La difficile missione dei Gesuiti: intervista con il nuovo preposito generale padre
Adolfo Nicolás
A conclusione della 35.ma Congregazione generale della Compagnia di Gesù, il nuovo
preposito generale dei Gesuiti, il padre spagnolo Adolfo Nicolás, ha concesso
un’intervista in esclusiva alla nostra emittente e all’Osservatore Romano. Il 29.mo
successore di Sant’Ignazio, al microfono di Roberto Piermarini e Marco Bellizi,
ripercorre le linee emerse dalla Congregazione che dopo due mesi di lavori si è conclusa
la settimana scorsa: D. – Padre Nicolás lei ha definito la trentacinquesima
Congregazione Generale, appena conclusa, una straordinaria esperienza di unità. Come
si è manifestata questa unità?
R. – L’unità è stata
un fatto evidentissimo e nello stesso tempo, forse, abbiamo sperimentato questa volta
la diversità più grande nella storia della Compagnia: erano rappresentati praticamente
tutti i Paesi dove ci sono i Gesuiti. Ma vi è stata l’esperienza di aver trovato una
profonda comunicazione degli uni con gli altri. Ho visto un olandese parlare con un
brasiliano in tedesco perché era l’unica lingua comune a tutti e due. E poi la preghiera.
Abbiamo avuto questa volta una liturgia preparata molto bene: con musica, silenzi
e si è sentita l’unità di tutti nel silenzio, nel canto. È tradizione dire che i Gesuiti
non cantano, il gesuita non canta, ma questa volta abbiamo cantato. E bene... E allora
il senso di formare insieme un unico corpo è stato molto grande. E poi ancora i giorni
dell’elezione del Generale sono giorni molto intensi.
D.
– La Congregazione ha rinnovato l’impegno preferenziale della Compagnia di Gesù per
la missione alla frontiera – frontiera della fede, della scienza, dell’uomo – qual
è l’identikit del gesuita del Terzo Millennio che emerge dai vostri lavori?
R.
– Direi che in questa Congregazione abbiamo trovato che l’immagine, l’identikit dei
gesuiti, che noi pensiamo e desideriamo, è l’immagine di uomini consapevoli di essere
chiamati a una missione difficile. È diventato più difficile per la Chiesa oggi essere
nel mondo, dialogare con il mondo e rispondere alla chiamata del Papa che si attende
che siamo uomini che andiamo alle frontiere: le frontiere della cultura, della scienza,
dell’ateismo, delle altre religioni, tutte le frontiere. Allora diventare gesuita
– è sempre stato difficile – ma oggi lo diventa ancora di più. È una missione difficile
per la quale c’è bisogno di una totale disponibilità e poi di una nuova e impegnativa
mobilità. Ne abbiamo discusso, e anche io ho chiesto ai Provinciali, ai Superiori
di rendere questa mobilità normale nella Compagnia, che non riguardi soltanto un gruppetto
di missionari, che vanno fuori a fare dei loro Paesi, ma tutti. Dovrebbe essere normale
per noi andare in un altro Paese almeno per un certo periodo di servizio o per essere
formati meglio in una visione internazionale della Chiesa, del mondo e di noi stessi.
Per questo – come ci detto anche il Papa – è un impegno che ci porterà difficoltà
a cui dobbiamo essere pronti. Difficoltà per la propria reputazione, perché forse
ci criticheranno, troveremo malintesi, dovremo lasciare il nostro comfort, la facilità
di essere a casa e parlare sempre nella nostra lingua... Ma credo che questo sia qualcosa
che è necessario per il servizio alla Chiesa. Come diceva ancora Benedetto XVI riferendosi
a sant’Ignazio, i gesuiti devono essere persone che non sono mai contente della mediocrità.
D. – Quali problemi e insidie possono nascere per
un religioso dall’operare – appunto – al confine?
R.
