Il triste fenomeno dei bambini soldato è ancora presente in molti Paesi in conflitto
in Africa e in Asia. Proprio in questi giorni al Tribunale Penale dell’Aja è in corso
il processo contro il miliziano congolese, Thomas Lubanga, accusato di genocidio,
crimini guerra e contro l'umanità e anche di aver reclutato minori. Nelle udienze
preliminari hanno testimoniato diversi di loro, costretti ad imbracciare le armi e
ad uccidere. E proprio dalla Repubblica Democratica del Congo la buona notizia, diffusa
dall’Unicef, della liberazione di 85 bambini soldato, che venivano utilizzati nel
conflitto in Nord Kivu. Sul fenomeno Giancarlo La Vella ha intervistato Luciano
Bertozzi, giornalista autori di libri e pubblicazioni sull’argomento:
R. – Io
penso che il problema dei bambini soldato sia la punta dell’iceberg del problema più
generale dello sfruttamento dell’infanzia, nella fase più eclatante delle guerre combattute
dagli adulti solo per il controllo delle risorse. Quindi, sicuramente, i bambini sono
poi più facilmente indottrinabili, si possono rapire ed è facile, per i "signori della
guerra" locali, disporre senza scrupoli di forze umane a buon mercato. Il problema
è che a noi sembra che il mondo più sviluppato sia lontano da questa emergenza. Invece,
ci siamo dentro fino al collo, perché siamo in gran parte noi che forniamo le armi
con cui si combattono i conflitti, che sosteniamo i loro regimi, quando garantiscono
l’accesso alle materie prime di cui noi abbiamo bisogno e a prezzi molto convenienti.
Quindi, questo problema ci deve coinvolgere in prima persona.
D.
– Essere bambino soldato è qualcosa che lascia il segno per tutta la vita…
R.
– E’ chiaro che questi bambini sono molto difficili da recuperare; essi sono segnati
duramente dall'esperienza della guerra e della morte. Consideriamo pure che le stesse
comunità di origine, soprattutto per le bambine, hanno difficoltà di accettarli quando
riescono a liberarsi da questa schiavitù. E’ chiaro che il loro recupero deve rientrare
in un progetto che comporta una particolare formazione professionale, il ritorno
del ragazzi a scuola, l'aspetto psicologico e il reinserimento sociale, ma purtroppo,
laddove non esistono sistemi sanitari, soprattutto al di fuori delle città, questi
bambini rischiano di essere abbandonati a loro stessi. Quindi, è importante un sostegno
anche economico e di personale specializzato, da parte dell’occidente, che abbia la
possibilità di aiutarli.
D. – E’ ancora piccola la
percentuale dei minori che riescono ad uscire da questa drammatica esperienza: che
cosa raccontano?
R. – I racconti sono spesso simili;
cioè vengono magari catturati all’uscita di scuola, oppure nei mercati, minacciati
con le armi; hanno un rito di iniziazione: devono uccidere spesso dei prigionieri,
bambini come loro che hanno provato a scappare e sono stati ripresi. Uccidere, quindi,
per non essere uccisi. Poi, spesso, vengono drogati, sottoposti a crudeltà e prove
incredibili. Per questo si trasformano presto in macchine per uccidere, capaci di
quello che gli adulti non riuscirebbero mai a fare. Inoltre, diventa molto difficile,
quando sono diventati grandi, recuperarli ad una vita normale. A volte se i conflitti
non terminano, una volta usciti, vengono ripresi magari nel campo avverso. In Uganda,
ad esempio, i bambini soldato liberati dalla guerriglia, sono andati a finire nelle
file dell’esercito governativo. Questo anche perché la guerriglia o l’esercito, è
l’unico modo per mangiare qualcosa. Ricordiamoci che si tratta di Paesi dove non c’è
niente per nessuno, quindi avere un fucile vuol dire comunque garantirsi la sopravvivenza
e, anche una volta finiti i conflitti, la strada più facile per questi ragazzi, ormai
adulti, è proprio il banditismo o la delinquenza.
D.
– Come iniziare, in modo efficace e definitivo, la lotta all’utilizzo dei minori nei
conflitti?
R. – Sicuramente vanno poste delle sanzioni,
ma per il momento non c’è la volontà politica di farlo, nonostante ci sia un’attività
di monitoraggio continua da parte dell’ONU e delle organizzazioni non governative
internazionali sul fenomeno. Bisognerebbe passare dalle parole ai fatti: chi si macchia
di crimini di questo genere dovrebbe essere portato davanti alla giustizia e, comunque,
essere messo ai margini della comunità internazionale. Invece, il Consiglio di sicurezza,
anche l’anno scorso, non ha adottato quelle sanzioni che, per esempio, il segretario
generale dell’Onu aveva proposto.