Il Papa parla agli esponenti del mondo della cultura.I punti salienti del discorso
nel commento di padre Federico Lombardi, seguito dal testo integrale
“Un discorso molto ampio, non ad effetto, che richiede ascoltatori attenti e desiderosi
di percorrere un itinerario intellettuale guidati dall’analisi del Papa”. Così commenta
il discorso tenuto da Benedetto XVI ieri pomeriggio agli esponenti del mondo della
cultura, il nostro direttore padre Federico Lombardi. Sentiamolo, al microfono
di Gabriella Ceraso, in riferimento ai passaggi più importanti delle parole
del Papa:
R. – Il Papa riflette sul posto fondamentale che la ricerca di
Dio ha avuto nella fondazione della cultura europea e sul posto che quella ricerca
di Dio continua ad avere in ogni vera cultura. Questo è un discorso che il Papa sviluppa,
riflettendo soprattutto sulla cultura monastica e fa vedere come la cultura monastica
è animata dalla ricerca di Dio e questa ricerca porta all’amore per le lettere, porta
all’amore anche per le scienze profane, porta allo sviluppo della musica per la dignità
del meditare e del lodare il Signore, all’inserimento nell’armonia della Creazione,
porta a sviluppare l’interpretazione complessiva delle Sacre Scritture e quindi a
superare una lettura puramente letterale e quindi fondamentalistica. E poi, anche
l’altra grande componente della cultura monastica è quella del lavoro: ora et labora.
Una cultura del lavoro che si inserisce nel grande piano dell’opera di Dio Creatore,
che è un lavoro però responsabile nei confronti della creazione. Ecco: queste grandi
tematiche fanno vedere come la motivazione fondamentalmente religiosa e di fede con
cui nasce la grande cultura europea – perché poi la cultura monastica è quella unificante
e fondante proprio anche per la cultura del continente europeo – sia essenziale per
l’identità dell’Europa e sia quindi rischioso, anzi, da evitare assolutamente, di
emarginare o di escludere la dimensione religiosa e la domanda su Dio dalla nostra
cultura odierna. Dio rimane per molti aspetti, per il mondo di oggi, un grande sconosciuto
ma è Colui che i cristiani annunciano come Colui che è la ragione universale, Colui
che apre il senso della Creazione e della Storia e quindi permette di sviluppare anche
un vero umanesimo. Tagliarsi fuori dalla domanda su Dio apre invece ad un grande rischio
per il futuro dell’umanità. Ecco, questi sono temi che il Papa ha già toccato e sviluppato
in molte occasioni. Mi pare che il contributo nuovo di questo grande discorso sia
proprio l’analisi, la presentazione ragionata del ruolo della ricerca di Dio nel formarsi
della grande cultura unificante del nostro Continente nei secoli del Medioevo, in
cui veramente l’identità dell’Europa viene a formarsi. ******
Questo
il testo integrale del discorso pronunciato da Benedetto XVI nell'incontro col mondo
della cultura : Signor Cardinale, Signora Ministro della Cultura, Signor
Sindaco, Signor Cancelliere dell’Institut de France, cari amici!
Grazie,
Signor Cardinale, per le Sue parole gentili. Ci troviamo in un luogo storico, edificato
dai figli di san Bernardo di Clairvaux e che il Suo predecessore, il compianto Cardinale
Jean-Marie Lustiger, ha voluto come centro di dialogo tra la Sapienza cristiana e
le correnti culturali intellettuali e artistiche dell’attuale società. Saluto in modo
particolare la Signora Ministro della Cultura che rappresenta il Governo, così come
i Signori Giscard d’Estaing e Chirac. Rivolgo ugualmente il mio saluto ai Ministri
presenti, ai rappresentanti dell’Unesco, al Signor Sindaco di Parigi e a tutte le
altre Autorità. Non voglio dimenticare i miei colleghi dell’Institut de France, i
quali conoscono la considerazione che nutro nei loro confronti. Ringrazio il Principe
de Broglie per le sua cordiali parole. Ci rivedremo domani mattina. Ringrazio i delegati
della comunità musulmana francese per aver accettato di partecipare a questo incontro:
rivolgo loro i miei migliori auguri per il ramadan in corso. Il mio caloroso saluto
va ora naturalmente all’insieme del multiforme mondo della cultura, che voi, cari
invitati, rappresentate così degnamente.
