une espérance renouvelée vers l’objectif lumineux de Pâques.

Avec une particulière Bénédiction Apostolique, je me redis
Vôtre dans le Seigneur

[Benedictus PP. XVI]
Du Vatican, le 10 mars 2009.
/fine.











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