L'Iraq a 5 anni dall'intervento USA. Il nunzio: con le armi non si costruisce la pace
Sono passati cinque anni dall’intervento militare anglo-americano in Iraq e la crisi
umanitaria nel Paese del Golfo resta tra le più critiche al mondo. I terroristi continuano
a lanciare proclami contro l’occidente: in un nuovo messaggio il capo di Al Qaeda,
Osama Bin Laden, annuncia “una grave punizione” per l’Europa e attacca anche il Papa.
“Queste accuse – ha detto il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico
Lombardi – non sono una novità e non stupiscono”. Ma è del tutto infondata – ha aggiunto
– “l’accusa specifica di coinvolgimento” in una campagna di derisione dell’islam per
la vicenda delle vignette satiriche contro Maometto. Il Papa ed il Pontificio Consiglio
per il dialogo interreligioso – ha ricordato padre Lombardi – hanno biasimato in più
di una occasione la campagna satirica contro l’islam. L’Iraq, intanto, è ancora un
Paese frammentato, devastato da violenze e fragilità. Il servizio di Amedeo Lomonaco:
La violenza
in Iraq ha distrutto famiglie, cancellato interi villaggi, sconvolto regioni: dal
2003 ad oggi, sono rimasti uccisi almeno 150.000 uomini iracheni. Le vedove sono più
di 70.000 e centinaia di migliaia di bambini sono orfani. Molti di loro sperimentano
drammatiche realtà come la malnutrizione, l'assenza di cure nella malattia e la mancanza
di istruzione. C’è un Iraq che non riesce a crescere e comunità che non riescono a
convivere: Baghdad è oggi un insieme di ghetti sunniti e sciiti. Nonostante tutto,
il governo iracheno cerca di promuovere un percorso democratico e le forze statunitensi
tentano di garantire maggiore sicurezza. Ma in questo pantano iracheno a lievi miglioramenti
si alternano stragi e attacchi kamikaze. Da parte loro gli Stati Uniti piangono la
morte di quasi 4 mila soldati. Alle perdite si aggiungono anche altri costi pesantissimi:
si stima che le operazioni militari nel Paese arabo costeranno complessivamente all’amministrazione
americana oltre 3 mila miliardi di dollari. Il ritratto è anche quello di un
Paese che si svuota: sono almeno 4 milioni e mezzo gli iracheni costretti ad abbandonare
le loro case per sfuggire a violenze e miseria. Le carceri irachene, invece, sono
piene: nel 2007 i prigionieri erano più di 51 mila. Tra questi più di 1350 sono minori,
detenuti in drammatiche condizioni.
E sulla situazione in Iraq ascoltiamo,
al microfono di Amedeo Lomonaco, il nunzio apostolico a Baghdad, mons.
Francis Chullikat:
R.
– Dopo l’intervento militare del 20 marzo del 2003, l’Iraq sta ancora in ansiosa attesa
della pace. La violenza e il conflitto settario purtroppo continuano. Con il passare
degli anni sembra che la Santa Sede abbia avuto ragione: con le armi non si costruisce
la pace; la pace si costruisce con la libertà, fondamentale per le persone, e con
la convivenza pacifica tra i popoli.
D. – Eccellenza,
questo seme della pace che sta diffondendo la Chiesa in Iraq sta germogliando?
R.
– Sta germogliando ad un passo molto lento, perchè la riconciliazione della società
irachena è ancora in corso; si sta cercando di promuoverla specialmente tramite l’intervento
delle organizzazioni internazionali e dei vari gruppi religiosi presenti nel Paese.
La Chiesa cattolica sta dando un contributo molto significativo, mettendosi in contatto
e in dialogo con varie comunità musulmane del Paese. Lo stesso governo sta apprezzando
questo contributo concreto. Soltanto cercando di costruire un’armonia e una convivenza
tra i vari gruppi, le etnie, le culture e le religioni, è possibile costruire una
pace duratura nel Paese.
Alla storia del conflitto iracheno,
durato poche settimane, sono seguiti scontri e attacchi con conseguenze drammatiche.
Salvatore Sabatino ha chiesto un bilancio di questi 5 anni a Lorenzo Cremonesi,
inviato del quotidiano “Il Corriere della Sera”:
R.
– Dopo una guerra rapida, con poche vittime, è poi seguito un tragico dopoguerra.
E’ stato un dopoguerra non pianificato: non si è pensato allo smantellamento dell’intero
regime baathista, dell’esercito e della polizia. Si è scambiato il grande saccheggio
di Baghdad per un segno di libertà ed invece era segno di caos, l’inizio di una guerra
civile strisciante. Non si è approfittato di quei primi mesi dopo la guerra, quando
ci fu una relativa calma: c’era spazio per poter costruire un Iraq pacifico, per poter
cercare di incominciare un percorso di democrazia. Rimane un bilancio negativo.
D.
– La crisi umanitaria in Iraq resta tra le più critiche al mondo: a sostenerlo, il
Comitato internazionale della Croce Rossa in un rapporto reso noto proprio in queste
ore. Come risolvere la crisi umanitaria di questo Paese?
R.
– Il grosso problema è un problema di accesso; un Paese come l’Iraq deve comunque
poter essere in grado di marciare con le proprie gambe e – non dimentichiamolo – ci
sono delle zone in cui uno sciita non può mettere piede, in cui un sunnita non può
entrare, in cui un curdo non può andare ... Quindi, rimane un Paese estremamente frazionato.
Finché non si crea la pace civile, finché non si crea un ambiente agibile, le organizzazioni
umanitarie non possono muoversi. E poi, naturalmente, ci sono le difficoltà per la
Croce Rossa Internazionale, per le ONG internazionali, per le stesse Nazioni Unite:
non dimentichiamo che, dal gravissimo attentato dell’agosto 2003, quindi pochi mesi
dopo l’invasione, le Nazioni Unite praticamente non ci sono più. Condizione necessaria
e minima perché si possa parlare di un miglioramento delle condizioni di vita, è quella
di vincere il terrorismo.