Vorrei parlarvi stasera delle origini
della teologia occidentale e delle radici della cultura europea. Ho ricordato all’inizio
che il luogo in cui ci troviamo è in qualche modo emblematico. È infatti legato alla
cultura monastica, giacché qui hanno vissuto giovani monaci, impegnati ad introdursi
in una comprensione più profonda della loro chiamata e a vivere meglio la loro missione.
È questa un’esperienza che interessa ancora noi oggi, o vi incontriamo soltanto un
mondo ormai passato? Per rispondere, dobbiamo riflettere un momento sulla natura dello
stesso monachesimo occidentale. Di che cosa si trattava allora? In base alla storia
degli effetti del monachesimo possiamo dire che, nel grande sconvolgimento culturale
prodotto dalla migrazione di popoli e dai nuovi ordini statali che stavano formandosi,
i monasteri erano i luoghi in cui sopravvivevano i tesori della vecchia cultura e
dove, in riferimento ad essi, veniva formata passo passo una nuova cultura. Ma come
avveniva questo? Quale era la motivazione delle persone che in questi luoghi si riunivano?
Che intenzioni avevano? Come hanno vissuto?
Innanzitutto e per prima cosa
si deve dire, con molto realismo, che non era loro intenzione di creare una cultura
e nemmeno di conservare una cultura del passato. La loro motivazione era molto più
elementare. Il loro obiettivo era: quaerere Deum, cercare Dio. Nella confusione dei
tempi in cui niente sembrava resistere, essi volevano fare la cosa essenziale: impegnarsi
per trovare ciò che vale e permane sempre, trovare la Vita stessa. Erano alla ricerca
di Dio. Dalle cose secondarie volevano passare a quelle essenziali, a ciò che, solo,
è veramente importante e affidabile. Si dice che erano orientati in modo “escatologico”.
Ma ciò non è da intendere in senso cronologico, come se guardassero verso la fine
del mondo o verso la propria morte, ma in un senso esistenziale: dietro le cose provvisorie
cercavano il definitivo. Quaerere Deum: poiché erano cristiani, questa non era una
spedizione in un deserto senza strade, una ricerca verso il buio assoluto. Dio stesso
aveva piantato delle segnalazioni di percorso, anzi, aveva spianato una via, e il
compito consisteva nel trovarla e seguirla. Questa via era la sua Parola che, nei
libri delle Sacre Scritture, era aperta davanti agli uomini. La ricerca di Dio richiede
quindi per intrinseca esigenza una cultura della parola o, come si esprime Jean Leclercq
: nel monachesimo occidentale, escatologia e grammatica sono interiormente connesse
l’una con l’altra (cfr L’amour des lettres et le desir de Dieu, p.14). Il desiderio
di Dio, le désir de Dieu, include l’amour des lettres, l’amore per la parola, il
penetrare in tutte le sue dimensioni. Poiché nella Parola biblica Dio è in cammino
verso di noi e noi verso di Lui, bisogna imparare a penetrare nel segreto della lingua,
a comprenderla nella sua struttura e nel suo modo di esprimersi. Così, proprio a causa
della ricerca di Dio, diventano importanti le scienze profane che ci indicano le vie
verso la lingua. Poiché la ricerca di Dio esigeva la cultura della parola, fa parte
del monastero la biblioteca che indica le vie verso la parola. Per lo stesso motivo
ne fa parte anche la scuola, nella quale le vie vengono aperte concretamente. Benedetto
chiama il monastero una dominici servitii schola. Il monastero serve alla eruditio,
alla formazione e all’erudizione dell’uomo – una formazione con l’obbiettivo ultimo
che l’uomo impari a servire Dio. Ma questo comporta proprio anche la formazione della
ragione, l’erudizione, in base alla quale l’uomo impara a percepire, in mezzo alle
parole, la Parola.
