Il dolore della condizione umana al centro del Festival di Berlino
Una storia dell’Opera di Pechino, un’educazione sentimentale agli inizi del XX secolo,
la noia e il disincanto di una relazione di coppia, il dolore delle vittime del terrorismo,
il duro compito di annunciare la scomparsa di un uomo. Giunto alla metà del suo percorso,
il Festival di Berlino prende improvvisamente vita, avviandosi alla sua conclusione
con cinque film di forte intensità emotiva. “Forever Enthralled” di Chen Kaige ripercorre
la vita e le opere di Mei Lanfang un attore e cantante che rivoluzionò l’Opera di
Pechino in uno dei periodi più tormentati della storia cinese. Nel film ascese e cadute
si susseguono, secondo il corso della Storia e il capriccioso umore degli uomini.
Attraverso un lavoro minuzioso sugli spazi scenografici e i corpi che li abitano,
Chen Kaige rende perfettamente la condizione dell’artista contemporaneo, diviso fra
l’attrazione della libertà creativa e gli opportunismi della politica. “Cheri” di
Stephen Frears racconta invece le tappe di un’educazione alla vita sentimentale, così
come si svolgeva nella società borghese europea agli inizio del Novecento, fra frequentazioni
di salotti e amanti prezzolate che introducevano alle pratiche della sessualità.
Non distante dalle atmosfere di un film che lo rese famoso, “Le relazioni pericolose”,
Frears organizza una messa in scena raffinata in cui la frivolezza scivola lentamente
nella fatica di vivere. È la stessa sensazione che si avverte prepotentemente nel
terzo film tedesco del concorso, “Alle Anderen” di Maren Ade, resoconto puntuale del
disfacimento di una coppia. Giovani e benestanti, i due protagonisti trascorrono le
vacanze estive in Sardegna. La dolcezza del clima e la calda luce del paesaggio all’inizio
sembrano accompagnare una relazione che si svolge come un gioco, nell’allegria e nel
sogno. Poi l’aridità degli egoismi e delle difese prenderà il sopravvento e l’amore
si spegnerà, lentamente. L’inclinazione del Festival verso il dolore della condizione
umana viene confermata anche dai due film più importanti visti finora, “The messenger”
di Oren Moverman e “London river” di Rachid Bouchareb. Nel primo due soldati dell’esercito
americano sono incaricati di portare alle famiglie la notizia della morte in guerra
di un loro congiunto. La pratica di questa azione è regolata da ferree disposizioni
comportamentali, che dovrebbero porre i militari a distanza di sicurezza emotiva dai
parenti della vittime. Ma il dolore è contagioso e l’amore pietoso verso gli altri
prenderà il sopravvento sul dovere. Nel secondo due genitori, divisi per lingua e
religione (lei è inglese e cristiana, lui africano e musulmano), si trovano uniti
nella ricerca dei rispettivi figli, scomparsi durante gli attentati terroristici che
sconvolsero Londra quattro anni fa. Anche qui la distanza fra gli esseri umani e la
diffidenza reciproca sono evidenti. Poi la solidarietà vincerà le paure e l’abbraccio
finale sancirà il rispetto e il riconoscimento dell’altro. (Da Berlino, Luciano
Barisone)