L'attesa del Natale in Terra Santa: cresce lo scontro tra Israele e Hamas
A poco più di 24 ore dall'annuncio della fine della tregua da parte di Hamas, prosegue
l’escalation di violenza tra Israele e la Striscia di Gaza. Stamani un palestinese
è morto e altri tre sono rimasti feriti in un raid aereo israeliano contro un gruppo
di militanti che si apprestavano a lanciare razzi verso il sud dello Stato ebraico.
I miliziani palestinesi stanno comunque continuando a sparare razzi Qassam. E di fronte
al precipitare della situazione, il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha
invocato il ristabilimento del cessate il fuoco. Per una riflessione sull’attuale
situazione in Terra Santa, Emanuela Campanile ha intervistato Charlie Abou
Saada, giornalista arabo cristiano di Betlemme:
R.
– Finché manca la buona volontà di far pace, avremo sempre delle difficoltà tra Israeliani
e Hamas. Non dimentichiamo i problemi tra Hamas e Fatah che ci sono ancora, anzi,
sono molto più lontane, queste due fazioni tra di loro, e non si sa come andrà a finire.
Speriamo che questo Santo Natale ci dia un po’ di pace, un po’ di giustizia, un po’
di tranquillità non solo per noi palestinesi, ma anche per gli israeliani.
D.
– E a Betlemme la situazione com’è?
R. – Quest’anno,
Betlemme è apparsa in modo splendido rispetto agli anni passati. Vediamo per esempio
gli addobbi natalizi ovunque, le strade sono illuminate, anche le case e la Piazza
della Mangiatoia dove domenica scorsa è stato acceso l’albero di Natale: è stata una
cerimonia molto sentita, soprattutto dalla comunità cristiana palestinese locale.
Non dimentichiamo che quest’anno c’è stato un record di pellegrini a Betlemme, dove
sono arrivati quasi un milione e 220 mila persone. Questo vuol dire molto, soprattutto
per noi cristiani del posto. Ecco che quest’anno si respira un’aria molto diversa
rispetto agli anni passati. In termini pratici, questo si è visto anche nelle moltissime
iniziative delle parrocchie cattoliche, ortodosse, protestanti: abbiamo fatto molta
fatica, veramente, a seguire tutto, ma siamo veramente molto contenti.
D.
– Come spiega allora questa volontà di riaffermare la propria presenza come palestinesi
cristiani? Sappiamo che in alcune zone del Medio Oriente i cristiani non hanno vita
facile …
R. – Dobbiamo esserci, dobbiamo fare, dobbiamo
pregare, dobbiamo lavorare perché – come ha detto Giovanni Paolo II – siamo il ponte
tra i musulmani e gli ebrei, tra la cultura occidentale e la cultura mediorientale.
Quindi cerchiamo nel nostro piccolo di essere veramente il sale della terra, di cercare
di convincere tutti a lavorare per la pace e per la giustizia e, come ci ha insegnato
Gesù Cristo, dobbiamo veramente seminare tutti questi ideali evangelici. Quindi, con
tutte queste iniziative cerchiamo di affermare la nostra presenza. Noi ci siamo. Siamo
palestinesi, siamo anche cristiani. Sì, abbiamo tante difficoltà, c’è il muro, viviamo
in una gabbia, nel ghetti del Terzo Millennio ma, malgrado tutto, dobbiamo cercare
di vivere. La strada per la risurrezione viene attraverso il Calvario.
D.
– Dal punto di vista umanitario, la situazione qual è?
R.
– Mancando la vera pace, mancando la vera giustizia, ci sentiamo soli, isolati all’interno
di questo muro, la disoccupazione aumenta sempre, anche se a Betlemme in particolare,
grazie al grande afflusso di pellegrini, la disoccupazione non c’è; ma in generale
in Palestina la disoccupazione è aumentata in modo molto, molto sensibile. Quindi,
mancando il lavoro e mancando anche la libertà di culto – perché noi palestinesi non
possiamo recarci a Gerusalemme nelle moschee di Gerusalemme o a pregare sul Santo
Sepolcro – cerchiamo di vivere nel nostro piccolo e di dire quello che dobbiamo dire.