Per avere la piena visione della cultura della parola, che
appartiene all’essenza della ricerca di Dio, dobbiamo fare un altro passo. La Parola
che apre la via della ricerca di Dio ed è essa stessa questa via, é una Parola che
riguarda la comunità. Certo, essa trafigge il cuore di ciascun singolo (cfr At 2,
37). Gregorio Magno descrive questo come una fitta improvvisa che squarcia la nostra
anima sonnolenta e ci sveglia rendendoci attenti per Dio (cfr Leclercq, ibid., p.35).
Ma così ci rende attenti anche gli uni per gli altri. La Parola non conduce a una
via solo individuale di un’immersione mistica, ma introduce nella comunione con quanti
camminano nella fede. E per questo bisogna non solo riflettere sulla Parola, ma anche
leggerla in modo giusto. Come nella scuola rabbinica, così anche tra i monaci il leggere
stesso compiuto dal singolo è al contempo un atto corporeo. “Se, tuttavia, legere
e lectio vengono usati senza un attributo esplicativo, indicano per lo più un’attività
che, come il cantare e lo scrivere, comprende l’intero corpo e l’intero spirito”,
dice al riguardo Jean Leclercq (ibid., p.21).
E ancora c’è da fare un altro
passo. La Parola di Dio introduce noi stessi nel colloquio con Dio. Il Dio che parla
nella Bibbia ci insegna come noi possiamo parlare con Lui. Specialmente nel Libro
dei Salmi Egli ci dà le parole con cui possiamo rivolgerci a Lui, portare la nostra
vita con i suoi alti e bassi nel colloquio davanti a Lui, trasformando così la vita
stessa in un movimento verso di Lui. I Salmi contengono ripetutamente delle istruzioni
anche sul come devono essere cantati ed accompagnati con strumenti musicali. Per pregare
in base alla Parola di Dio il solo pronunciare non basta, esso richiede la musica.
Due canti della liturgia cristiana derivano da testi biblici che li pongono sulle
labbra degli Angeli: il Gloria, che è cantato dagli Angeli alla nascita di Gesù, e
il Sanctus, che secondo Isaia 6 è l’acclamazione dei Serafini che stanno nell’ immediata
vicinanza di Dio. Alla luce di ciò la Liturgia cristiana è invito a cantare insieme
agli Angeli e a portare così la parola alla sua destinazione più alta. Sentiamo in
questo contesto ancora una volta Jean Leclercq: “I monaci dovevano trovare delle melodie
che traducevano in suoni l’adesione dell’uomo redento ai misteri che egli celebra.
I pochi capitelli di Cluny, che si sono conservati fino ai nostri giorni, mostrano
così i simboli cristologici dei singoli toni” (cfr ibid. p.229).
In Benedetto,
per la preghiera e per il canto dei monaci vale come regola determinante la parola
del Salmo: Coram angelis psallam Tibi, Domine – davanti agli angeli voglio cantare
a Te, Signore (cfr 138,1). Qui si esprime la consapevolezza di cantare nella preghiera
comunitaria in presenza di tutta la corte celeste e di essere quindi esposti al criterio
supremo: di pregare e di cantare in maniera da potersi unire alla musica degli Spiriti
sublimi, che erano considerati gli autori dell’armonia del cosmo, della musica delle
sfere. Partendo da ciò, si può capire la serietà di una meditazione di san Bernardo
di Chiaravalle, che usa una parola di tradizione platonica trasmessa da Agostino per
giudicare il canto brutto dei monaci, che ovviamente per lui non era affatto un piccolo
incidente, in fondo secondario. Egli qualifica la confusione di un canto mal eseguito
come un precipitare nella “zona della dissimilitudine” – nella regio dissimilitudinis.