– Direi tutti i problemi possibili... Il primo problema è che dobbiamo imparare una
nuova maniera di guardare il mondo, di vedere le cose e poi di parlare. Ci sono tutti
i problemi che sono collegati al linguaggio. I problemi della distanza dal centro,
per cui qualcuno a volte pensa che siamo pericolosi, e poi problemi anche personali
perché andare alle frontiere e vedere come vivono gli altri, coloro che sono al di
là delle frontiere alle volte può essere impegnativo. Però può essere anche molto
interessante e attraente perché c’è sempre molto di buono nelle altre persone, nelle
altre culture, nelle altre religioni. Per questo per andare alle frontiere c’è bisogno
di gente con una fede molto profonda, ben radicata e coltivata. In questo contesto
il senso di essere un corpo, il senso di Compagnia – che non a caso è il nostro nome
– è importante.
D. – Quali temi di vita religiosa
sono stati approfonditi maggiormente nella Congregazione? Le chiedo anche perché e
in che senso avete dedicato un documento specifico all’obbedienza?
R.
– I temi che abbiamo trattato era stati nella massima parte già preparati prima. Un
primo tema che abbiamo trattato è stato quello del governo dell’Ordine. Perché se
siamo in un mondo globalizzato, un mondo così pluralista e così interconnesso – adesso
sono le reti che hanno importanza – allora abbiamo bisogno di un sistema di governo
che sia adatto a questo tempo. Questo è stato un tema. Poi, la nostra collaborazione
con gli altri, laici, religiosi, e così via. Poi, soprattutto – come in quasi in tutte
le nostre Congregazioni Generali – abbiamo svolto una riflessione sulla missione.
Come aggiornare la nostra missione. Oggi, in questo contesto, come riaffermare la
nostra identità? La nostra missione oggi tocca la nostra identità e la conferma, o
la mette in pericolo e come? Questi sono i temi fondamentali. E poi abbiamo trattato
dell’obbedienza. Perché? Le ragioni principali sono due. Una che lo stesso Benedetto
XVI ci aveva invitato a riflettere sull’obbedienza, e l’altra che nelle Congregazioni
recenti, da venti anni a questa parte, abbiamo riflettuto con una certa profondità
sulla povertà, sulla castità, ma non avevamo aggiornato le nostre riflessioni sull’obbedienza
nel contesto di oggi.
D. – A questo proposito, perché
avete redatto una dichiarazione di accoglienza della lettera inviatavi dal Papa, visto
che l’obbedienza al Successore di Pietro è un segno distintivo della vostra Compagnia?
E anche: da dove nasce l’impressione che è presente in alcuni ambienti cattolici,
di una eccessiva autonomia dell’Ordine dalle gerarchie ecclesiastiche?
R.
– Questa dichiarazione di risposta al Papa è parte di un dialogo. Un dialogo che esiste
fin dall’inizio della storia della Compagnia, da sant’Ignazio, e ho dovuto continuarlo
anch’io. Quando uno viene eletto Generale, la prima cosa che fa è andare a salutare
il Romano Pontefice e rinnovare i voti davanti a lui. Anche io l’ho fatto e Benedetto
XVI è stato un po’ sorpreso, perché prima non lo sapeva, ma ne è stato contento. Anche
come Congregazione ci siamo impegnati a riflettere sul nostro rapporto di servizio
al Papa; abbiamo riflettuto ed abbiamo redatto questa dichiarazione nella quale riaffermiamo
che il nostro carisma è un carisma di servizio nella Chiesa. Non siamo una Chiesa
parallela e non siamo una Chiesa nella Chiesa: siamo parte della Chiesa, un piccolo
gruppo che cerca di servire. Abbiamo voluto riaffermare questo. Questo è essenziale
nella nostra vocazione. Quindi, naturalmente abbiamo voluto riaffermare la comunione
con il Pontefice. Perché l’abbiamo fatto così esplicitamente? Perché qualcuno nella
Chiesa si pensa che noi non siamo così leali, così obbedienti. Credo che questo sia
inevitabile. Per me non è un problema che la gente pensi così. Sarebbe un problema
se questo corrispondesse al vero. Dico che in certa misura è inevitabile perché siamo
alle frontiere. E anche il Papa nell’udienza del 21 febbraio ci ha invitato a continuare
ad andare alle frontiere. Ci ha ricordato come modelli storici quei gesuiti che sono
andati alle frontiere, hanno aperto strade nuove.
