Il 7 aprile, il Papa in preghiera sulle tombe dei Martiri del nostro tempo, all'Isola
Tiberina. Da oggi e nei prossimi giorni, cerimonie in memoria di mons. Romero
Una sosta in preghiera sulle tombe dei testimoni che hanno pagato col sangue, nella
nostra epoca, la loro fedeltà al Vangelo. La compirà Benedetto XVI il prossimo 7 aprile
nel Santuario Memoriale dei Martiri del Nostro Tempo, che dal 2002 sorge a Roma, sull’Isola
Tiberina, per volontà di Giovanni Paolo II che ne affidò la realizzazione e la cura
alla Comunità di Sant’Egidio da Giovanni Paolo II. Tra le reliquie ospitate dal mausoleo
vi sono, tra le molte, quelle dell’arcivescovo di San Salvador, Oscar Arnulfo Romero,
ucciso il 24 marzo di 28 anni fa. Alla memoria del presule - e a quella di Marianella
Garcia Villas, fondatrice della Commissione per i diritti umani, assassinata 25 anni
fa - sono dedicate alcune iniziative che inizieranno nel pomeriggio di oggi con la
proiezione di un film sulla sua figura dello stesso mons. Romero e avranno nella celebrazione
ecumenica di domani, nella Chiesa di San Marcello al Corso, uno dei momenti più significativi.
Alessandro De Carolis ricorda in questo servizio la figura e l’opera di mons.
Romero:
(musica)
“Debe
prevalecer la ley de Dios que dice: ‘No matar!’… Deve prevalere la legge
di Dio che dice ‘non uccidere!’. (applausi) Nessun soldato è obbligato ad obbedire
ad un ordine che sia contro la legge di Dio”. Il microfono
che ha catturato queste parole e l’entusiasmo di che le accoglie e si sente scaldare
il cuore non sa che chi le ha pronunciate ha firmato la propria condanna a morte.
Il giorno dopo, fra un mese, fra un anno, non importa: qualcuno ha già deciso di inquadrare
nel mirino un uomo coraggioso, diventato uno scomodo nemico dell’impunità e di quei
poteri che la spalleggiano. Quell’uomo è Oscar Arnulfo Romero, è arcivescovo di San
Salvador ed è stato malgiudicato da chi comanda: pareva un ecclesiastico remissivo
e tradizionalista e si è trasformato in un megafono martellante, che reclama diritti
e terra per i contadini, scuole e sanità per le loro famiglie, e giustizia: giustizia
per un Paese dove qualche milione di abitanti è “ostaggio” di una trentina di famiglie,
che usano l’esercito per tutelare i propri privilegi e permettono di massacrare chi
alza la voce in difesa dei poveri.
“En el nombre
de Dios... In nome di Dio e in nome di questo popolo sofferente, i cui lamenti
salgono fino al cielo ed ogni giorno sempre più tumultuosi, vi supplico, vi prego,
vi ordino - in nome di Dio - che cessi la repressione!” (applausi)
Quell’uomo
con la tonaca, i grandi occhiali e lo zucchetto color porpora deve morire, stabiliscono
un giorno i poteri forti. Devono tacere le sue omelie incessanti, le sue denunce continue,
tante e più delle violenze che continuano a insanguinare El Salvador, portando la
morte fin dentro le chiese. Ed è esattamente questo che succede il 24 marzo 1980.
Mons. Romero sta celebrando la Messa delle 18. Nell’ombra in fondo alla Chiesa, un
uomo prende con cura la mira inquadrando il vescovo che alza il calice. “In
questo Calice - sta dicendo il vescovo - il vino diventa sangue che è stato il prezzo
della salvezza. Possa questo sacrificio di Cristo darci il coraggio di offrire il
nostro corpo e il nostro sangue per la giustizia e la pace del nostro popolo. Questo
momento di preghiera ci trovi saldamente uniti nella fede e nella speranza”. Poi due
colpi sordi rimbombano nel silenzio e il sangue del sacrificio di Cristo si mescola
a quello di un nuovo martire.
Tre anni dopo la sua tragica
morte, Giovanni Paolo II si recò a pregare sulla tomba di mons. Romero, durante il
suo terzo viaggio apostolico in America Latina. Nel 1997, venne aperta la Causa di
Beatificazione che ha il suo postulatore nel vescovo di Terni-Narni-Amelia, Vincenzo
Paglia, che ricorda così, al microfono di Emanuela Campanile, la figura
del presule salvadoregno:
R. -
Mons. Romero resta per me un grande pastore, che si è consumato sulle Scritture, sui
Padri e sul pianto per il suo popolo travagliato da una guerra assurda ... Lui non
sapeva tanto di politica, non sapeva quasi nulla di marxismo; si è trovato in una
situazione tra due parti estreme, e cioè la guerriglia e gli squadroni della morte
salvadoregni, che tenevano in schiavitù l’intero popolo del Salvador. E Romero si
è scagliato contro ogni violenza sia quella della destra che quella della sinistra.
Pensava di poter risolvere questo problema con la predicazione e con la presentazione
della Dottrina sociale della Chiesa. La predicazione di questa dottrina era per lui,
come dire, da una parte troppo aperta per la destra, e veniva accusato di comunista;
dall’altra, era troppo tradizionale per la guerriglia e veniva accusato di tradimento.
Ma Romero non ha tradito il suo popolo e neppure il Vangelo e neppure la Chiesa o
il suo Magistero. Questo pastore, ucciso – come sottolineò Giovanni Paolo II nella
celebrazione dei nuovi martiri al Colosseo, nel 2000 – uno che è stato ucciso sull’altare
mentre celebrava la Messa, al momento dell’Offertorio.
D.
– Mons. Paglia, c’è un legame fortissimo tra giustizia e pace, un legame che mons.
Romero sottolineava spessissimo ...
R. – Questo legame,
mons. Romero lo sottolineava a partire anzitutto dai testi del Concilio, poi dal Magistero
e nel suo impegno pastorale lui comprese che la Chiesa – non solo in America Latina
– doveva annunciare il Vangelo su questa via: della giustizia e della pace, sapendo
che questi due termini si legano se si riesce a partire dall’attenzione ai più poveri
e ai più deboli, come appare in tutte le pagine della Scrittura.