I commenti al discorso di Benedetto XVI al Corpo diplomatico del giurista internazionale
Andrea Bianchi e del missionario padre Piero Gheddo
L’ampio discorso col quale ieri Benedetto XVI ha abbracciato l’attualità internazionale,
al cospetto del Corpo diplomatico accreditato presso la Santa Sede, ha suscitato attenzione
e reazioni in tutto il mondo, a partire dalle considerazioni del Pontefice sulla nuova
fase drammatica del conflitto israelo-palestinese. Fabio Colagrande ha chiesto
un commento alle parole del Papa al prof. Andrea Bianchi, ordinario di Diritto
internazionale all’Università Cattolica di Milano e all’Istituto di Alti studi internazionali
di Ginevra:
R. -
Nelle parole del Papa c'è la consapevolezza che per lottare efficacemente contro le
guerre, contro i conflitti - siano essi di natura internazionale o interna - bisogna,
in fondo, rimuoverne le cause che molto spesso li alimentano. E non c’è alcun dubbio
che tra le cause più diffuse sia proprio la povertà. Una povertà che è intesa non
solo in senso materialistico, come un’assenza di mezzi materiali, ma anche in senso
spirituale, come assenza di valori, e direi che è proprio questa la parte più importante,
il filo conduttore di questo discorso. D. - Combattere la fame,
facilitare lo sviluppo agricolo locale, sono priorità che il Papa mette proprio in
collegamento con l’urgenza della pace… R. - Per far fronte a
queste sfide che interessano l’intero pianeta, occorre che esista una comunità internazionale:
una comunità coesa, che si assuma le proprie responsabilità e che sappia agire. E,
in fondo, credo che sia proprio questo il più grande problema di cui, a livello internazionale,
si soffre oggi: la difficoltà ad agire in maniera coesa per articolare delle politiche
di intervento - soprattutto a fronte di sfide globali - che siano effettivamente efficaci.
Certo, ci sono delle iniziative in corso - il richiamo del Papa alla Conferenza di
Doha - ma non c’è motivo di essere soddisfatti. Io credo che negli ultimi anni la
comunità internazionale sia stata un po’ latente a livello di coesione e a livello
di capacità di azione. D. - Prof. Bianchi, un commento alle
parole del Papa sulla situazione in Terra Santa… R. - Credo
che la situazione in Medio Oriente sia veramente una delle "spine" del mondo e uno
dei fattori che impedisce al mondo di vivere più stabilmente, insieme, e che rischia
di pregiudicare l’equilibrio mondiale. Io credo ci sia un’assenza della dimensione
politica, che non ci sia una vera volontà di arrivare ad una pace nel Medio Oriente.
Una situazione che si è andata esacerbando negli anni, che è quasi - oggi - un problema
intrattabile, e che non ha solo bisogno di un richiamo alla pace e alla responsabilità
comuni, ma ha bisogno di un’idea politica forte, che possa essere in qualche modo
poi messa sul piano della realizzazione. Ed è questa la cosa che forse rende più tristi:
tutti si dicono contrari alla guerra, tutti si dicono disposti a negoziare la pace,
ma bisogna avere anche l’appoggio di una forte volontà politica perché questo possa
realizzarsi. D. - Il Papa, Benedetto XVI, ripete quello che
i Pontefici affermano ormai da tempo: l’opzione militare non è una soluzione. Quanto
è realistico, politicamente, continuare - giustamente sulla base del Vangelo - a ribadire
questo concetto? R. - Parallelamente a questa forza morale che
certamente è molto importante - che è uno dei motori della storia - in qualche modo
deve accompagnarsi una volontà politica più concreta. Una capacità di imporre il nome
di una comunità internazionale che deve, in qualche modo, dare segno della sua esistenza,
delle soluzioni che effettivamente risolvano crisi come quella mediorientale che ormai
da più di 60 anni rischiano di minare - di fatto minano, alimentando anche il terrorismo
in tutto il mondo - la stabilità e la pace. La nota sulla quale vorrei insistere è
che a questa forza morale - della quale ovviamente la Chiesa si fa interprete - molto
spesso non si accompagna una capacità di azione politica da parte non solo delle organizzazioni
multilaterali, ma anche da parte degli Stati, delle singole popolazioni che, in un
mondo come oggi - dove anche la società civile è in grado di organizzarsi - dovrebbe
far sentire, ancora più forte, la propria voce, a sostegno della formazione di una
volontà politica capace di imporsi. (Montaggio a cura di Maria Brigini) E
sul costante richiamo ai massimi valori ai quali il Papa ha fatto più volte riferimento
nel suo discorso si sofferma padre Piero Gheddo, missionario del Pontificio
istituto missioni estere, sempre al microfono di Fabio Colagrande:
R. -
Quando noi togliamo dal nostro orizzonte - noi come popolo, non parlo di persone -
Dio, la legge di Dio, la volontà di Dio, l'amore di Dio, non capiamo più neanche l’uomo,
non capiamo più neanche noi stessi. E quindi prevalgono le nostre passioni, i nostri
egoismi, e quindi, la povertà morale. Come diceva Madre Teresa: “I poveri hanno bisogno
di tante cose, soprattutto hanno bisogno di Dio, soprattutto cercano Dio”. E aggiungeva:
“La più grande disgrazia dell’India è di non conoscere Cristo”. Quindi, la povertà
morale di cui il Papa parla è un problema non solo dei popoli non cristiani e poveri,
ma anche dei nostri popoli occidentali. Io direi che non dobbiamo fermarci troppo
sulla povertà morale degli altri, ma sulla nostra povertà morale. D.
- In particolare, padre Gheddo, parlando del mondo occidentale il Papa ha auspicato
che non siano coltivati pregiudizi e ostilità verso i cristiani solo perché su certe
questioni la loro voce dissente... R. - Se uno ragiona bene
vede - come afferma il Papa nel suo messaggio - che il cristianesimo è una religione
di libertà e di pace, nel servizio del vero bene dell’umanità. Quindi, perché opporsi
al cristianesimo e alla Chiesa, che porta Cristo a tutti i popoli e a tutte le coscienze?
Proprio perché, magari, la Chiesa ha delle idee diverse da quelle della voce comune.
Ma questo è compito della Chiesa: portare nel mondo attuale le risposte ai problemi
dell’uomo di oggi e che possono dissentire da quelle del mondo. (Montaggio
a cura di Maria Brigini)