D.
– La Compagnia di Gesù si trova di fronte ad un calo di vocazioni, soprattutto in
Europa e nel Nord America. Come pensate di affrontarlo?
R.
– La questione delle vocazioni è vera. Sono numeri, sono dati. Però, credo che sia
un problema che bisogna comprendere nel suo insieme. Non solo i religiosi, non solo
i gesuiti hanno il problema delle vocazioni: ci sono stati cambiamenti molto radicali
nel mondo in cui viviamo. C’è un cambiamento sociologico: adesso, nei Paesi tradizionalmente
cattolici, come l’Italia, la Spagna, le famiglie non hanno figli, ne hanno uno, due
e con grandi difficoltà. A casa, noi eravamo quattro e in molte famiglie di gesuiti
che io conosco erano quattro, cinque, dodici, tredici fratelli. Adesso, invece, un
figlio solo: è molto più difficile lasciare che l’unico figlio vada a farsi religioso,
si faccia prete, gesuita! Questo è un cambiamento sociologico che certamente influisce
sulle vocazioni. Poi, ci sono cambiamenti ecclesiologico, come è risaputo. Dopo il
Vaticano II, ci sono molte vocazioni laiche. La vocazione laica, oggi, viene considerata
come una vera vocazione, una vocazione profonda, una vocazione in cui la persona può
impegnarsi completamente, per tutta la vita. Allora, per essere un buon cristiano
non è necessario essere prete, religioso. E questo, naturalmente, tocca il discernimento
dei giovani quando vogliono scegliere la loro vita. Poi, ci sono i cambiamenti demografici:
i figli ci sono al Sud, o nei Paesi poveri, e per questo abbiamo più vocazioni a Timor
che in Spagna. In Timor sono poveri, hanno famiglie ancora abbastanza numerose, cercano
la possibilità di ricevere un’educazione, la motivazione a volte può essere quindi
un po’ ambigua e per questo noi insistiamo da molto tempo già, da prima del Vaticano
II, sulla motivazione e compiamo una selezione abbastanza rigorosa delle vocazioni.
Non tutti quelli che vogliono entrare nella vita religiosa hanno vocazione. Io sono
convinto di questo. Quello che importa è la purezza della motivazione. Il problema
non è moltiplicarsi o sopravvivere, il problema è vivere: come vivere coerentemente
con la nostra vocazione. Credo che sia meglio “pochi e buoni” piuttosto che molti
che diventano turba, “massa”, come diceva sant’Ignazio.
D.
– Quali sono state le linee indicate dalla Congregazione rispetto proprio alla relazione
di collaborazione con gli altri, per usare una vostra definizione, in particolare
con i laici?
R. – Su questo punto non c’è molto progresso.
Chi andrà a leggere i documenti troverà che alcune cose erano già state dette. Quello
che abbiamo fatto è continuare nella linea già aperta precedentemente, riaffermare
quello che era stato detto dalla Congregazione precedente. La trentaquattresima Congregazione
era stata molto diretta nell’affrontare questa questione, e noi l’abbiamo riaffermata
e vogliamo continuare su questa linea, chiarire alcuni punti e approfondirne altri.
Quello che noi abbiamo sottolineato è che vogliamo continuare con un’affermazione
chiara dell’identità delle opere nelle quali collaboriamo. Perché questo a volte si
può un po’ perdere: l’abbiamo sperimentato non soltanto in Asia, dove è più facile
perché molti dei nostri collaboratori non sono cristiani.
D.
– Benedetto XVI insiste molto sul rapporto fra la fede e la ragione, sulla profondità
del dialogo con le culture. Quali linee avete indicato per l’apostolato intellettuale
così caratteristico della tradizione della Compagnia di Gesù?
