Iraq: nuovo sì al ritiro USA nel 2011. Preoccupazione per le minoranze
Il ministro degli Esteri iracheno Zebari e l’ambasciatore statunitense a Baghdad,
Crocker, hanno firmato questa mattina l'accordo approvato ieri dal governo iracheno
sul futuro delle truppe Usa in Iraq. Approvato da 27 ministri su 37 del governo del
premier sciita Nuri al-Maliki, passa al vaglio del Parlamento, che si riunirà per
discutere il testo a partire da domani, ma senza poterlo modificare, per poi votarlo
il 24 novembre. Il servizio di Fausta Speranza:
L’ultimo
soldato statunitense lascerà l'Iraq dopo circa otto anni di presenza nel Paese, ovvero
alla fine del 2011: lo stabilisce l'accordo, ancora oggi fortemente osteggiato dalla
frangia più radicale del fronte sciita. Il testo, composto da 31 articoli, fornisce
un quadro giuridico sulla presenza militare americana in Iraq alla scadenza, alla
fine di quest’anno, del mandato dell'Onu e prevede la partenza definitiva entro il
31 dicembre 2011 dei circa 150.000 soldati Usa. Distribuiti in più di 500 basi, dovranno
abbandonare i centri abitati entro il prossimo anno. Dopo il voto del parlamento,
seguirà la ratifica da parte del consiglio presidenziale e, solo a quel punto, la
firma ufficiale, presumibilmente a Washington, da parte di al-Maliki e del presidente
Bush. La Casa Bianca parla di “importante e positivo passo in avanti”. Da parte sua,
il presidente eletto Obama conferma la sua volontà di avviare il ritiro delle truppe
dopo il suo arrivo alla Casa Bianca il 20 gennaio 2009, prevedendo un ritiro in 16
mesi. Ma come guardare a questo accordo? Lo chiediamo a Lucio Caracciolo,
direttore della rivista di geopolitica “Limes”: R. - Sicuramente
è un accordo molto importante che però difficilmente potrà essere eseguito nei termini
che sono messi su carta, nel senso che da qui al 2011 ci sono troppe variabili che
possono, in qualche modo, rimettere in discussione almeno alcuni aspetti di questo
accordo. Direi che le parti più preoccupate nell’Iraq di questa prospettiva di ritiro
americana, sono i curdi, cioè i tradizionali alleati degli americani, e i sunniti
che negli ultimi anni hanno stretto un accordo relativamente robusto con gli americani,
mentre chi ne potrebbe approfittare di più sono gli sciiti che sono la maggioranza
nel Paese. D. – Parliamo invece di geopolitica… R.
– Intanto, probabilmente, quasi tutti pensano che in realtà gli americani, seppure
in forma minore, resteranno ben oltre il 2011. In secondo luogo, molto dipenderà dal
rapporto tra Iran e Stati Uniti. Se, come è possibile, in qualche punto del prossimo
anno, americani ed iraniani ristabiliranno il dialogo ed arriveranno, forse, anche
ad un compromesso, allora anche la situazione in Iraq sarà stabilizzata, altrimenti
è possibile, anzi probabile, che l’Iran continuerà a fare del suo meglio per destabilizzarla
o quanto meno per aiutare i suoi alleati contro i suoi nemici in Iraq.
C’è
da dire che per quanto il livello di violenza sia diminuito negli ultimi mesi, ci
sono giornalmente episodi di violenza: solo ieri a Diyala, nell'Iraq settentrionale,
due attentati hanno provocato la morte di almeno 20 persone, tra cui sette poliziotti,
e una ventina di feriti. C’è poi il dramma delle minoranze, in particolare dei cristiani
per i quali si deve parlare di vera persecuzione. Sulle prospettive del dopo accordo,
donRenato Sacco di Pax Christi: R.
– Primo, non ci stancheremo mai di ripetere che lì, l’importante era non andare, accogliendo
l’invito del Papa e della comunità internazionale che questa guerra non era da fare
perché avrebbe creato grossissimi problemi, oltre che sulle persone, sulle impostazioni
di vita dei rapporti, avrebbe creato tutto quello che abbiamo visto. Purtroppo questa
voce non è stata ascoltata: il disastro c’è sotto tutti i punti di vista. Io credo
che non ci sia una soluzione da bacchetta magica, “via gli americani, ritorni la pace”,
perché sarebbe lo stesso errore di chi diceva: “Arrivano gli americani e portano la
pace”. Lì è stato buttato per aria tutto: le minoranze, in questo scontro di potere,
pagano un conto alto. Io credo che sia importante lavorare perché si affermino i diritti,
i diritti che devono essere rispettati dagli iracheni, dalle forze occupanti militari,
i diritti di ogni persona. Su questa base dei diritti umani si può lavorare per un
futuro; se chi resta o chi parte non rispetta i diritti umani, credo non ci siano
grosse prospettive. D’altronde, se gli Stati Uniti prevedeono di andare via dall’Iraq,
puntando sulla divisione del Paese e quindi sull’escludere le minoranze, sicuramente
le minoranze anche cristiane, pagheranno un conto caro. Quindi dobbiamo vigilare perché
non entri come progetto di presenza o di ritiro la logica del “divide et impera” che
abbiamo già visto anche in Bosnia. Le forze che controllano il territorio non hanno
risolto molto, anzi. Quindi, certo, l’abbandonare un terreno - quasi a dire: “Adesso
chi ha più arroganza, chi ha più armi, chi ha più violenza faccia la sua parte” -
è sbagliato, ma di fatto, già in questi anni, chi ha occupato questo territorio avrebbe
dovuto vigilare per il rispetto delle minoranze ma questo, lo dobbiamo dire, di fatto
non è molto successo. Io sono stato a Mossul, sono stato a Kirkuk, e questa vigilanza
di fatto non c’è stata molto.