Agostino aveva preso questa parola dalla filosofia platonica per caratterizzare il
suo stato interiore prima della conversione (cfr Confess. VII, 10.16): l’uomo, che
è creato a somiglianza di Dio, precipita in conseguenza del suo abbandono di Dio nella
“zona della dissimilitudine” – in una lontananza da Dio nella quale non Lo rispecchia
più e così diventa dissimile non solo da Dio, ma anche da se stesso, dal vero essere
uomo. È certamente drastico se Bernardo, per qualificare i canti mal eseguiti dei
monaci, usa questa parola, che indica la caduta dell’uomo lontano da se stesso. Ma
dimostra anche come egli prenda la cosa sul serio. Dimostra che la cultura del canto
è anche cultura dell’essere e che i monaci con il loro pregare e cantare devono corrispondere
alla grandezza della Parola loro affidata, alla sua esigenza di vera bellezza. Da
questa esigenza intrinseca del parlare con Dio e del cantarLo con le parole donate
da Lui stesso è nata la grande musica occidentale. Non si trattava di una “creatività”
privata, in cui l’individuo erige un monumento a se stesso, prendendo come criterio
essenzialmente la rappresentazione del proprio io. Si trattava piuttosto di riconoscere
attentamente con gli “orecchi del cuore” le leggi intrinseche della musica della stessa
creazione, le forme essenziali della musica immesse dal Creatore nel suo mondo e nell’uomo,
e trovare così la musica degna di Dio, che allora al contempo è anche veramente degna
dell’uomo e fa risuonare in modo puro la sua dignità.
Per capire in qualche
modo la cultura della parola, che nel monachesimo occidentale si è sviluppata dalla
ricerca di Dio, partendo dall’interno, occorre finalmente fare almeno un breve cenno
alla particolarità del Libro o dei Libri in cui questa Parola è venuta incontro ai
monaci. La Bibbia, vista sotto l’aspetto puramente storico o letterario, non è semplicemente
un libro, ma una raccolta di testi letterari, la cui stesura si estende lungo più
di un millennio e i cui singoli libri non sono facilmente riconoscibili come appartenenti
ad un’unità interiore; esistono invece tensioni visibili tra di essi. Ciò vale già
all’interno della Bibbia di Israele, che noi cristiani chiamiamo l’Antico Testamento.
Vale tanto più quando noi, come cristiani, colleghiamo il Nuovo Testamento e i suoi
scritti, quasi come chiave ermeneutica, con la Bibbia di Israele, interpretandola
così come via verso Cristo. Nel Nuovo Testamento, con buona ragione, la Bibbia normalmente
non viene qualificata come “la Scrittura”, ma come “le Scritture” che, tuttavia, nel
loro insieme vengono poi considerate come l’unica Parola di Dio rivolta a noi. Ma
già questo plurale rende evidente che qui la Parola di Dio ci raggiunge soltanto attraverso
la parola umana, attraverso le parole umane, che cioè Dio parla a noi solo attraverso
gli uomini, mediante le loro parole e la loro storia. Questo, a sua volta, significa
che l’aspetto divino della Parola e delle parole non è semplicemente ovvio. Detto
in espressioni moderne: l’unità dei libri biblici e il carattere divino delle loro
parole non sono, da un punto di vista puramente storico, afferrabili. L’elemento storico
è la molteplicità e l’umanità. Da qui si comprende la formulazione di un distico medioevale
che, a prima vista, sembra sconcertante: “Littera gesta docet – quid credas allegoria…”
(cfr Augustinus de Dacia, Rotulus pugillaris, I). La lettera mostra i fatti; ciò
che devi credere lo dice l’allegoria, cioè l’interpretazione cristologica e pneumatica. Possiamo
esprimere tutto ciò anche in modo più semplice: la Scrittura ha bisogno dell’interpretazione,
e ha bisogno della comunità in cui si è formata e in cui viene vissuta. In essa ha
la sua unità e in essa si dischiude il senso che tiene unito il tutto. Detto ancora
in un altro modo: esistono dimensioni del significato della Parola e delle parole,
che si dischiudono soltanto nella comunione vissuta di questa Parola che crea la storia.
