2008-03-20 15:08:43

L'Iraq a 5 anni dall'intervento USA. Il nunzio: con le armi non si costruisce la pace


Sono passati cinque anni dall’intervento militare anglo-americano in Iraq e la crisi umanitaria nel Paese del Golfo resta tra le più critiche al mondo. I terroristi continuano a lanciare proclami contro l’occidente: in un nuovo messaggio il capo di Al Qaeda, Osama Bin Laden, annuncia “una grave punizione” per l’Europa e attacca anche il Papa. “Queste accuse – ha detto il direttore della Sala Stampa vaticana, padre Federico Lombardi – non sono una novità e non stupiscono”. Ma è del tutto infondata – ha aggiunto – “l’accusa specifica di coinvolgimento” in una campagna di derisione dell’islam per la vicenda delle vignette satiriche contro Maometto. Il Papa ed il Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso – ha ricordato padre Lombardi – hanno biasimato in più di una occasione la campagna satirica contro l’islam. L’Iraq, intanto, è ancora un Paese frammentato, devastato da violenze e fragilità. Il servizio di Amedeo Lomonaco:RealAudioMP3


La violenza in Iraq ha distrutto famiglie, cancellato interi villaggi, sconvolto regioni: dal 2003 ad oggi, sono rimasti uccisi almeno 150.000 uomini iracheni. Le vedove sono più di 70.000 e centinaia di migliaia di bambini sono orfani. Molti di loro sperimentano drammatiche realtà come la malnutrizione, l'assenza di cure nella malattia e la mancanza di istruzione. C’è un Iraq che non riesce a crescere e comunità che non riescono a convivere: Baghdad è oggi un insieme di ghetti sunniti e sciiti. Nonostante tutto, il governo iracheno cerca di promuovere un percorso democratico e le forze statunitensi tentano di garantire maggiore sicurezza. Ma in questo pantano iracheno a lievi miglioramenti si alternano stragi e attacchi kamikaze. Da parte loro gli Stati Uniti piangono la morte di quasi 4 mila soldati. Alle perdite si aggiungono anche altri costi pesantissimi: si stima che le operazioni militari nel Paese arabo costeranno complessivamente all’amministrazione americana oltre 3 mila miliardi di dollari. Il ritratto è anche quello di un Paese che si svuota: sono almeno 4 milioni e mezzo gli iracheni costretti ad abbandonare le loro case per sfuggire a violenze e miseria. Le carceri irachene, invece, sono piene: nel 2007 i prigionieri erano più di 51 mila. Tra questi più di 1350 sono minori, detenuti in drammatiche condizioni.

E sulla situazione in Iraq ascoltiamo, al microfono di Amedeo Lomonaco, il nunzio apostolico a Baghdad, mons. Francis Chullikat: RealAudioMP3


R. – Dopo l’intervento militare del 20 marzo del 2003, l’Iraq sta ancora in ansiosa attesa della pace. La violenza e il conflitto settario purtroppo continuano. Con il passare degli anni sembra che la Santa Sede abbia avuto ragione: con le armi non si costruisce la pace; la pace si costruisce con la libertà, fondamentale per le persone, e con la convivenza pacifica tra i popoli.

 
D. – Eccellenza, questo seme della pace che sta diffondendo la Chiesa in Iraq sta germogliando?

 
R. – Sta germogliando ad un passo molto lento, perchè la riconciliazione della società irachena è ancora in corso; si sta cercando di promuoverla specialmente tramite l’intervento delle organizzazioni internazionali e dei vari gruppi religiosi presenti nel Paese. La Chiesa cattolica sta dando un contributo molto significativo, mettendosi in contatto e in dialogo con varie comunità musulmane del Paese. Lo stesso governo sta apprezzando questo contributo concreto. Soltanto cercando di costruire un’armonia e una convivenza tra i vari gruppi, le etnie, le culture e le religioni, è possibile costruire una pace duratura nel Paese.

 
Alla storia del conflitto iracheno, durato poche settimane, sono seguiti scontri e attacchi con conseguenze drammatiche. Salvatore Sabatino ha chiesto un bilancio di questi 5 anni a Lorenzo Cremonesi, inviato del quotidiano “Il Corriere della Sera”: RealAudioMP3


R. – Dopo una guerra rapida, con poche vittime, è poi seguito un tragico dopoguerra. E’ stato un dopoguerra non pianificato: non si è pensato allo smantellamento dell’intero regime baathista, dell’esercito e della polizia. Si è scambiato il grande saccheggio di Baghdad per un segno di libertà ed invece era segno di caos, l’inizio di una guerra civile strisciante. Non si è approfittato di quei primi mesi dopo la guerra, quando ci fu una relativa calma: c’era spazio per poter costruire un Iraq pacifico, per poter cercare di incominciare un percorso di democrazia. Rimane un bilancio negativo.

 
D. – La crisi umanitaria in Iraq resta tra le più critiche al mondo: a sostenerlo, il Comitato internazionale della Croce Rossa in un rapporto reso noto proprio in queste ore. Come risolvere la crisi umanitaria di questo Paese?

 
R. – Il grosso problema è un problema di accesso; un Paese come l’Iraq deve comunque poter essere in grado di marciare con le proprie gambe e – non dimentichiamolo – ci sono delle zone in cui uno sciita non può mettere piede, in cui un sunnita non può entrare, in cui un curdo non può andare ... Quindi, rimane un Paese estremamente frazionato. Finché non si crea la pace civile, finché non si crea un ambiente agibile, le organizzazioni umanitarie non possono muoversi. E poi, naturalmente, ci sono le difficoltà per la Croce Rossa Internazionale, per le ONG internazionali, per le stesse Nazioni Unite: non dimentichiamo che, dal gravissimo attentato dell’agosto 2003, quindi pochi mesi dopo l’invasione, le Nazioni Unite praticamente non ci sono più. Condizione necessaria e minima perché si possa parlare di un miglioramento delle condizioni di vita, è quella di vincere il terrorismo.







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