Il testo della catechesi di Benedetto XVI all'udienza generale
Cari fratelli e sorelle,
nelle ultime catechesi su san Paolo ho parlato del
suo incontro con il Cristo risorto, che ha cambiato profondamente la sua vita, e poi
della sua relazione con i dodici Apostoli chiamati da Gesù – particolarmente con Giacomo,
Cefa e Giovanni – e della sua relazione con la Chiesa di Gerusalemme. Rimane adesso
la questione su che cosa san Paolo ha saputo del Gesù terreno, della sua vita, dei
suoi insegnamenti, della sua passione. Prima di entrare in questa questione, può essere
utile tener presente che san Paolo stesso distingue due modi di conoscere Gesù e più
in generale due modi di conoscere una persona. Scrive nella Seconda Lettera ai Corinzi:
“Cosicché ormai noi non conosciamo più nessuno secondo la carne; e anche se abbiamo
conosciuto Cristo secondo la carne, ora non lo conosciamo più così” (5,16). Conoscere
“secondo la carne”, in modo carnale, vuol dire conoscere in modo solo esteriore, con
criteri esteriori: si può aver visto una persona diverse volte, conoscerne quindi
le fattezze ed i diversi dettagli del comportamento: come parla, come si muove, ecc.
Tuttavia, pur conoscendo uno in questo modo, non lo si conosce realmente, non si conosce
il nucleo della persona. Solo col cuore si conosce veramente una persona. Di fatto,
i farisei e i sadducei hanno conosciuto Gesù in modo esteriore, hanno appreso il suo
insegnamento, tanti dettagli su di lui, ma non lo hanno conosciuto nella sua verità.
C’è una distinzione analoga in una parola di Gesù. Dopo la Trasfigurazione, egli chiede
agli apostoli: “Che cosa dice la gente che io sia?” e “Chi dite voi che io sia?”.
La gente lo conosce, ma superficialmente; sa diverse cose di lui, ma non lo ha realmente
conosciuto. Invece i Dodici, grazie all’amicizia che chiama in causa il cuore, hanno
almeno capito nella sostanza e cominciato a conoscere chi è Gesù. Anche oggi esiste
questo diverso modo di conoscenza: ci sono persone dotte che conoscono Gesù nei suoi
molti dettagli e persone semplici che non hanno conoscenza di questi dettagli, ma
lo hanno conosciuto nella sua verità: “il cuore parla al cuore”. E Paolo vuol dire
essenzialmente di conoscere Gesù così, col cuore, e di conoscere in questo modo essenzialmente
la persona nella sua verità; e poi, in un secondo momento, di conoscerne i dettagli.
Detto
questo rimane tuttavia la questione: che cosa ha saputo san Paolo della vita concreta,
delle parole, della passione, dei miracoli di Gesù? Sembra accertato che non lo abbia
incontrato durante la sua vita terrena. Tramite gli Apostoli e la Chiesa nascente
ha sicuramente conosciuto anche dettagli sulla vita terrena di Gesù. Nelle sue Lettere
possiamo trovare tre forme di riferimento al Gesù pre-pasquale. In primo luogo, ci
sono riferimenti espliciti e diretti. Paolo parla della ascendenza davidica di Gesù
(cfr Rm 1,3), conosce l'esistenza di suoi “fratelli” o consanguinei (1 Cor 9,5; Gal
1,19), conosce lo svolgimento dell'Ultima Cena (cfr 1 Cor 11,23), conosce altre parole
di Gesù, per esempio circa l'indissolubilità del matrimonio (cfr 1 Cor 7,10 con Mc
10,11-12), circa la necessità che chi annuncia il Vangelo sia mantenuto dalla comunità
in quanto l'operaio è degno della sua mercede (cfr 1 Cor 9,14 con Lc 10,7); Paolo
conosce le parole pronunciate da Gesù nell’Ultima Cena (cfr 1 Cor 11,24-25 con Lc
22,19-20) e conosce anche la croce di Gesù. Questi sono riferimenti diretti a parole
e fatti della vita di Gesù.
In secondo luogo, possiamo intravedere in alcune
frasi delle Lettere paoline varie allusioni alla tradizione attestata nei Vangeli
sinottici. Per esempio, le parole che leggiamo nella prima Lettera ai Tessalonicesi,
secondo cui “come un ladro di notte così verrà il giorno del Signore” (5,2), non si
spiegherebbero con un rimando alle profezie veterotestamentarie, poiché il paragone
del ladro notturno si trova solo nel Vangelo di Matteo e di Luca, quindi è preso proprio
dalla tradizione sinottica. Così, quando leggiamo che “Dio ha scelto ciò che nel mondo
è stolto...” (1 Cor 1,27-28), si sente l'eco fedele dell'insegnamento di Gesù sui
semplici e sui poveri (cfr Mt 5,3; 11,25; 19,30). Vi sono poi le parole pronunciate
da Gesù nel giubilo messianico: “Ti benedico, o Padre, Signore del cielo e della terra,
perché hai tenuto nascoste queste cose ai sapienti e agli intelligenti e le hai rivelate
ai piccoli”. Paolo sa - è la sua esperienza missionaria – come siano vere queste parole,
che cioè proprio i semplici hanno il cuore aperto alla conoscenza di Gesù. Anche l'accenno
all'obbedienza di Gesù “fino alla morte”, che si legge in Fil 2,8 non può non richiamare
la totale disponibilità del Gesù terreno a compiere la volontà del Padre suo (cfr
Mc 3,35; Gv 4,34) Paolo dunque conosce la passione di Gesù, la sua croce, il modo
in cui egli ha vissuto i momenti ultimi della sua vita. La croce di Gesù e la tradizione
su questo evento della croce sta al centro del Kerygma paolino. Un altro pilastro
della vita di Gesù conosciuto da san Paolo è il Discorso della Montagna, del quale
cita alcuni elementi quasi alla lettera, quando scrive ai Romani: “Amatevi gli uni
gli altri... Benedite coloro che vi perseguitano... Vivete in pace con tutti... Vinci
il male con il bene...”. Quindi nelle sue Lettere c’è un riflesso fedele del Discorso
della Montagna (cfr Mt 5-7).