R.
– A me personalmente piace riformulare il lavoro intellettuale in termini di profondità.
Non è soltanto ricerca, non si tratta soltanto di scrivere libri, non è soltanto il
fatto di lavorare in una università, ma è necessario andare in profondità, in tutte
le questioni. Adesso il problema demografico e vocazionale dei giovani, comporta un
cambiamento nella Compagnia, perché coloro che entrano non lo fanno più come ho fatto
io a diciassette anni. A quel tempo era normale, finita la scuola, entrare nella Compagnia.
Adesso, invece, facciamo aspettare e questo per dare ai giovani una opportunità di
discernere, per dare loro la possibilità di fare una scelta più seria. Questo, però,
ci porta delle difficoltà: perché arrivano più “anziani”, non certo anziani veramente,
ma più maturi. È difficile, quindi, ad una età matura e con il tempo necessario per
la preparazione del noviziato e la preparazione spirituale riuscire ad arrivare ad
una specializzazione, nella quale bisogna ovviamente avere un certo livello di competenza.
Quando noi eravamo giovani di diciassette anni avevamo ancora tempo per tutta la formazione
religiosa e per specializzarci in diversi campi. Adesso è certamente più difficile.
Il mio pensiero è che, ovunque siamo, dobbiamo agire in profondità: che sia in una
parrocchia o in un altro lavoro pastorale, in un collegio di educazione primaria o
secondaria o in un centro di spiritualità, ovunque noi siamo dobbiamo andare in profondità.
Uno dei problemi più grandi della Chiesa, è quello della pastorale. Manca spesso la
profondità, manca la capacità di offrire ai laici possibilità per poter crescere.
Nella Compagnia pensiamo che questo richieda sempre un lavoro intellettuale, quello
cioè di andare alla frontiera della persona, al suo cuore, alla sua crescita, al dialogo
con la cultura e al modo in cui la cultura entra nella vita stessa dei cristiani.
Questo è un campo importante. Coloro che possono farlo devono entrare nell’educazione
terziaria, nell’università, e nell’università riuscire ad entrare in dialogo con i
rispettivi esperti del mondo secolare, per trovare un’umanizzazione della scienza,
nei diversi campi. Non possiamo fare grandi cose da soli, ma dobbiamo collegare le
diverse istituzioni del mondo, e così facendo potremmo avere risultati molto buoni.
Ci sono molte possibilità. È importante questo networking fra gesuiti e non gesuiti
e anche con altre Congregazioni, con i laici, con i gruppi di cattolici e non cattolici.
È stata anche sottolineata la necessità di collegare – si è usata la parola interface
- il lavoro intellettuale e la ricerca delle università da una parte e il lavoro sociale,
il lavoro pastorale dall’altra.
D. – Quanto l’ha
cambiata la sua lunga esperienza pastorale in Asia? E cosa può dare oggi l’Asia alla
Chiesa universale?
R. – Cosa ha cambiato in me la
mia esperienza in Asia? Io direi molte, molte cose e profondamente. Io non sono –
e questo è certamente personale – una persona che decide di fare una cosa e si impone.
A me piace entrare soavemente nella realtà. Quando sono arrivato in Giappone, mi sono
trovato abbastanza a mio agio, senza incontrare grandi difficoltà. Mi è piaciuto studiare
la lingua, la cultura giapponese e tutto il resto. Mi piace molto anche il cibo giapponese
e quindi non avevo grandi difficoltà. Piano piano ho notato che stavo cambiando e
questo lo notavano anche i miei amici in Spagna ai quali scrivevo. C’è stato un cambiamento
lento, ma totale. Il Giappone e il tipo di cultura giapponese sono stati paragonati
dagli antropologi ad un pantano: tutto entra, tutto viene assorbito, ma continua ad
essere sempre lo stesso pantano. È una cultura solida, che ha una longevità solida.
