Il bilancio della Conferenza su "Educazione interculturale e pluralismo religioso",
promossa dal dicastero vaticano dell'Educazione cattolica. Il commento del prof. Michele
De Beni
Oltre 70 partecipanti, più di 10 Paesi rappresentati, 4 sessioni di lavoro: con questi
numeri, si è conclusa ieri a Roma la Conferenza internazionale sul tema “Educazione
interculturale e pluralismo religioso”. L’evento è stato organizzato dalla Congregazione
per l’Educazione Cattolica, insieme all’Associazione cattolica internazionale degli
Istituti di Scienze dell’Educazione. Ma cosa è emerso dal convegno? Isabella Piro
lo ha chiesto ad uno dei relatori, il prof. Michele De Beni, pedagogista e
docente presso l’Università di Trento:
R. - Mi sembra
sia nata la convinzione che occorre creare una rete molto più profonda e molto più
estesa oggi, in quanto le singole iniziative se non avvalorate dalla comunicazione,
dalla relazione con altre iniziative... Rischiavamo di pensare di essere noi al centro
dei cambiamenti, mentre oggi nella globalizzazione i cambiamenti devono essere globali
e quindi avere più raggio di influenza possibile anche nei media, nell’opinione pubblica.
Oggi, c’è bisogno anche di questa mondializzazione del positivo.
D.
- Se noi dovessimo preparare un progetto per una scuola, un progetto interculturale,
su quali punti si dovrebbe basare?
R. - Un primo
punto è un’opzione di valore. Noi sappiamo che non c’è nulla di più grande, più degno
di valore che imparare e vivere l’amore reciproco, la reciprocità. E questa è un’opzione
di valore che non può essere barattata con altri pseudo valori, tipo convivenza, tipo
rispetto semplicemente come distacco dall’altro. E’ un qualcosa che ci coinvolge,
che ci interpella nella reciprocità. Una seconda grande area riguarda la capacità
di pensare, la capacità di conoscere, ma con le categorie classiche del pensiero,
che sa secernere, sa capire, sa distinguere, sa unire anche ciò che conosce, ciò di
cui viene informato. Un’altra area che mi sembra decisamente importante è la costituzione
e la creazione di comunità educative, dove gli adulti per primi diano la testimonianza
di persone in dialogo tra loro, in comunione tra loro.
D.
- La Conferenza ha raccolto anche testimonianze di esponenti religiosi musulmani ed
ebrei. Da questo punto di vista, in particolare, cosa si può fare secondo lei per
il dialogo?
R. - Il dialogo ha tante vie. Anzitutto,
l’incontro materiale, fisico, tra le persone, spinto fino a che non si conosce realmente
l’altro, non in senso virtuale, ma in senso sociale, in senso affettivo, in senso
intellettuale: probabilmente, noi dell’altro ci faremmo solo un’immagine o stereotipata
o negativa, che spesso è la fonte dei primi pregiudizi, dei razzismi e delle varie
violenze. La seconda via riguarda il fatto che non mi sembra sia sufficiente incontrare
l’altro, ma è importante che questo incontro abbia un senso profondo. E ciò viene
dal mettere in comune quella che viene chiamata la "regola d’oro" che dice di “fare
agli altri ciò che vorresti fosse fatto a te” con la reciprocità. La reciprocità non
è un’andata e un ritorno automatico: è essenzialmente un amare per primi.