Le stime parlano di 250 mila soldati bambino nel mondo, ma potrebbero essere molti
di più. Il bilancio, tracciato dal rapporto che una coalizione di ONG ha stilato su
questo drammatico fenomeno, dimostra un leggero miglioramento della situazione per
la conclusione di alcuni conflitti, ma l’allarme resta alto: sono infatti almeno 24
i Paesi e i territori in cui si fa ricorso ai bambini nei combattimenti sia da parte
dei movimenti di guerriglia, sia da parte degli eserciti regolari. Particolarmente
drammatica è poi la situazione delle bambine rapite ed arruolate a forza, impiegate
nelle retrovie oltre che in prima linea e, il più delle volte, sfruttate sessualmente.
A descriverci la situazione è Fosca Nomis, portavoce della coalizione italiana
“Stop all’uso dei bambini soldato”, intervistata da Stefano Leszczynski:
R. –
Da quando abbiamo lanciato il precedente rapporto globale sui bambini soldato, quattro
anni fa, come coalizione italiana “Stop all’uso dei bambini soldato”, ci sono sicuramente
dei passi avanti. Innanzitutto è aumentato il numero dei Paesi che ha ratificato il
Protocolllo opzionale che praticamente impedisce l’arruolamento ai minori di 18 anni:
siamo arrivati a 120 Paesi che l’hanno ratificato quindi sono circa tre quarti dei
Paesi del mondo.
D. – Uno dei punti sui quali preme
molto il rapporto, è proprio il recupero dei bambini che sono stati arruolati negli
eserciti, che hanno combattuto…
R. – I programmi
"disarmo, smobilitazione, reinserimento” sono fondamentali perché sono quelli che
creano un ponte dalla vita negli eserciti, nei gruppi armati, ad una vita nuova, ad
una vita “normale”. Questi programmi, purtroppo, non sono sufficientemente finanziati
dalla comunità internazionale e hanno bisogno di tempo. Sono importanti perché consentono
un cambiamento nella propria vita anche alle bambine. Questa è una dimensione importante
perché il 40 per cento dei bambini soldato sono bambine; spesso hanno maggiore difficoltà
ad accedere a questi programmi perché non sono considerate bambine soldato perché
magari sono le compagne, le mogli di combattenti all’interno dei gruppi armati. Quindi,
diventa ancora più difficile per loro riuscire ad uscire dai gruppi armati e riuscire
ad accedere a questi programmi.
D. – Quali sono le
aree di conflitto che presentano una situazione più grave per quanto riguarda i bambini
soldato?
R. – Sicuramente ci preoccupano molto i
conflitti che sono ancora in corso nei Paesi africani, in particolare in Uganda; nonostante
il processo di pace sia stato avviato, sono ancora presenti molti bambini soldato
nella Repubblica Centro africana, nel Ciad, nel Sudan, ma anche in altri Stati: in
Colombia, in Sud America dove il conflitto è interno ma dove tantissimi sono i minori
che sono stati arruolati in particolare dalle Farc. E poi il fenomeno è presente anche
in Asia dove, nello Sri Lanka ad esempio, molti sono i minorenni che vengono arruolati;
tra l’latro l’Asia è una delle aree geografiche dove anche i governi arruolano i ragazzini
che hanno 12 anni, in particolare il Myanmar.
D.
– Come si può agire per contrastare il fenomeno in maniera concreta?
R.
– Sicuramente uno dei primi passi è quello di continuare a finanziare e sostenere
appunto i programmi di disarmo e mobilitazione e reinserimento che hanno visto comunque
una crescita, un miglioramento ma che non sono ancora oggi sufficienti. E’ necessario
inoltre fare in modo che quei Paesi che non hanno ancora ratificato il Protocollo
opzionale lo ratifichino in modo che il diritto di tutti i minorenni di non essere
arruolati al di sotto dei 18 anni, sia riconosciuto da tutti i Paesi.