I giapponesi sono tolleranti, sono aperti e sanno che tutto viene digerito, assimilato
e alla fine è sempre lo stesso pantano, con gli stessi fiori e gli stessi alberi.
Credo che questo sia vero. Si tratta di un influsso soave. Cosa ha cambiato in me?
Forse il modo di vedere le altre persone, di relazionarmi con loro e nelle relazioni
essere meno esigente e più disponibile ad accettare, ad accettare l’altro così com’è,
relativizzando, quindi, molte cose date per scontate anche nella cultura internazionale.
Poi ho imparato il modo di servire la missione, il senso di umiltà.
Passiamo
alla seconda parte della domanda, che è certamente più difficile. Ci vorrebbe, infatti,
un po’ di tempo per riuscire a dare tutte le sfumature di questa questione: come può
contribuire l’Asia alla Chiesa universale? Come dicevo prima, anzitutto, in modo soave:
non deve essere tutto bianco o nero, forse è necessario un modo diverso di leggere
la Scrittura, forse è necessaria una lettura più contemplativa, una lettura del cuore,
forse è necessario un equilibrio diverso fra dottrina ed esperienza dello spirito.
Quello che mi ha fatto molto pensare in Giappone è vedere come il buddismo, come la
“pastorale” buddista, nei templi che ho visitato, consiste nel dare esperienza, insegnare
alla gente a riflettere, a meditare, a trovare se stessi. È un processo di grande
pratica spirituale. Ho incontrato anche molti italiani che sono andati in Giappone
per praticare lo Zen, perché in Italia non trovavano la pratica, ma soltanto le lezioni
teoriche. Questo è forse l’equilibrio più grande, il processo di crescita, di conoscenza
di se stessi, per crescere poi in Cristo e con Cristo. Questa sarebbe certamente una
cosa che la Chiesa potrebbe imparare dall’Asia. L’Asia è meno teorica, è più pratica,
è più “di crescita”.
D. – Quale ruolo possono avere
oggi i gesuiti per la missione della Chiesa in Cina?
R.
– A questo posso rispondere molto brevemente. Si può fare molto, ma si può definire
poco. Tutto dipende dalle possibilità che ci saranno aperte nel tempo. Ci sono gesuiti
che vorrebbero aiutare, ma è necessario comprendere dove e come poter collaborare.
In Asia la cosa più importante è essere specializzati in qualcosa, perché se si è
specializzati e veramente esperti in qualcosa tutti avranno bisogno di noi. Se non
si è esperti in niente, certo si potrà lavorare, ma sarà un lavoro meno efficace.
Per la Cina, credo che potrà essere così: la Cina cercherà degli esperti, non dei
missionari, ma degli esperti che possano aiutare questa Cina che sta crescendo. Per
questa via potremo collaborare.
D. – L’Africa è una
delle preferenze apostoliche globali indicate dalla Congregazione. Quali riflessioni
e linee d’azione avete elaborato?
R. – Dell’Africa
non abbiamo parlato molto, in realtà. Ma quello che è chiaro tra di noi è che la vogliamo
aiutare, e questa è una priorità già stabilita da padre Kolvenbach, mio predecessore.
Molti provinciali che sono venuti a Roma hanno parlato di questo, ma l’iniziativa
deve partire dall’Africa. È molto difficile definire, da Roma, di cosa essi possano
avere bisogno. E dall’Africa è stato già chiesto ai gesuiti di formare un’università,
e questo progetto è allo studio da due anni. Ci sono idee, ma non ancora realizzazioni
perché, come si sa, nel XXI secolo non è facile come nel XVI. È quindi un processo
in corso: gli africani che hanno partecipato alla Congregazione si sono riuniti per
due giorni subito dopo la Congregazione, proprio per riflettere su che cosa si possa
fare. Ci sono, infatti, problemi complessi. Ma quello che pensiamo noi, come Congregazione,
è che l’iniziativa deve partire dall’Africa.
D. –
Per che cosa lei ritiene che la trentacinquesima Congregazione generale potrà essere
specialmente ricordata?