Mediante la crescente percezione delle diverse dimensioni del senso, la Parola non
viene svalutata, ma appare, anzi, in tutta la sua grandezza e dignità. Per questo
il “Catechismo della Chiesa Cattolica” con buona ragione può dire che il cristianesimo
non è semplicemente una religione del libro nel senso classico (cfr n. 108). Il cristianesimo
percepisce nelle parole la Parola, il Logos stesso, che estende il suo mistero attraverso
tale molteplicità. Questa struttura particolare della Bibbia è una sfida sempre nuova
per ogni generazione. Secondo la sua natura essa esclude tutto ciò che oggi viene
chiamato fondamentalismo. La Parola di Dio stesso, infatti, non è mai presente già
nella semplice letteralità del testo. Per raggiungerla occorre un trascendimento e
un processo di comprensione, che si lascia guidare dal movimento interiore dell’insieme
e perciò deve diventare anche un processo di vita. Sempre e solo nell’unità dinamica
dell’insieme i molti libri formano un Libro, si rivelano nella parola e nella storia
umane la Parola di Dio e l’agire di Dio nel mondo.
Tutta la drammaticità di
questo tema viene illuminata negli scritti di san Paolo. Che cosa significhi il trascendimento
della lettera e la sua comprensione unicamente a partire dall’insieme, egli l’ha espresso
in modo drastico nella frase: “La lettera uccide, lo Spirito dà vita” (2 Cor 3,6).
E ancora: “Dove c’è lo Spirito … c’è libertà” (2 Cor 3,17). La grandezza e la vastità
di tale visione della Parola biblica, tuttavia, si può comprendere solo se si ascolta
Paolo fino in fondo e si apprende allora che questo Spirito liberatore ha un nome
e che la libertà ha quindi una misura interiore: “Il Signore è lo Spirito, e dove
c’è lo Spirito del Signore c’è libertà” (2 Cor 3,17). Lo Spirito liberatore non è
semplicemente la propria idea, la visione personale di chi interpreta. Lo Spirito
è Cristo, e Cristo è il Signore che ci indica la strada. Con la parola sullo Spirito
e sulla libertà si schiude un vasto orizzonte, ma allo stesso tempo si pone un chiaro
limite all’arbitrio e alla soggettività, un limite che obbliga in maniera inequivocabile
il singolo come la comunità e crea un legame superiore a quello della lettera: il
legame dell’intelletto e dell’amore. Questa tensione tra legame e libertà, che va
ben oltre il problema letterario dell’interpretazione della Scrittura, ha determinato
anche il pensiero e l’operare del monachesimo e ha profondamente plasmato la cultura
occidentale. Essa si pone nuovamente anche alla nostra generazione come sfida di fronte
ai poli dell’arbitrio soggettivo, da una parte, e del fanatismo fondamentalista, dall’altra.
Sarebbe fatale, se la cultura europea di oggi potesse comprendere la libertà ormai
solo come la mancanza totale di legami e con ciò favorisse inevitabilmente il fanatismo
e l’arbitrio. Mancanza di legame e arbitrio non sono la libertà, ma la sua distruzione.
Nella
considerazione sulla “scuola del servizio divino” – come Benedetto chiamava il monachesimo
– abbiamo fino a questo punto rivolto la nostra attenzione solo al suo orientamento
verso la parola, verso l’ “ora”. E di fatto è a partire da ciò che viene determinata
la direzione dell’insieme della vita monastica. Ma la nostra riflessione rimarrebbe
incompleta, se non fissassimo il nostro sguardo almeno brevemente anche sulla seconda
componente del monachesimo, quella descritta col “labora”. Nel mondo greco il lavoro
fisico era considerato l’impegno dei servi. Il saggio, l’uomo veramente libero si
dedicava unicamente alle cose spirituali; lasciava il lavoro fisico come qualcosa
di inferiore a quegli uomini che non sono capaci di questa esistenza superiore nel
mondo dello spirito. Assolutamente diversa era la tradizione giudaica: tutti i grandi
rabbi esercitavano allo stesso tempo anche una professione artigianale. Paolo che,
come rabbi e poi come annunciatore del Vangelo ai gentili, era anche tessitore di
tende e si guadagnava la vita con il lavoro delle proprie mani, non costituisce un’eccezione,
ma sta nella comune tradizione del rabbinismo. Il monachesimo ha accolto questa tradizione;
il lavoro manuale è parte costitutiva del monachesimo cristiano. Benedetto parla nella
sua Regola non propriamente della scuola, anche se l’insegnamento e l’apprendimento
