Attentato in Libano all’indomani del varo del governo di unità nazionale: 18 i morti
Grave attentato in Libano. Almeno 18 persone, tra queste una bambina di 7 anni, hanno
perso la vita a Tripoli. L’attacco terroristico, che non è stato finora rivendicato,
è avvenuto in un momento di estrema delicatezza per gli equilibri regionali, all'indomani
del varo del governo di unità nazionale nel Paese. Intanto, c’è attesa per l’arrivo
in Siria del presidente libanese Michel Suleiman, eletto il 25 maggio scorso che ha
già lanciato un forte appello all’unità. Stefano Leszczynski ha intervistato
Maria Grazia Enardu, docente di storia delle relazioni internazionali all’Università
di Firenze:
R. – E’
chiaro che è in ogni caso una visita interlocutoria. E' interlocutoria non solo perché
l’uomo è nuovo rispetto alla responsabilità. Tutto il quadro, non solo mediorientale,
ma dei rapporti a triangolo tra Siria, Libano e Israele, e poi il contesto generale,
è in attesa di chiarimenti, sia per quanto riguarda la presidenza americana, sia per
quanto riguarda la nuova leadership di Israele.
D.
– Cosa manca al Libano perché l'unità nazionale si rafforzi?
R.
– Il Libano, purtroppo, è un Paese che ha un sistema politico confessionale: non si
pesano i voti degli individui, ma si pesa anche la loro appartenenza. Il presidente
Suleiman però ha una carta importante: è stato eletto dopo inaudite vicende, attentati,
assassini e così via, quasi all’unanimità del Parlamento libanese.
D.
– La Siria ha avviato dei colloqui indiretti con Israele. Questo “riavvicinamento”
tra la Siria e il Libano potrebbe preludere a qualche passo ulteriore nei confronti
del processo di pace con Israele?
R. – Non credo
francamente, perché la vera fatica è tra Siria e Israele; quindi, chiaramente, sul
Golan. Per definire questo, credo che il ruolo libanese sia assolutamente accessorio.
Inoltre, il confine libanese regge, è tranquillo, perché dopo la guerra di due anni
fa, il movimento hezbollah ha in pratica assicurato una tregua, che ha tutte le intenzioni
di mantenere.
Afghanistan Sgomento in Afghanistan
per l’uccisione di tre operatrici umanitarie – una americana, una irlandese ed una
canadese - e del loro autista afghano, avvenuta nella provincia di Logar. Il loro
convoglio è stato colpito da un gruppo di uomini armati, probabilmente talebani. Secondo
le organizzazioni non governative, solo nel 2008 sono state 19 le vittime che appartenevano
alle ONG.
Pakistan Nuova escalation di violenza in Pakistan all’indomani
dell’uccisione di Abu Said al Masri, leader di Al Qaeda nel Paese. Almeno dieci miliziani
hanno perso la vita in un raid aereo, probabilmente condotto dagli Stati Uniti, nel
distretto tribale del Waziristan, al confine con l’Afghanistan. Intanto, a livello
politico, il presidente Musharraf sembra sempre più in difficoltà; anche l'Assemblea
della provincia del Sindh ha approvato la risoluzione per chiedere al capo dello Stato
di presentarsi in Parlamento e chiedere la fiducia. Nei giorni scorsi, stessa cosa
avevano fatto altre due province: il Punjab e la North West Frontier Pronvince. Fonti
di stampa hanno inoltre rivelato che Musharraf è pronto a presentare le sue dimissioni
all’indomani della festa dell’indipendenza pachistana, il 14 agosto. Sembra che il
presidente, prima di formalizzarle, abbia chiesto la possibilità di fare un discorso
alla nazione.
Terrorismo-CIA L’intelligence americana ha lanciato
un allarme perché Al Qaeda, in Pakistan, starebbe reclutando e addestrando nuovi terroristi
in grado di colpire l’Europa e gli Stati Uniti. Secondo la CIA, c’è un reale pericolo
soprattutto durante le future elezioni presidenziali negli USA.
