Benedetto XVI ai chirurghi: non abbandonare il paziente inguaribile, ma umanizzare
la medicina rispettando la dignità del malato e favorendo con lui un'"alleanza terapeutica"
Una medicina “altamente tecnologizzata”, ma priva di “sufficiente” umanità, rischia
di considerare il malato come una “cosa” e quindi di non rispettarne la dignità inviolabile
di essere umano. Lo ha affermato Benedetto XVI nel ricevere questa mattina in udienza
i partecipanti al Congresso nazionale italiano intitolato “Per una chirurgia nel rispetto
del malato”. Un rispetto, ha detto il Papa, che dovrebbe vedere medico e paziente
uniti da un rapporto di reciproca fiducia, che alimenti sempre nel malato la speranza
della guarigione. Il servizio di Alessandro De Carolis:
Più la
medicina, nelle sue varie branche, raffina le proprie capacità diagnostiche e terapeutiche
più rischia di perdere contatto con l’oggetto delle sue cure, il quale - per l’appunto
- non è un oggetto ma un essere umano che, oltre che di medicinali, avrà sempre bisogno
della “medicina” degli affetti, della comprensione, del rispetto: in una parola, di
umanità. E proprio questa - “umanizzare la medicina” - è stata la parola d’ordine
sulla quale Benedetto XVI ha imperniato il suo intervento al cospetto dei circa 300
professionisti medico-chirurghi riuniti nella Sala Clementina, in Vaticano. “La specifica
missione che qualifica la vostra professione medica e chirurgica - ha detto loro il
Papa - è costituita dal perseguimento di tre obiettivi: guarire la persona malata
o almeno cercare di incidere in maniera efficace sull’evoluzione della malattia; alleviare
i sintomi dolorosi che la accompagnano, soprattutto quando è in fase avanzata; prendersi
cura della persona malata in tutte le sue umane aspettative”. Ma se in passato, ha
osservato, “spesso ci si accontentava di alleviare la sofferenza della persona malata”
per i limiti intrinseci della scienza medica, oggi che gli sviluppi della scienza
e della tecnica chirurgica hanno consentito di intervenire con crescente successo
nella vicenda del malato, si profila “un nuovo rischio”:
“Quello
di abbandonare il paziente nel momento in cui si avverte l’impossibilità di ottenere
risultati apprezzabili. Resta vero, invece, che, se anche la guarigione non è più
prospettabile, si può ancora fare molto per il malato: se ne può alleviare la sofferenza,
soprattutto lo si può accompagnare nel suo cammino, migliorandone in quanto possibile
la qualità di vita. Non è cosa da sottovalutare, perché ogni singolo paziente, anche
quello inguaribile, porta con sé un valore incondizionato, una dignità da onorare,
che costituisce il fondamento ineludibile di ogni agire medico”. Medico
e paziente, ha proseguito il Pontefice, hanno bisogno di stabilire un rapporto di
“mutua fiducia”, all’interno del quale ciò che viene fatto per ottenere la guarigione
- sia che si tratti, ha notato, di “arditi interventi salvavita”, sia che ci si “accontenti
di mezzi ordinari” - sia comunque mirato a rafforzare il malato e non a minarne le
già fragili risorse psicofisiche:
“Ciò a cui si
deve mirare è una vera alleanza terapeutica col paziente, facendo leva su quella specifica
razionalità clinica che consente al medico di scorgere le modalità di comunicazione
più adeguate al singolo paziente. Tale strategia comunicativa mirerà soprattutto a
sostenere, pur nel rispetto della verità dei fatti, la speranza, elemento essenziale
del contesto terapeutico”. Il malato apprezza il medico
che lo guarda con “benevolenza”, e il medico a sua volta non deve considerare il paziente
un “antagonista” nella sua professione, bensì “un collaboratore attivo e responsabile”
nella realizzazione del "piano terapeutico". E questo anche in un’epoca - ha constatato
Benedetto XVI - nella quale si insiste “sull’autonomia individuale del paziente”:
“Da
una parte, è innegabile che si debba rispettare l’autodeterminazione del paziente,
senza dimenticare però che l’esaltazione individualistica dell’autonomia finisce per
portare ad una lettura non realistica, e certamente impoverita, della realtà umana.
Dall’altra, la responsabilità professionale del medico deve portarlo a proporre un
trattamento che miri al vero bene del paziente, nella consapevolezza che la sua specifica
competenza lo mette in grado in genere di valutare la situazione meglio che non il
paziente stesso”. Il Papa ha invitato a guardare “con sospetto”
ogni tentativo di intromissione esterna in questo “delicato rapporto medico-paziente”.
Tuttavia, ha soggiunto, c’è un ambito che deve invece influenzare il percorso della
guarigione ed è quello familiare:
“Nei contesti
altamente tecnologizzati dell’odierna società, il paziente rischia di essere in qualche
misura “cosificato”. Egli si ritrova infatti dominato da regole e pratiche che sono
spesso completamente estranee al suo modo di essere. (…) E’ invece molto importante
non estromettere dalla relazione terapeutica il contesto esistenziale del paziente,
in particolare la sua famiglia. (…) è un elemento importante per evitare l’ulteriore
alienazione che questi, quasi inevitabilmente, subisce se affidato ad una medicina
altamente tecnologizzata, ma priva di una sufficiente vibrazione umana”.