Infine, è possibile riscontrare un terzo modo
di presenza delle parole di Gesù nelle Lettere di Paolo: è quando egli opera una forma
di trasposizione della tradizione pre-pasquale alla situazione dopo la Pasqua. Un
caso tipico è il tema del Regno di Dio. Esso sta sicuramente al centro della predicazione
del Gesù storico (cfr Mt 3,2; Mc 1,15; Lc 4,43). In Paolo si può rilevare una trasposizione
di questa tematica, perché dopo la risurrezione è evidente che Gesù in persona, il
Risorto, è il Regno di Dio. Il Regno pertanto arriva laddove sta arrivando Gesù. E
così necessariamente il tema del Regno di Dio, in cui era anticipato il mistero di
Gesù, si trasforma in cristologia. Tuttavia, le stesse disposizioni richieste da Gesù
per entrare nel Regno di Dio valgono esattamene per Paolo a proposito della giustificazione
mediante la fede: tanto l’ingresso nel Regno quanto la giustificazione richiedono
un atteggiamento di grande umiltà e disponibilità, libera da presunzioni, per accogliere
la grazia di Dio. Per esempio, la parabola del fariseo e del pubblicano (cfr Lc 18,9-14)
impartisce un insegnamento che si trova tale e quale in Paolo, quando insiste sulla
doverosa esclusione di ogni vanto nei confronti di Dio. Anche le frasi di Gesù sui
pubblicani e le prostitute, più disponibili dei farisei ad accogliere il Vangelo (cfr
Mt 21,31; Lc 7,36-50), e le sue scelte di condivisione della mensa con loro (cfr Mt
9,10-13; Lc 15,1-2) trovano pieno riscontro nella dottrina di Paolo sull’amore misericordioso
di Dio verso i peccatori (cfr Rm 5,8-10; e anche Ef 2,3-5). Così il tema del Regno
di Dio viene riproposto in forma nuova, ma sempre in piena fedeltà alla tradizione
del Gesù storico.
Un altro esempio di trasformazione fedele del nucleo dottrinale
inteso da Gesù si trova nei “titoli” a lui riferiti. Prima di Pasqua egli stesso si
qualifica come Figlio dell'uomo; dopo la Pasqua diventa evidente che il Figlio dell’uomo
è anche il Figlio di Dio. Pertanto il titolo preferito da Paolo per qualificare Gesù
è Kýrios, “Signore” (cfr Fil 2,9-11), che indica la divinità di Gesù. Il Signore Gesù,
con questo titolo, appare nella piena luce della risurrezione. Sul Monte degli Ulivi,
nel momento dell’estrema angoscia di Gesù (cfr Mc 14,36), i discepoli prima di addormentarsi
avevano udito come egli parlava col Padre e lo chiamava “Abbà – Padre”. E’ una parola
molto familiare equivalente al nostro “papà”, usata solo da bambini in comunione col
loro padre. Fino a quel momento era indispensabile che un ebreo usasse una simile
parola per rivolgersi a Dio; ma Gesù, essendo vero figlio, in questa ora di intimità
parla così e dice: “Abbà, Padre”. Nelle Lettere di san Paolo ai Romani e ai Galati
sorprendentemente questa parola “Abbà”, che esprime l’esclusività della figliolanza
di Gesù, appare sulla bocca dei battezzati (cfr Rm 8,15; Gal 4,6), perché hanno ricevuto
lo “Spirito del Figlio” e adesso portano in sé tale Spirito e possono parlare come
Gesù e con Gesù da veri figli al loro Padre, possono dire “Abbà” perché sono divenuti
figli nel Figlio.
E finalmente vorrei accennare alla dimensione salvifica
della morte di Gesù, quale noi troviamo nel detto evangelico secondo cui “il Figlio
dell'uomo infatti non è venuto per essere servito, ma per servire e dare la propria
vita in riscatto per molti” (Mc 10,45; Mt 20,28). Il riflesso fedele di questa parola
di Gesù appare nella dottrina paolina sulla morte di Gesù come riscatto (cfr 1 Cor
6,20), come redenzione (cfr Rm 3,24), come liberazione (cfr Gal 5,1) e come riconciliazione
(cfr Rm 5,10; 2 Cor 5,18-20). Qui sta il centro della teologia paolina, che si basa
su questa parola di Gesù.
In conclusione, san Paolo non pensa a Gesù in veste
di storico, come a una persona del passato. Conosce certamente la grande tradizione
sulla vita, le parole, la morte e la risurrezione di Gesù, ma non tratta tutto ciò
come cosa del passato; lo propone come realtà del Gesù vivo. Le parole e le azioni
di Gesù per Paolo non appartengono al tempo storico, al passato. Gesù vive adesso
e parla adesso con noi e vive per noi. Questo è il modo vero di conoscere Gesù e di
accogliere la tradizione su di lui. Dobbiamo anche noi imparare a conoscere Gesù non
secondo la carne, come una persona del passato, ma come il nostro Signore e Fratello,
che è oggi con noi e ci mostra come vivere e come morire.