Il bilancio dell'edizione del Meeting di Rimini 2008 nelle parole della presidente,
Emilia Guarnieri. La testimonianza di Rodolfo Casadei, autore di un libro sui cristiani
in Medio Oriente
“Uomini senza patria”. E’ il titolo del libro di don Giussani presentato ieri per
l’incontro conclusivo del Meeting di Rimini. Un titolo che riprende tutto il percorso
della kermesse riminese, organizzata da Comunione e liberazione. E la presidente
del Meeting ha annunciato il titolo del prossimo anno: "La conoscenza è sempre un
avvenimento". Ma torniamo agli interventi finali del Meeting con il servizio della
nostra inviata, DeboraDonnini:
"Uomini senza
patria", uomini veramente protagonisti perché coscienti di esistere in rapporto a
Dio. “O protagonisti o nessuno”, il titolo del Meeting di quest’anno, partito dal
messaggio del Papa, si è dipanato nei volti di coloro che sono stati proposti come
i veri protagonisti: la donna ugandese malata di AIDS che ritrova la speranza; l’angelo
del Burundi che salva migliaia di bambini orfani delle etnie hutu e tutsi; Cleuza
e Marcos, del Movimento dei lavoratori senza terra del Brasile, che ritrovano la forza
di aiutare gli altri; i carcerati che accompagnano i visitatori nella mostra dedicata,
appunto, alle carceri. Gente la cui vita è cambiata radicalmente con l’incontro con
Cristo. Il Meeting è un popolo, ha ricordato la presidente, Emilia Guarnieri, è fatto
di volontari: 400 mila quest’anno, di famiglie, di bambini, di giovani, 700 mila le
presenze.
Anche Eugenia Roccella, sottosegretario
al Lavoro, salute e politiche sociali, ritiene che l’uomo che pretende di autodeterminarsi
sia molto più facilmente vittima del potere. La Roccella ha anche raccontato la riscoperta
della fede nella sua vita.
“Siamo senza patria perché
riconosciamo che Cristo è la consistenza della nostra persona”, afferma il presidente
della Compagnia delle Opere, Bernhard Scholz. Don Giussani, ha ricordato, metteva
al centro il soggetto e non il progetto. Ci vuole un soggetto diverso, diceva. Da
lì poi nascono le opere, le scuole, perché essere senza patria ci ha dato la possibilità
di creare case dappertutto, di essere dappertutto. Allora, prosegue Scholz, uno è
pieno di gratitudine, per la moglie, per i figli, per avere amici che ogni giorno
ricordano questo: che noi, che di per sé saremo niente, siamo in qualche modo tutto,
con il nostro volto unico e irripetibile.
Le testimonianze dei profughi
cristiani iracheni rifugiati in Libano, Giordania, Siria, ma anche nello stesso Iraq
settentrionale, nella parte curda. Sono le toccanti esperienze raccolte nel libro
“Il sangue dell’agnello” presentato al Meeting di Rimini. Un libro che racconta tra
l’altro anche la situazione in Turchia. Autore di questo reportage fra i cristiani
perseguitati in Medio Oriente Rodolfo Casadei, inviato speciale del settimanale
Tempi. Debora Donnini l’ha intervistato.
R. - Sono
persone in fuga e sono vittime diverse dalle altre vittime della guerra irachena.
In Iraq stanno soffrendo tutti: musulmani, cristiani e altre religioni. Ma mentre
la maggior parte della popolazione soffre a causa della guerra, nei confronti dei
cristiani è all’opera una vera e propria persecuzione religiosa. Sono aggrediti e
colpiti a motivo della loro fede. E questo lo spiega tutto un semplice fatto statistico:
secondo le Nazioni Unite, ci sono 4 milioni e 400 mila profughi e sfollati interni
iracheni; di questi, 400 mila sono cristiani. Questo cosa vuol dire? Che in Iraq,
un iracheno su 7 è profugo, mentre un cristiano su 2 è profugo o sfollato.
D.
- Ci puoi raccontare una storia che ti sembra particolarmente toccate e che può spiegare
in modo esemplare la situazione dei cristiani profughi in queste terre?
R.
- Comincerei semplicemente ricordando la storia del vescovo di Mossul (mons. Rahho,
ndr) che è stato rapito ed è morto in prigionia, il quale aveva ricevuto 11 lettere
di minacce di morte, era già stato tentato un suo rapimento l’anno scorso, il suo
episcopio era stato fatto esplodere ed è stato distrutto completamente dalle bombe
e lui, nell’ultima intervista, mi disse: “Io non me ne vado, io resterò sempre a Mossul
per stare con il mio gregge e perché so che c’è qualcuno in alto che mi protegge e
io mi affido completamente a lui”. Ecco, questa è la testimonianza della grandezza
della fede dei cristiani iracheni, sia dei vescovi sia, tante volte, della gente semplice.
D.
- A proposito della gente semplice: ci racconti qualche caso? Una delle storie si
intitola “Rapito per una foto”...
R. - Sì: in Iraq,
i rapimenti sono all’ordine del giorno. Si rapisce per avere il riscatto da parte
di bande di criminali. I cristiani sono maggiormente bersaglio del resto della popolazione
per ragioni legate alla loro religione. Racconto, per esempio, la storia di una bambina
cristiana, rapita per la sola ragione di essere apparsa in una fotografia su un giornale
di Baghdad mentre dei soldati americani regalavano caramelle e giocattoli. Questo
è bastato ai terroristi per rapire la bambina, tenerla per varie settimane in condizioni
deplorevoli: la bambina è stata liberata dietro pagamento di un riscatto ma ha molto
sofferto e ancora oggi mantiene tutto il trauma psicologico dell’esperienza che ha
vissuto.
