Gli incubi di un soldato plasmati in un fumetto surreale, i sogni di una giovane ribelle
trasfigurati dalla nascita di un figlio, i piccoli segreti di una famiglia che diventano
menzogne inconfessabili: con tre film complessi, che oscillano fra la disperazione
attonita e la speranza luminosa, il 61° Festival di Cannes apre i giochi della competizione
ufficiale. Il film più curioso e inclassificabile, “Waltz with Bashir” dell’israeliano
Ari Folman, si presenta con la bizzarra definizione di “documentario d’animazione”.
Di documentario in effetti ci sono soprattutto le testimonianze orali e le strazianti
immagini finali. Per il resto dei cartoni animati dal sapore di fumetto raccontano
la presa di coscienza di una nazione implicata in un delitto contro l’umanità. Tutto
parte da un sogno ricorrente, che ha il potere di fare emergere i ricordi rimossi
dei reduci della prima guerra del Libano. E tutto ci riconduce alla confessione di
una complicità con i falangisti libanesi, che del massacro di Sabra e Chatila furono
gli atroci protagonisti. Nel film, che resta sempre alla giusta distanza dalle cose,
le azioni sono trasfigurate dal ricordo, ma ancora ben vive e presenti, nelle cause
come negli effetti: la guerra come spettacolo, degli errori irreparabili, dei morti
casuali, delle carneficine deliberate, un’innocenza perduta per sempre. Meno cupo,
nonostante gli orrori carcerari che descrive, è l’argentino “Leonera” di Pablo Trapero,
storia di una giovane donna finita in prigione per omicidio, che trova la sua redenzione
attraverso la maternità. Tutto centrato su un’attrice che aderisce intimamente al
suo personaggio, il film evita i cliché, insiti in un’operazione che sfiora il genere;
e lo fa in maniera spesso sorprendente, lavorando su una dinamica dei sentimenti che
si fa strada a fatica e su un rapporto fra i personaggi, teso ad enunciare senza esitazioni
i conflitti morali che li abitano. Il film più esistenziale, per le rarefatte atmosfere
di vita che presenta, è tuttavia il turco “Three Monkeys” di Nuri Bilge Ceylan. L’autore
turco parte dai conflitti che scorrono sottopelle all’interno di un nucleo familiare,
per arrivare a raccontarci il disagio di una nazione che deve convivere con più anime.
Le tre scimmie del titolo, che non sentono, non vedono e non parlano, sono un padre,
una madre e un figlio. Lui accetta per denaro di prendersi una colpa non sua, lei
lo tradisce con l’uomo che lo paga, il ragazzo sfrutta la situazione per vivere in
un’apatica pigrizia. Le cose prenderanno la piega della tragedia, ma senza scuotere
minimamente nessuno. L’immagine che chiude il film è una delle più potenti da noi
viste al cinema: un uomo sopraffatto dalla colpa sul tetto di una casa, mentre la
tempesta avanza verso di lui. Una composizione dell’inquadratura che si fa metafora
del mondo. (Da Cannes, Luciano Barisone)