– come abbiamo visto – in essa erano cose praticamente scontate. Parla però esplicitamente
del lavoro (cfr cap.48). Altrettanto fa Agostino che al lavoro dei monaci ha dedicato
un libro particolare. I cristiani, che con ciò continuavano nella tradizione da tempo
praticata dal giudaismo, dovevano inoltre sentirsi chiamati in causa dalla parola
di Gesù nel Vangelo di Giovanni, con la quale Egli difendeva il suo operare in giorno
di Sabato: “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero” (5, 17). Il mondo greco-romano
non conosceva alcun Dio Creatore; la divinità suprema, secondo la loro visione, non
poteva, per così dire, sporcarsi le mani con la creazione della materia. Il “costruire”
il mondo era riservato al demiurgo, una deità subordinata. Ben diverso il Dio cristiano:
Egli, l’Uno, il vero e unico Dio, è anche il Creatore. Dio lavora; continua a lavorare
nella e sulla storia degli uomini. In Cristo Egli entra come Persona nel lavoro faticoso
della storia. “Il Padre mio opera sempre e anch’io opero”. Dio stesso è il Creatore
del mondo, e la creazione non è ancora finita. Dio lavora. Così il lavorare degli
uomini doveva apparire come un’espressione particolare della loro somiglianza con
Dio e l’uomo, in questo modo, ha facoltà e può partecipare all’operare di Dio nella
creazione del mondo. Del monachesimo fa parte, insieme con la cultura della parola,
una cultura del lavoro, senza la quale lo sviluppo dell’Europa, il suo ethos e la
sua formazione del mondo sono impensabili. Questo ethos dovrebbe però includere la
volontà di far sì che il lavoro e la determinazione della storia da parte dell’uomo
siano un collaborare con il Creatore, prendendo da Lui la misura. Dove questa misura
viene a mancare e l’uomo eleva se stesso a creatore deiforme, la formazione del mondo
può facilmente trasformarsi nella sua distruzione.
Siamo partiti dall’osservazione
che, nel crollo di vecchi ordini e sicurezze, l’atteggiamento di fondo dei monaci
era il quaerere Deum – mettersi alla ricerca di Dio. Potremmo dire che questo è l’atteggiamento
veramente filosofico: guardare oltre le cose penultime e mettersi in ricerca di quelle
ultime, vere. Chi si faceva monaco, s’incamminava su una via lunga e alta, aveva tuttavia
già trovato la direzione: la Parola della Bibbia nella quale sentiva parlare Dio stesso.
Ora doveva cercare di comprenderLo, per poter andare verso di Lui. Così il cammino
dei monaci, pur rimanendo non misurabile nella lunghezza, si svolge ormai all’interno
della Parola accolta. Il cercare dei monaci, sotto certi aspetti, porta in se stesso
già un trovare. Occorre dunque, affinché questo cercare sia reso possibile, che in
precedenza esista già un primo movimento che non solo susciti la volontà di cercare,
ma renda anche credibile che in questa Parola sia nascosta la via – o meglio: che
in questa Parola Dio stesso si faccia incontro agli uomini e perciò gli uomini attraverso
di essa possano raggiungere Dio. Con altre parole: deve esserci l’annuncio che si
rivolge all’uomo creando così in lui una convinzione che può trasformarsi in vita.
Affinché si apra una via verso il cuore della Parola biblica quale Parola di Dio,
questa stessa Parola deve prima essere annunciata verso l’esterno. L’espressione classica
di questa necessità della fede cristiana di rendersi comunicabile agli altri è una
frase della Prima Lettera di Pietro, che nella teologia medievale era considerata
la ragione biblica per il lavoro dei teologi: “Siate sempre pronti a rispondere a
chiunque vi domandi ragione (logos) della speranza che è in voi” (3, 15) (Logos deve
diventare apo-logia, la Parola deve diventare risposta). Di fatto, i cristiani della
Chiesa nascente non hanno considerato il loro annuncio missionario come una propaganda,
che doveva servire ad aumentare il proprio gruppo, ma come una necessità intrinseca
che derivava dalla natura della loro fede: il Dio nel quale credevano era il Dio di
tutti, il Dio uno e vero che si era mostrato nella storia d’Israele e infine nel suo
Figlio, dando con ciò la risposta che riguardava tutti e che, nel loro intimo, tutti
gli uomini attendono. L’universalità di Dio e l’universalità della ragione aperta
verso di Lui costituivano per loro la motivazione e insieme il dovere dell’annuncio.
