Al Giffoni film Festival proiettato Kidogo', documentario sui bambini soldato: ai
nostri microfni, la testimonianza di un ex bambino soldato
Tra gli appuntamenti più importanti del Giffoni Film Festival c’è stata anche la proiezione
del documentario “Kidogo’ – un bambino-soldato”. L’opera, realizzata dal giornalista
Giuseppe Carrisi per la regia di Angelo Longoni, ripercorre la storia di un bambino-soldato
intrecciata con quella di altri bambini e bambine che vivono lo stesso dramma in vari
Paesi africani. Alla proiezione del documentario era presente il protagonista della
pellicola, Jean-Baptiste Onama, nato nel nord dell’Uganda. Figlio di un ministro ugandese,
è scappato con la famiglia dal suo Paese dopo il colpo di Stato di Idi Amin. Al rientro,
dopo lo scoppio della guerra civile, è stato costretto ad arruolarsi nell’esercito
governativo. Su questa esperienza drammatica, ascoltiamo la testimonianza proprio
di Jean-Baptiste Onama, oggi 42.enne docente di Scienze Politiche all’Università
di Padova, raccolta da padre Vito Magno:
R. – Io avevo
14 anni. Da ottobre fino a novembre avevo fatto un primo periodo di combattimento.
Poi, rientrando al quartier generale, a Gulu, ho incontrato una suora comboniana che
conoscevo già; mi ha preso nella sua scuola e mi ha fatto fare l’esame di licenza
elementare. Nel marzo 1981 fui di nuovo spedito al fronte. E allora, definitivamente,
ci fu l’intervento dell’allora vescovo di Gulu, mons. Cipriano Kihangire, al quale
il mio caso era stato presentato da un diacono: era il presidente del Consiglio di
amministrazione del Collegio gestito dai comboniani. Mi mandò in quel collegio e per
me è stata l’uscita definitiva dall’esperienza nell’esercito.
D.
– Jean-Baptiste Onama, di quali orrori e violenze è stato testimone?
R.
– Ho assistito a stupri da parte dei soldati, di ragazzine; ho assistito anche ad
un tragico episodio che ha riguardato una donna anziana: non era riuscita a scappare,
era rimasta vicina alle capanne bruciate; un soldato ha sparato è l'ha colpita ma
non a morte. Era ancora viva. E prima di morire ha detto delle parole. Il soldato
che le aveva sparato non poteva comprenderle perché erano un kuangu: io ero l’unico
della tribù che poteva capire quella lingua, perché era la gente di mio padre. E questa
donna diceva: “Figlio mio, perché mi uccidi? Che male ti ho fatto?”, e ha ripetuto
più volte queste parole. Questo è stato il momento più forte e più significativo di
quel conflitto: racchiude tutta la follia della guerra. Io penso che chi, come me,
si è salvato per miracolo da una situazione di morte e di distruzione, ha il dovere
di fare in modo che il mondo non viva più quell’orrore.
D.
– Ma lei poteva rifiutarsi di uccidere?
R. – Non
si poteva, perché la guerra ha un meccanismo molto strano: ci davano da fumare marijuana
e cose simili; quindi eravamo sotto l’effetto della marijuana e in questo stato, in
una situazione di guerra, si finisce per commettere sicuramente dei reati. La guerra,
quando inizia, diventa una cosa incontrollabile e porta sempre a dei massacri.
D.
– Ha mai avuto paura di morire?
R. – Ho vissuto molto
vicino con la morte, in quel periodo. Un mio amico è stato colpito, era qualche passo
dietro di me: lo ha colpito un ribelle appollaiato sull’albero. Avrebbe potuto prendere
me. Avrei voluto essere io al suo posto, perché una delle prime sensazioni che ho
avuto quando sono uscito era di chiedermi perché ero ancora vivo. Certamente ho avuto
spesso paura di morire!
D. – La violenza subita
ed inferta ad altri, le ha lasciato un segno nella vita?
R.
– Mi ha insegnato una grande lezione: la violenza è in noi, è dentro di noi. Dobbiamo
controllarla.
D. – In che modo ha superato il trauma
di essere stato bambino-soldato?
R. – Io ho avuto
una grande fortuna: quella di incontrare lungo la mia strada persone che mi hanno
aiutato. Io, oggi, ogni volta che vedo la violenza, rivivo le stesse identiche cose.
Ho imparato a convivere con il mio trauma.
D. – Oltre
al vescovo di Gulu, mons. Cipriano, chi l’ha aiutata ad uscire dal tunnel della guerra
e della morte?
R. – Ho fatto un’esperienza di comunità
cristiana: io sono spiritualmente figlio dei comboniani. Ho fatto un cammino spirituale
che mi ha aiutato moltissimo ad imparare anche a perdonarmi. Poi mi aiutato ad imparare
a perdonare anche gli altri. Così posso tentare di essere uno strumento per qualcosa
di positivo.