Iraq Non
cessa la violenza in Iraq. Un’autobomba, saltata in aria a Mossul, ha provocato la
morte di due civili iracheni; sempre nella stessa zona, un’altra persona è stata uccisa
nel corso di duri scontri tra forze di sicurezza e gruppi armati. A Kirkuk, il leader
di un consiglio popolare che si batte contro il terrorismo, è rimasto ferito insieme
con le sue tre guardie del corpo dall’esplosione di un’autobomba. Intanto, aumentano
le perdite nelle file dell’esercito americano; ieri un militare ha perso la vita ed
altri due sono rimasti feriti nell’attacco al loro convoglio avvenuto nella provincia
sunnita di Al Anbar, ad ovest di Baghdad.
Filippine Dopo quattro
giorni di offensiva militare, l’esercito delle Filippine è riuscito a riconquistare
tutti i villaggi del'isola di Mindanao occupati dal Fronte islamico di liberazione
Moro. Sul terreno, si registrano oltre 30 ribelli uccisi e almeno 160 mila profughi
scappati dalle loro case nel corso dei combattimenti. La nuova ondata di violenze
è scattata dopo che la Corte suprema ha sospeso l’accordo tra il governo ed il Fronte
islamico per la creazione di una regione autonoma islamica a Mindanao. Accordo molto
contestato sia dalle comunità cristiane sia da quelle musulmane come ci spiega, al
microfono di Marco Guerra, il fondatore del movimento filippino per il dialogo
interreligioso, padre Sebastian D’Ambra:
R. - Innanzitutto,
non c’è stata molta consultazione in questa fase, e adesso che è venuta fuori questa
dichiarazione, diversi leader - sia religiosi sia del governo - hanno avanzato le
loro riserve. Alcuni addirittura in un modo molto forte: ci sono state anche delle
dimostrazioni in diverse zone. Non c’è stata la consultazione che ci dovrebbe essere.
E’ un accordo importante e coinvolge un po’ Mindanao, ma alla fine coinvolge un po’
tutte le Filippine per le ripercussioni. Praticamente, l’intesa è stato fatta tra
il governo e i rappresentanti del Moro Islamic Liberation Front.
D.
– Dopo quarant’anni di conflitto tra le forze governative e i guerriglieri islamici,
come sono i rapporti tra la comunità cattolica e quella musulmana nel Mindanao?
R.
– I rapporti sono buoni in generale, ma non in tutte le zone; ci sono diversi sforzi
di pace, di dialogo, a tutti i livelli. Questi creano un’atmosfera positiva, però
tutto questo purtroppo non basta per mettere da parte i pregiudizi che ci sono stati
e continuano ad esserci. Questa guerra, da 40 anni, è una storia triste con tante
violenze da una parte e dall’altra. C’è bisogno di tanto lavoro di riconciliazione,
di buona volontà.
D. – A seguito di quattro giorni
di violenti combattimenti, oltre 160 mila persone hanno lasciato le loro case; come
si sta affrontando l’emergenza profughi?
R. – In
quella zona, la zona di Cotabato, la gente purtroppo ha lasciato le case più volte
in questi anni di conflitto e i rifugiati si sono riversati nelle scuole, nelle parrocchie,
o in aree dove le persone si sentono più sicure. So che ci sono alcune agenzie che
già si stanno mobilitando per aiutare; però è sempre una situazione difficile, specialmente
in alcune zone dove piove.
Zimbabwe Dopo quattro
giorni di colloqui tra il presidente dello Zimbabwe Robert Mugabe e i leader dell'opposizione,
ieri sera è stato raggiunto, sotto l'egida del presidente del Sudafrica Mbeki, un
accordo per un governo di coalizione tra Mugabe ed una fazione dell'opposizione guidata
da Mutambara. La principale corrente del Movimento per il cambiamento democratico
(MDC) di Morgan Tsvangirai, la più critica contro Mugabe, ha chiesto invece un 'periodo
di riflessione'. Il presidente sudafricano Mbeki, ha intanto lasciato Harare. (Panoramica
internazionale a cura di Benedetta Capelli e Marco Guerra) Bollettino
del Radiogiornale della Radio Vaticana Anno LII no. 226
E'
possibile ricevere gratuitamente, via posta elettronica, l'edizione quotidiana del
Bollettino del Radiogiornale. La richiesta può essere effettuata sulla home page del
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