“Dobbiamo continuare ad insegnare ai nostri bambini le lezioni apprese dai capitoli
più bui della nostra storia. Ciò li aiuterà a costruire un mondo di coesistenza pacifica.”.
E’ quanto scrive il segretario generale delle Nazioni Unite Ban Ki-moon per l’odierna
Giornata internazionale di commemorazione delle vittime dell’Olocausto. Era il 27
gennaio 1945 quando le truppe russe varcarono i cancelli del campo di sterminio di
Auschwitz, in Polonia, al cui interno erano morte un milione e mezzo di persone tra
ebrei, zingari, omosessuali e prigionieri di guerra. Al microfono di Benedetta
Capelli la testimonianza di Piero Terracina, oggi ottantenne, internato
ad Auschwitz a soli 15 anni, unico sopravvissuto della sua famiglia. Il suo racconto
comincia con l’emarginazione a scuola a seguito delle legge razziali:
R. –
Avevo iniziato l’anno scolastico nella scuola pubblica che avevo sempre frequentato
e una mattina quando entrai in classe la mia insegnante mi disse che dovevo uscire
perché ero ebreo. La cosa più grave fu che i miei amici, i miei compagni che erano
tutti quanti là, sparirono dalla circolazione. Per me fu uno shock, veramente un grande
shock. Ero stato educato allo studio, al lavoro e vedermi fuori dalla scuola mi faceva
sentire disperato.
D. – Dopo le leggi razziali, cinque
anni di difficoltà e poi il vostro fermo …
R. – Il 7 aprile del 1944
fummo arrestati dalle SS per la spiata di un fascista che ottenne il compenso di 5
mila lire, la cifra che pagavano per ogni ebreo che veniva fatto arrestare, per essere
mandato a morire. Dopo cinque minuti eravamo nel carcere di Regina Coeli, mi presero
le impronte digitali e ricordo che uscii da quell’ufficio e scoppiai a piangere. Mio
padre, rivolto a noi figli, disse: “Siate uomini, non perdete mai la dignità”. Fummo
trasferiti nel campo di Fossoli, vicino Carpi, e fu proprio lì che dovetti vedere
la morte in faccia, perché un giorno entrò una SS nel campo e sparò in testa ad un
poveretto che non aveva fatto assolutamente niente, ma che – disse – gli aveva mancato
di rispetto perché non si era tolto il cappello. Era il primo maggio del 1944 e quel
poveretto si chiamava Pacifico Di Castro.
D. – Quindi,
l’arrivo ad Auschwitz. Qual è il suo ricordo più forte?
R.
– Lì ogni giorno era il giorno per morire. Ma indubbiamente il periodo più difficile
è stato quello dell’arrivo. Le SS erano tutte schierate con un cane al guinzaglio
e un bastone in mano. Fui separato dalla mia famiglia e praticamente rimasi soltanto
con i miei fratelli e con mio zio. I miei genitori e il nonno furono mandati subito
a morire e noi lo sapemmo, perché dopo qualche ora già eravamo al corrente di quello
che era Auschwitz.
D. – Si chiede mai perché non
le è toccata la stessa sorte dei suoi familiari e sente un senso di colpa per questo?
R.
– Io non ho preso il posto di nessuno e nessuno ha preso il mio posto. E’ andata così
e basta. Sono cosciente del fatto che c’era tanta gente che avrebbe meritato molto
più di me di vivere. Ad Auschwitz il furto era la cosa più normale del mondo: era
una lotta per la vita. Rubare il pane, quando era possibile, era una cosa del tutto
normale. Io non l’ho mai fatto. Certamente, se lo avessi fatto oggi sentirei il peso
di questa colpa terribile e non so se ce la farei, ma io non l’ho mai fatto.
D.
– Lei ha detto:“Uno che è stato ad Aushwitz non può essere più una persona normale”…
R.
– Certamente, chi è stato all’inferno deve fingere una normalità che non c’è. Poi
naturalmente è iniziata un’altra vita. Spesso, ripeto, ho dovuto fingere una normalità
che non c’era ma altrettanto spesso ho sentito il peso di quella prima vita che avevo
avuto, che avevo visto, che avevo sofferto nel campo di sterminio di Birkenau–Auschwitz.