Israele entra a Khan Younes, roccaforte di Hamas. La Croce Rossa: catastrofe umanitaria
Quarto giorno dell’offensiva di terra israeliana nella Striscia di Gaza. Le truppe
dello Stato ebraico sono arrivate a Khan Younes, roccaforte di Hamas nel sud della
Striscia. Aumenta intanto il numero delle vittime. Secondo fonti palestinesi, sarebbero
573 i morti, fra i quali 100 bambini. Quattro i militari israeliani che hanno perso
la vita per fuoco amico. Intanto, cresce il pressing della diplomazia europea per
un cessate-il-fuoco, rifiutato ieri dal premier israeliano, Olmert, mentre oggi il
presidente dell’Anp, Abu mazen, è atteso al Consiglio di sicurezza dell’Onu. Benedetta
Capelli:
E’ una
partita giocata su due tavoli: quello militare e quello diplomatico. Sul terreno prosegue
l’offensiva israeliana per colpire Hamas e, secondo lo Stato ebraico, almeno 130 militanti
sarebbero stati uccisi nelle ultiime ore. All’alba di oggi, carri armati israeliani,
appoggiati da elicotteri da combattimento, sono entrati a Khan
Younes, la più grande città del sud della Striscia di Gaza. Nei raid sono state colpite
due scuole gestite dall’agenzia dell’Onu per i rifugiati (UNRWA): cinque le vittime.
Duri scontri si sono verificati anche a Deir el-Balah e Bureij. Razzi palestinesi
hanno colpito le città israeliane di Ashdod e Ghedera, a 30 km da Tel Aviv,
una bambina di tre mesi è rimasta leggermente ferita. La conta delle vittime
continua a crescere, ma di fronte a questa escalation di violenza è sempre
più inefficace la pressione diplomatica in corso. Doppia la missione europea, con
il premier ceco, Schwarzenberg - attuale presidente di turno dell’Ue - e il
presidente francese, Sarkozy, che solo ieri ha incassato il "no" del premier israeliano,
Olmert, ad una tregua senza la garanzia di una sospensione dei lanci di razzi
palestinesi. Il capo dell’Eliseo, oggi in Siria, ha lanciato un appello a Damasco
perché faccia pressioni su Hamas. Da parte sua, il movimento integralista ha assicurato
di voler resistere di fronte agli attacchi israeliani “che ricordano - ha detto il
leader di Hamas, Ismail Haniyeh, in un comunicato - quelli americani su Hiroshima
e Nagasaki”. Intanto, in Egitto giungeranno stasera i delegati del movimento per un
incontro con i servizi segreti del Cairo. Attesa anche a New York per il Consiglio
di sicurezza dell'Onu al quale parteciperà il presidente palestinese, Abu Mazen. Sul
tavolo, un progetto di risoluzione su un cessate-il-fuoco tra Israele ed Hamas, anche
se un accordo appare lontano dopo le parole di Bush che ha difeso il diritto di Israele
di rispondere agli attacchi di fronte alle aggressioni di Hamas.
La situazione
a Gaza è di “piena crisi umanitaria”. E’ l’allarme lanciato da Ginevra dalla Croce
rossa internazionale che, parlando delle condizioni dei civili, le ha definite “chiaramente
intollerabili”. Viva preoccupazione per l’impatto che le ostilità stanno avendo sui
bambini di Gaza è stata espressa dall’Unicef che sollecita una tregua urgente. Paolo
Ondarza ha raccolto l’appello di Roberto Salvan, direttore generale di
Unicef Italia:
R. -
C’è necessità di una tregua urgente per fare intervenire le organizzazioni umanitarie
all’interno della Striscia di Gaza. Ora ci sono solo gli operatori palestinesi presenti.
Per due mesi è stato impedito l’ingresso delle organizzazioni umanitarie, ma adesso
è urgentissimo intervenire, altrimenti si conteranno anche i morti per infezioni e
per questioni legate alla carenza di cibo. D. - Da quello che
si riesce a percepire, attraverso le immagini diffuse dalle televisioni, i bambini
sono coinvolti in quello che è uno scontro che non dovrebbe riguardarli…
R.
- I dati che ci vengono da quelle aree parlano di 70 bambini uccisi e 25 donne. Ci
sono migliaia di feriti e tra questi almeno 900 sono bambini. Ciò significa che i
bambini, i civili e le donne sono duramente provati da questa situazione drammatica
e difficile. E' un conflitto che non si è mai risolto in questi 60 anni e che la comunità
internazionale sta cercando di fermare, dal Santo Padre al segretario generale dell’Onu
a tutti i Paesi dell’Unione Europea. Tuttavia si vede che, da una parte e dall’altra,
non si vuole instaurare nessun tipo di dialogo e di soluzione.
D.
- Le ostilità di questi giorni riportano in luce un’emergenza che però non nasce oggi…
R.
- Infatti, è un problema vecchio che la comunità internazionale non è riuscita a risolvere
e, con il nuovo conflitto, si creano nelle nuove generazioni altro odio, altre situazioni
di tensione, di rabbia, vendetta… Quindi, bisogna fare in fretta a trovare una soluzione
e questo lo si fa attraverso il dialogo.
D. - In
questi giorni, l’Unicef ha promosso una campagna di informazione radiofonica per spiegare
alle famiglie come proteggere i bambini durante gli attacchi militari. Riuscite ad
arrivare a tutte le famiglie?