D. - Una parte di questi cristiani iracheni
si sono rifugiati nell’Iraq settentrionale, dove la popolazione è in maggioranza curda.
I curdi, seppur musulmani, stanno però aiutando i cristiani iracheni, quindi ci sono
anche testimonianze di musulmani e zone dove i musulmani, in realtà, aiutano i cristiani...
R.
- Direi che è una delle buone notizie che ci sono nel libro, dove si parla principalmente
di persecuzione ma anche di casi di musulmani che hanno solidarizzato e solidarizzano
con i cristiani. Forse l’esempio più importante, più eclatante, è quello del governo
regionale curdo, che è un governo musulmano, il quale conduce una politica deliberata
di sostegno, difesa delle minoranze religiose. E quindi, i cristiani che vivono in
Kurdistan e quelli che si sono rifugiati in Kurdistan o nella Piana di Ninive che
è controllata dai curdi, oggi sono sotto la protezione del governo curdo, che vuol
dire garanzia di sicurezza ma vuol dire anche costruzione finanziata dal governo di
case per i cristiani, alcune sovvenzioni finanziarie ed alimentari, la possibilità
di vivere. Persone fuggite da Baghdad, da Bassora e da Mossul vivono nel Kurdistan
iracheno grazie a questa politica deliberata del governo curdo di sostegno, di protezione
delle minoranze religiose.
E per un bilancio conclusivo
e generale dell'evento riminese 2008, ascoltiamo Emilia Guarnieri, presidente
della Fondazione Meeting per l'amicizia fra i popoli, intervistata da Luca Collodi:
R. - L’edizione
del Meeting è andata molto bene. Siamo molto contenti, perchè è stata un’occasione,
ancora una volta, per mostrare una realtà di un popolo che ha voglia di vivere, di
affrontare le questioni importanti, che ha voglia di parlare di cultura, che si interessa
a quello che succede nel mondo. E’ un popolo che è mosso da un ideale e che lo documenta
e lo testimonia. Direi sia proprio una realtà forte, grande e intera. Quindi, questa
è sempre una cosa bella e credo che anche quello che i visitatori, gli ospiti che
sono venuti, hanno documentato, è proprio questa forza ideale che muove e che coinvolge.
D.
- Un tema portante di questo Meeting 2008?
R. - Il
tema è sicuramente il tema del protagonista. Credo che in questi giorni sia difficile
non accorgersi che tutti quelli che hanno in maniera forte e intensa documentato questo,
sono persone che non hanno trovato nella loro personale energia interiore la forza
per affrontare la vita, ma che hanno trovato nell’incontro con Qualcuno o con Qualcosa
la possibilità di riscoprire questo famoso volto unico e irripetibile di cui in questi
giorni tanto abbiamo detto. E questo credo che sia proprio un’esperienza grande che
in tanti si è fatta. Non è la forza della volontà che manda avanti nella vita, è la
forza dell’incontro con Qualcuno che ti guarda e che ti dice: “Possiamo andare”.
D.
- Professoressa Guarnieri, voi avete cercato al Meeting di Rimini il protagonista
positivo, ma ancora una volta la storia di queste ore, di questi giorni ci dice che
nel mondo ci sono tanti protagonisti, ma in negativo...
R.
- Ci sono tanti uomini potenti. Anche in queste situazioni dure, di guerra e di violenza,
in fondo quello che può fare la differenza è che qualcuno con un gesto di libertà
abbia il coraggio di guardare la realtà e di provare ad essere buono, non inseguendo
i sistemi perfetti. Provare ad essere buono vuol dire guardare al desiderio che lui
ha - perchè anche gli uomini potenti hanno il desiderio di bene, hanno il desiderio
di pace, hanno il desiderio di verità - guardare al desiderio che lui ha e che gli
altri uomini hanno. Questo può, non dico potrebbe, cambiare le cose, perchè tante
volte succede che una libertà così possa cambiare le cose.
D.
- Il senso religioso delle persone, secondo l'esperienza del Meeting di quest’anno,
è ancora vivo?
R. - Sì, tutti gli uomini hanno il
senso religioso. Sicuramente, tantissime delle persone che hanno portato la loro esperienza
al Meeting lo hanno documentato. E anche qui accade che la testimonianza forte di
qualcuno sia sempre capace di stimolare, perchè uno si accorge che la stessa domanda
e la stessa tensione ce l’ha anche lui.
D. - Come
potrebbe raccontare il Meeting di quest’anno?
R.
- Credo sia un Meeting nel quale anche io ho visto con i miei occhi molte cose importanti.
L’ultima che potrei raccontare è questa festa improvvisata alla Mostra sul carcere,
dove c’erano una decina, una quindicina di carcerati, accompagnati da altrettante
guardie carcerarie, che sono stati al Meeting tutta questa settimana, hanno condiviso
l’esperienza del Meeting, hanno incontrato la gente, sono stati alla mostra, hanno
spiegato la mostra. Ad una certa ora della sera - non so esattamente quale - tornavano
con il loro commissario, con le loro guardie, nel carcere dei Casetti di Rimini, poi
ritornavano giù. Hanno fatto insieme alle migliaia di persone che c’erano intorno
un momento di festa. Di fronte ad una cosa di questo genere, in cui era difficile
dire chi era più commosso, e chi aveva più vissuto intensamente, non si può dire che
"non abbiamo visto".