Di scena all'Auditorium Conciliazione a Roma lo spettacolo teatrale "Pietre urlanti"
sui massacri degli armeni del secolo scorso
Nella notte del 24 aprile di oltre 90 anni fa, circa 200 leader della comunità armena
furono arrestati ad Istanbul, allora capitale dell’Impero Ottomano. Per la comunità
armena fu l’inizio di un periodo drammatico segnato da deportazioni e violenze. Secondo
molti storici, dal massacro perpetrato contro quella che era considerata una minoranza
pericolosa per l’integrità dell’Impero Ottomano ormai vicino al tramonto, si salvò
solo chi riuscì a fuggire in Europa. In base a fonti indipendenti, sarebbero state
uccise più di un milione e mezzo di persone. Per ricordare quella tragedia, sono in
programma diverse iniziative: tra queste, oggi alle ore 19 all’Auditorium Conciliazione
con ingresso libero, l’opera teatrale “Pietre urlanti”, della regista armena Satenig
Gugiughian. Amedeo Lomonaco l'ha intervistata:
R. –
Ci tengo a precisare, anche se con una sorta di difficoltà, che è comunque una espressione
e uno spaccato della mia vita. E' quindi una storia vera: si tratta dell’incontro
fra una sorella ed un fratello che non si vedono da 15 anni, perchè lui è scappato
da quella casa in cui il peso della sofferenza era troppo grande. La sorella lo va
a recuperare per cercare di portarlo dal padre morente.
D.
– Cosa significa per una regista armena riproporre, con il linguaggio del teatro,
una ferita così profonda della storia del popolo armeno, ma anche della propria storia
personale?
R. – Significa aver avuto un momento di
grande coraggio, perchè parlare di sé non è facile: è anzi molto doloroso. Credo,
però, che sia fondamentale per tutti noi, figli di sopravvissuti, salvaguardare la
memoria: dobbiamo uscire allo scoperto e parlare pubblicamente, rischiando anche l’ira
di chi non vuole sentire queste cose. L’importante è tirare fuori il coraggio. La
gente è ora che sappia.
D. – A proposito di questo
coraggio dell’esporsi, quali sono gli ostacoli e le potenzialità nel rappresentare
la storia di un popolo attraverso il teatro?
R. –
Talvolta una bugia, che non è la storia, ma è la spettacolarizzazione della storia,
può avere più enfasi che un comunicato stampa. Il mondo è fatto così: ha bisogno di
immagini! Non potendo proiettare le immagini del genocidio, perchè crude o perchè
non tutte esistenti, credo che la forma spettacolo-cinema-teatro debba assolutamente
avere più spazio.
D. – Anche alla luce di questi
spazi, come è cambiato – se è cambiato - negli anni il modo di raccontare queste vicende
drammatiche nel mondo culturale armeno?
R. – Più
passano gli anni, più questo genocidio non viene riconosciuto e più diventiamo armeni.
E’ incredibile questo. Io sono molto più armena oggi di quanto non fossi stata da
bambina, anche se sono cresciuta non con le favole, ma con questi racconti. Sono stata,
quindi, imbevuta di questa storia: ne è intriso ogni centimetro della mia pelle e
del mio essere. Col passare degli anni e, specialmente dalla morte di mio padre, è
come se si ribellasse qualcosa in me. Avendo questo stato d'animo, c’è la voglia di
urlare al mondo: “Siamo armeni e lo resteremo”.
D.
– Quali sono le ferite più laceranti che non si riescono a curare, anche dopo 90 anni?
R.
– La ferita che resta è sempre quella: non si può rimarginare una ferita di questo
genere e specialmente quando non è riconosciuta. Se fosse riconosciuta, il dolore
resterebbe intatto, ma il sangue dei nostri genitori non sanguinerebbe più, avrebbero
pace. La negazione è un omicidio premeditato ogni volta. Il riconoscere non modifica
la situazione o il dato di fatto, ma farebbe nascere la sensazione di aver ricevuto
un atto di dovuto rispetto.