Per loro la fede non apparteneva alla consuetudine culturale, che a seconda dei popoli
è diversa, ma all’ambito della verità che riguarda ugualmente tutti.
Lo schema
fondamentale dell’annuncio cristiano “verso l’esterno” – agli uomini che, con le loro
domande, sono in ricerca – si trova nel discorso di san Paolo all’Areopago. Teniamo
presente, in questo contesto, che l’Areopago non era una specie di accademia, dove
gli ingegni più illustri s’incontravano per la discussione sulle cose sublimi, ma
un tribunale che aveva la competenza in materia di religione e doveva opporsi all’importazione
di religioni straniere. È proprio questa l’accusa contro Paolo: “Sembra essere un
annunziatore di divinità straniere” (At 17, 18). A ciò Paolo replica: “Ho trovato
presso di voi un'ara con l'iscrizione: Al Dio ignoto. Quello che voi adorate senza
conoscere, io ve lo annunzio” (cfr 17, 23). Paolo non annuncia dei ignoti. Egli annuncia
Colui che gli uomini ignorano, eppure conoscono: l’Ignoto-Conosciuto; Colui che cercano,
di cui, in fondo, hanno conoscenza e che, tuttavia, è l’Ignoto e l’Inconoscibile.
Il più profondo del pensiero e del sentimento umani sa in qualche modo che Egli deve
esistere. Che all’origine di tutte le cose deve ess erci non l’irrazionalità, ma la
Ragione creativa; non il cieco caso, ma la libertà. Tuttavia, malgrado che tutti gli
uomini in qualche modo sappiano questo – come Paolo sottolinea nella Lettera ai Romani
(1, 21) – questo sapere rimane irreale: un Dio soltanto pensato e inventato non è
un Dio. Se Egli non si mostra, noi comunque non giungiamo fino a Lui. La cosa nuova
dell’annuncio cristiano è la possibilità di dire ora a tutti i popoli: Egli si è mostrato.
Egli personalmente. E adesso è aperta la via verso di Lui. La novità dell’annuncio
cristiano consiste in un fatto: Egli si è mostrato. Ma questo non è un fatto cieco,
ma un fatto che, esso stesso, è Logos – presenza della Ragione eterna nella nostra
carne. Verbum caro factum est (Gv 1,14): proprio così nel fatto ora c’è il Logos,
il Logos presente in mezzo a noi. Il fatto è ragionevole. Certamente occorre sempre
l’umiltà della ragione per poter accoglierlo; occorre l’umiltà dell’uomo che risponde
all’umiltà di Dio.
La nostra situazione di oggi, sotto molti aspetti, è diversa
da quella che Paolo incontrò ad Atene, ma, pur nella differenza, tuttavia, in molte
cose anche assai analoga. Le nostre città non sono più piene di are ed immagini di
molteplici divinità. Per molti, Dio è diventato veramente il grande Sconosciuto. Ma
come allora dietro le numerose immagini degli dèi era nascosta e presente la domanda
circa il Dio ignoto, così anche l’attuale assenza di Dio è tacitamente assillata dalla
domanda che riguarda Lui. Quaerere Deum – cercare Dio e lasciarsi trovare da Lui:
questo oggi non è meno necessario che in tempi passati. Una cultura meramente positivista
che rimuovesse nel campo soggettivo come non scientifica la domanda circa Dio, sarebbe
la capitolazione della ragione, la rinuncia alle sue possibilità più alte e quindi
un tracollo dell’umanesimo, le cui conseguenze non potrebbero essere che gravi. Ciò
che ha fondato la cultura dell’Europa, la ricerca di Dio e la disponibilità ad ascoltarLo,
rimane anche oggi il fondamento di ogni vera cultura.