Presentato a Cannes "Gomorra". La riflessione di don Minervino, parroco a Scampia
Calorosi applausi ieri al Festival di Cannes per il film "Gomorra", aspro e
tragico affresco di Matteo Garrone tratto dall’omonimo best-seller letterario di Roberto
Saviano. Napoli e i paesi limitrofi sotto la morsa della camorra sono osservati e
narrati attraverso l’intersecarsi di cinque episodi di ordinaria violenza in cui il
denaro e il potere distruggono la vita e la società. Il servizio di Luca Pellegrini:
Il
rumore dei soldi. L’odore del sangue. Nel regno della camorra, nella Gomorra partenopea,
è il denaro il veleno infernale che muove interessi e decisioni. In quella terra non
conta il sangue, la vita non vale nulla: con i cadaveri inizia il film che Matteo
Garrone trae dall’omonimo libro di Roberto Saviano, grandissimo successo editoriale
nato in sordina e arrivato al milione e duecentomila copie vendute. Nell’algida luce
di un centro benessere, all’inizio, mentre ci si cura il fisico e si lascia morire
l’anima, vite vengono spezzate per quella “necessità di uccidere i nemici e i traditori
vista come una trasgressione lecita”, così scrive Saviano nel più dolente degli undici
episodi che compongono la sua cantica infernale, quello dedicato a don Peppino Diana,
ovviamente eliminato nel 1994 per avere avuto una parola troppo affilata. E alla fine
i cadaveri di Marco e Ciro, due bulli incoscienti che ostacolano i ripetitivi meccanismi
del “sistema”, sono presi come rifiuti da una ruspa e portati chissà dove. Il magma
incandescente di queste micro-storie diventa, nelle immagini di Garrone e nell’accuratissima
articolazione del montaggio di Marco Spoletini, una fredda, autorevolmente distaccata
documentazione di vite nefande, azioni ignobili, violenze perpetrate e subite con
meccanica, quotidianità. Sceglie cinque episodi, per questione di tempi cinematografici,
i più universali e meno legati alla cronaca, e con una cesellatura e accuratezza chirurgica
li taglia e li cuce, intersecandoli senza che mai il filo della sutura possa incrinare
la tensione, ma anche suturare le piaghe infette. Attori professionali, Gianfelice
Imparato e Toni Servillo, affiancano i tanti volti ignoti di una città sotto assedio
e che pure vuole resistere e risorgere. Il grande pregio di Garrone è di tenersi distante
dall’emozione, dall’esibizione, finanche dalla politica e dalla cronaca. E’ un osservatore
attento e scrupoloso. La sua denuncia è semplicemente nei fatti che racconta non per
distruggere, ma sperare in una ricostruzione. Perché c’è anche, in questa Gomorra,
chi tenta di fuggire, di unirsi al grido di chi soffoca: Roberto, neo laureato di
belle speranze, non accetta che la vita di un operaio del Nord sia pagata con la vita
di una famiglia del Sud, che beve acqua inquinata dai rifiuti prodotti dal primo.
Ma è una goccia nel mare. E il suo allontanarsi da vivo viene subito sostituito, nelle
immagini livide e acerbe, dall’avvicinarsi di nuovi morti, cadaveri freschi. E non
solo eccellenti.
Ma come è stato accolto a Napoli questo
film? Sergio Centofanti lo ha chiesto a don Francesco Minervino, parroco
a Scampia, uno dei quartieri difficili della città:
R.
– Commentavamo fra sacerdoti, che ci faceva un po’ pensare come certe produzioni cinematografiche
e televisive del fenomeno camorra diventano un leit motiv nelle nuove generazioni.
E questo perchè i ragazzi, oggi come oggi ed almeno in questi territori, vengono colpiti
da queste immagini così forti e così immediate tanto da diventare poi modelli. Questo
film è una sorta di documentario e non ha un contenuto che apra alla speranza. E’
anche parziale, perchè in questi territori c’è anche tanta realtà positiva; ci sono
anche tanti altri ragazzi, giovani e giovanissimi, che con fatica entrano nella società
civile: c’è chi studia e per mantenersi agli studi deve lavorare; c’è chi raggiunge
un titolo di studio, ma non riesce ad inserirsi nel mondo lavorativo ed è costretto
quindi a lasciare la città. Ci sono tutti questi aspetti nella città che pagano purtroppo
la presenza della camorra, mentre invece mi sembra che questo film vuole sottolineare
soltanto quella presenza.
D. – Dunque lei dice che
si tratta di un film documentaristico, ma parziale…
R.
– E’ la realtà. Lo ripetiamo ancora: questa è la realtà e non è che la vogliamo nascondere.
Non siamo mai stati fra quelle persone che dicono che qui non è così. No, è così!
Ma cerchiamo un po’ di sostenere chi - ragazzi, giovani ed anche adulti molto impegnati
– cerca di dare forza a questa città. La visibilità che abbiamo, purtroppo, è sempre
sul negativo e questo ci rattrista molto, ci preoccupa e ci crea sempre imbarazzo,
come realtà ecclesiale e come sacerdoti: incontrando i ragazzi in queste domeniche
e nelle celebrazioni della Prima Comunione o in momenti di preparazione dell’estate
per gli oratori, siamo sempre messi in difficoltà e a disagio nel sostenere questi
ragazzi e questi giovani che cercano di dare il meglio, dando anche un volto diverso
alla città e a questi territori. Penso che deve essere data più forza a questi segnali
positivi, a queste occasioni, a queste situazioni.
D.
– Occorre, dunque, ridare speranza a Napoli. Un po’ come dice l’ultimo libro del cardinale
Sepe dal titolo “Non rubate la speranza”…
R. – Noi
viviamo con l’arcivescovo anche questa angoscia per la nostra città. E il titolo del
libro e’ diventato uno slogan forte: non rubatela, facciamo in modo che non venga
rubata la speranza in questa nostra città e in questa nostra terra. La speranza cristiana,
che è forse diversa dalla speranza che viene proposta dal mondo, è quella di non arrendersi
mai, è quella di andare oltre, è quella di saper attendere, è quella di dare forza
a quel lumicino che si accende in determinati momenti, il granello di senape del Vangelo.
Questa è per noi la speranza che deve essere oggi tutelata, conservata, difesa.