R. - Con l’intervento
di terra dell’esercito israeliano ci sono anche dei problemi di elettricità, problemi
di sicurezza. Abbiamo sempre informato le mamme su come sia possibile proteggere i
propri bambini dagli attacchi aerei… Purtroppo, in una situazione in cui la città
di Gaza è circondata, la Striscia di Gaza è divisa in più parti, è molto difficile
fare attività di prevenzione.
Situazione tranquilla, sebbene di tensione,
in Cisgiordania, da dove i palestinesi, anche cristiani, seguono con apprensione il
crescere della violenza a Gaza. A Betlemme, oggi, giorno dell’Epifania, l’ingresso
dei Patriarchi orientali è avvenuto non in modo solenne come gli altri anni, piuttosto
in silenziosa preghiera per la pace e in ricordo delle vittime di questi giorni. Francesca
Sabatinelli ha raggiunto telefonicamente il parroco di Gerusalemme, padre Ibrahim
Faltas:
R. -
Abbiamo una situazione molto drammatica. Alla vista di tutti questi morti innocenti,
siamo molto preoccupati per il futuro. Noi abbiamo paura che si giunga alla stessa
situazione nei territori palestinesi. L’Autorità fa di tutto per evitare che questa
violenza arrivi anche in Cisgiordania: finora ci sono riusciti, speriamo che continuino.
D.
- Padre Ibrahim, che notizie arrivano circa la situazione dei civili a Gaza?
R.
- Tutta la situazione a Gaza è drammatica. La gente sta soffrendo molto. Abbiamo contatti
con i cristiani a Gaza: la gente sta male, molto male. Non dimentichiamo che ci sono
cinquemila cristiani che vivono lì e un centinaio di famiglie che da Gaza sono venute
in Cisgiordania per celebrare il Natale. Hanno avuto il permesso dagli israeliani,
ma ora non riescono a tornare, Non sanno se a Gaza ritroveranno la loro casa… E’ una
situazione molto drammatica. Non potete immaginare come soffrono lì.
D.
- Secondo lei, ci sono i termini per una tregua?
R.
- Speriamo che in questi giorni si riesca ad arrivare ad un cessate-il-fuoco tra le
due parti, perché la gente veramente non ce la fa più. E poi, non vogliamo vedere
più morti e feriti: basta con la violenza in questa terra. Dobbiamo fare di tutto,
ma anche l’Europa deve svolgere un ruolo importante. Non basta solo la tregua. Bisogna
trovare una soluzione a questa situazione. Chiedo all’intera comunità internazionale
di intervenire, questa volta sul serio. Guardate quanti morti, quanti feriti. Soprattutto
i bambini: che colpa hanno questi bambini per essere uccisi in questo modo?
Un
appello al cessate-il-fuoco nella Striscia di Gaza e all’apertura di un tavolo di
dialogo è stato lanciato anche dai ragazzi dello Studentato internazionale "Rondine
città della pace" di Arezzo, composto tra gli altri da israeliani, palestinesi, ceceni,
serbi, bosniaci: una testimonianza di un dialogo possibile in risposta al linguaggio
delle armi. Ma quali sono gli ostacoli più difficili da superare nelle relazioni tra
studenti palestinesi ed israeliani? Alessandra De Gaetano lo ha chiesto a Lelia
Della Scala, direttrice dell’istituto:
R. -
A livello personale e umano è la parte più facile da superare. Più difficile quando
ci si cimenta con un discorso politico, soprattutto in determinati momenti. Non è
che il ragazzo palestinese non voglia più l’indipendenza o l’autonomia del proprio
popolo, ma è disponibile a discuterne e a provare a trovare una soluzione con il ragazzo
israeliano.
D. - Gli studenti palestinesi ed israeliani,
come vivono la situazione belligerante dei loro territori?
R.
- Quello che entrambi esprimono è il dolore di essere nuovamente di fronte ad un’escalation
del conflitto. C'è un senso, da un lato, di impotenza e, dall'altro, di voglia di
dire: “Forse noi possiamo fare qualcosa di diverso”. Sono ragazzi che rifiutano l’uso
della violenza come soluzione per risolvere il conflitto e vedono in ciò un impedimento
ed una difficoltà nel costruire il loro futuro.
D.
- Quali sono le loro paure?
R. - La loro paura più
grande è che le cose non cambino: che il dialogo, i tanti piccoli passi e i segni
ottenuti negli ultimi tempi possano alla fine non servire a niente, perché c’è chi
- al di sopra di loro - prende delle decisioni che sembra rendano tutto inutile.
D.
- I ragazzi hanno rapporti con i loro familiari che vivono nei territori di guerra?
R.
- Sono continuamente in contatto con loro. Anche qui, a Rondine, il clima risente
di quello che viene vissuto dai familiari, dagli amici, dalla loro gente.
D.
- I ragazzi che con voi vivono l’esperienza del dialogo, si fanno portavoce dei messaggi
di pace?
R. - Le esperienze che loro fanno le riportano
soprattutto all’interno delle famiglie. L’esperienza di Rondine li fa essere anche
diversi. Appena è scoppiata questa situazione tra israeliani e palestinesi, tutto
lo studentato ha scritto un messaggio di vicinanza e di sostegno ai ragazzi, hanno
iniziato a scambiarsi delle mail in cui esprimevano anche tutto il dolore. E questo,
secondo me, è un bell’esempio di speranza.