Oggi è la Giornata internazionale dei popoli indigeni, indetta nel 1994 dall’ONU per
porre fine all’emarginazione di queste popolazioni. Una ferita aperta soprattutto
in Brasile, dove gli indigeni sono circa 700 mila e continuano ad essere perseguitati.
Nel codice etico dei nativi americani c’è scritto: “La sofferenza di qualcuno è la
sofferenza di tutti; la gioia di qualcuno è la gioia di tutti”. Problemi che queste
popolazioni devono affrontare, oggi, sono ancora molti, come racconta, al microfono
di Roberta Barbi, mons. Moacyr Grechi, arcivescovo di Porto Velho, capitale
dello Stato del Rondônia:
R. - Alcuni
lottano per la demarcazione definitiva della propria terra. Altri lottano per la sopravvivenza,
perché perdendo la terra hanno perso anche la voglia di vivere: non si sentono né
bianchi, né indigeni, e i giovani allora si suicidano. Direi che il problema è garantire
dal punto di vista legale per quelle aree indigene che non sono state totalmente legalizzate;
una volta legalizzate, bisogna dare la forza, la protezione, perché siano rispettate
nei loro beni, nella loro cultura, nelle loro necessità.
D.
– Che responsabilità ha la comunità internazionale nella continua emarginazione delle
popolazioni indigene?
R. – La responsabilità è morale,
perché dal punto di vista legale alcuni organismi internazionali possono intervenire
solo nel caso in cui ci sia una distruzione in massa di tutto un popolo.
D.
– Finalmente, dopo anni di appelli nel settembre del 2007 l’Assemblea generale dell’ONU
ha adottato la dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni. Cos'è cambiato in un
anno in Brasile, dove gli indigeni sono circa 700 mila?
R.
– La situazione varia a seconda dei gruppi. Per alcuni, le cose sono migliorate, ma
la maggioranza, nella nostra regione, viene sfruttata. Non credo che ci siano stati
grandi progressi.
D. – Come mai questo ritardo nell’approvazione
della dichiarazione? A chi dà fastidio che gli indigeni godano del diritto all’autodeterminazione
fondamentale per ogni popolo?
R. - C’è una parte
ideologica, che è molto legata ai militari, che dice che se nel nord ci fossero soltanto
popoli indigeni ci sarebbe il rischio di perdere i territori confinanti con altri
Paesi. Inoltre, c’è il problema di quelli che vogliono sfruttare la terra. Adesso,
per esempio, nella regione di Roraima i produttori di riso hanno preso impropriamente
la terra, in quanto non l’hanno comprata: producono molto riso a prezzo basso e così
fanno una fortuna.
D. – Il 2008 è anche l’anno internazionale
delle lingue. Di quelle parlate nel mondo la maggior parte sono indigene, ma stanno
scomparendo. Cosa si può fare per salvarle?
R. –
Io vedo che quelli che lavorano e che sono legati alla Chiesa cattolica cercano di
fare in modo che gli indigeni parlino la loro lingua; nel contempo, se non lo sanno,
fanno on modo che imparino anche il portoghese, utile per il dialogo e per non essere
ingannati. Ma le scuole insegnano in lingua indigena. Un aspetto molto positivo del
lavoro che sta facendo questa commissione della Chiesa è principalmente quello che
gli indigeni si sentano orgogliosi di essere indigeni e che non si vergognino più
di esserlo.