In Burundi, raggiunto finalmente un accordo per il cessate il fuoco tra governo e
ribelli delle Forze Nazionali di Liberazione. Al termine di un vertice a Bujumbura
sono stati rimossi gli ostacoli che impedivano gli accordi di pace, tra cui la ripartizione
del potere politico e militare. Già nel settembre 2006 era stato firmato un accordo,
rimasto però lettera morta. Non c’è dunque il rischio che si possa ripetere la stessa
situazione? Salvatore Sabatino lo ha chiesto ad Angelo Inzoli, esperto
di Burundi della rivista “Popoli”:
R. – Sicuramente
il rischio potrebbe anche esserci, però bisogna dire che a questo accordo si è arrivati,
praticamente, dopo tre anni di negoziati molto complicati. Quindi, possiamo avere
una certa speranza che abbiano comunque trovato un'intesa, perché il partito di Agathon
Rwasa era stato escluso dagli accordi perché non accettava di essere marginalizzato
o di avere un peso che considera inferiore al suo reale potere militare, al suo contributo
alla “guerra di liberazione”, come loro chiamavano la guerra civile. Probabilmente
un accordo è stato raggiunto ed è nell’interesse di tutti che questo accordo vada
a buon fine perché nel 2010 ci saranno le elezioni e, se questo partito, che è su
posizioni un po’ radicali, dovesse rimanere una mina vagante, sarebbe un vero pericolo
per tutto il clima globale nazionale.
D. – Che ruolo
hanno avuto i Paesi confinanti nel raggiungimento di questo accordo?
R.
– I burundesi hanno dimostrato, soprattutto con l’accordo di Arusha, firmato nel 2003
e che ha portato alle elezioni del 2005, che effettivamente la mediazione internazionale
è sempre stata utile ma non è mai stata determinante per risolvere i problemi burundesi.
I burundesi sono sempre molto gelosi e sospettosi delle mediazioni perché hanno una
grossa capacità di manipolarle e, le mediazioni stesse, quando entrano in campo, difficilmente
riescono ad avere un ruolo effettivo.
D. – Ricordiamo
che il Burundi ha affrontato una lunga guerra civile costata la vita ad oltre 300
mila persone. Ma oggi, che Paese è il Burundi?
R.
– Oggi il Burundi è un Paese che non vuole più tornare indietro ma non ha davanti,
ancora, un futuro chiaro. Non vuole tornare indietro perché dietro ci sono massacri,
c’è una tragedia che ad un certo punto ha colpito umanamente, economicamente e spiritualmente
le persone. Un conflitto che è entrato veramente in tutti gli angoli del Paese, in
tutte le pieghe del Paese. Il futuro è critico e non si vede ancora coma uscire dalla
crisi. Il Paese dipende completamente dagli aiuti internazionali; c’è il rientro dei
rifugiati, 300 mila persone che devono rientrare; è un Paese troppo popolato rispetto
alla propria economia, che va diversificata. Questi problemi sono ancora tutti lì.