R. – Nelle Congregazioni,
distinguiamo tra quelle in cui viene eletto il preposito generale e quelle in cui
non c’è elezione. Nelle Congregazioni in cui è prevista l’elezione del preposito generale,
gran parte delle energie viene investita nell’elezione, e c’è quindi meno discussione
su altri argomenti. Ecco il motivo per cui questa volta abbiamo affrontato in modo
approfondito soltanto cinque, sei argomenti, mentre nella Congregazione precedente,
alla fine, avevamo pubblicato ben ventisei documenti. È stato, quindi, un orientamento
diverso. In questa Congregazione, mi pare che l’aspetto più importante sia stato l’accento
sul nostro rapporto profondo con il Papa e con la Chiesa, con il centro della Chiesa,
potremmo dire. Con la Chiesa nel suo insieme: noi siamo sempre nella Chiesa; ma più
specificamente con il Papa e la Chiesa. Questo è stato un cammino molto sereno, gioioso
e l’udienza con Benedetto XVI ne è stata l’espressione. Ho visto che tutti ne sono
usciti molto felici: il Santo Padre è stato molto positivo, molto cordiale. E questo
è molto importante per noi, ci dà la sensazione di essere ancorati nella Chiesa e
al lavoro per la Chiesa. Poi, c’è anche la consapevolezza che, per poter
rendere questo servizio, abbiamo bisogno di grande flessibilità nelle nostre strutture.
Ecco perché una delle cose che la Congregazione mi ha chiesto è di rivedere le nostre
strutture, in modo che possiamo “servire” con maggiore flessibilità, più facilmente
e rispondere meglio alle istanze dei nostri tempi.
D.
– In Spagna, subito dopo la sua elezione, lei è stato definito il nuovo Arrupe. Che
cosa la unisce a questo suo predecessore e che cosa le lascia invece come eredità
il padre Kolvenbach?
R. – Non sono il nuovo Arrupe
né il nuovo Kolvenbach né altri, ognuno è chi è. Però Arrupe sicuramente mi ha influenzato,
già in quanto l’ho avuto come provinciale in Giappone. Quando ero in Giappone, infatti,
è stato mio provinciale per quasi quattro anni e poi generale. Quello che sempre mi
ha più impressionato di Arrupe non è quello che ha fatto - tutti fanno qualcosa -
ma la sua persona. Era una persona integra, molto consistente e coerente. Nonostante
le diversità di opinioni o di stile è stata sempre una persona che ha saputo dire
sì a ciò che è importante. Per me Arrupe e Sant’Ignazio si avvicinano molto, sono
due persone che quando dicono sì a Dio è sì, e quando dicono sì alla Chiesa è sì.
Arrupe non aveva condizioni, né ombre, si dava totalmente. Lo stesso avvenne quando
fu messo al servizio della Compagnia come generale, al servizio del popolo e dei poveri.
Quando Arrupe ha compreso che i poveri erano al centro del Vangelo - e non solamente
nel suo servizio come medico in occasione dello scoppio della bomba atomica – la sua
decisione nel riconoscere che i poveri sono al centro è stata totale. E poi un’altra
cosa che mi piace di Arrupe è che tutto questo lo faceva con molta allegria. Arrupe
era un uomo molto allegro e ottimista. Padre Kolvenbach è diverso, è un’altra persona.
È un intellettuale, un uomo più “riposato”. Quello che impressiona tutti è la saggezza.
È un uomo saggio, con un grande giudizio, sa vedere le cose, le capisce molto bene
subito, ha una struttura mentale molto solida e forte, e al tempo stesso una grande
calma, una calma interiore. E poi ha saputo consolidare con successo tutto il bene
che c’era nella Compagnia, l’eredità che gli aveva lasciato Arrupe. E infine, aveva
un grande senso dello humour. Arrupe era un uomo allegro, Kolvenbach era un uomo di
spirito e questo lo ha aiutato a mantenere la calma. Quando si vive la vita con spirito,
si possono fare molte cose.