Prima chiesa cattolica in Qatar. Mons. Hinder racconta la gioia dei cattolici
La piccola comunità cattolica del Qatar si appresta a vivere con gioia la consacrazione,
domani a Doha, della prima chiesa nell’emirato. A presiedere il rito della chiesa
di Saint Mary sarà il cardinale Ivan Dias, prefetto della Congregazione per l’Evangelizzazione
dei Popoli. Un evento di portata storica, ha sottolineato l’associazione “Aiuto alla
Chiesa che Soffre”, che ha contribuito alla costruzione. Da 14 secoli, infatti, i
cristiani non avevano un luogo di culto in questo territorio. Nel 2002, il governo
del Qatar ha stretto relazioni diplomatiche con la Santa Sede e tre anni dopo l’emiro
Hamad bin Khalifa Al Thani ha donato alla Chiesa un terreno per la costruzione di
un edificio di culto. Per una riflessione sull’importanza di questo evento, Alessandro
Gisotti ha intervistato il vicario apostolico d’Arabia, il vescovo Paul Hinder:
R. –
Evidentemente, questo evento è stato atteso con ansia dai nostri cattolici, che da
lungo tempo speravano di avere un luogo dove svolgere le loro cerimonie e riunirsi
in sicurezza e con dignità. Per loro, è come trovare una casa, una patria in terra
straniera.
D. – Mons. Hinder, chi sono oggi i cristiani
del Qatar? Come vivono la propria fede in un contesto non sempre facile?
R.
– Prima di tutto, sono tutti stranieri; provengono soprattutto dalle Filippine, dall’India
e da circa altri 100 Paesi del mondo. Finora hanno potuto esercitare soltanto in misura
limitata la loro pratica religiosa nella vita pubblica; c’erano luoghi che noi avevamo
preso in affitto, ma erano veramente provvisori e qualche volta poco dignitosi. Questa
gente è di una devozione, di una fede così profonda che io ammiro anche per il contesto
nel quale vivono, perché la stragrande maggioranza di loro è gente semplice che lavora
nei cantieri, nei negozi, negli alberghi ...
D. –
Come la comunità musulmana ha accolto la costruzione di questa chiesa in Qatar?
R.
– C’è sempre qualcuno che non è d’accordo, che trova che il Paese sia stato troppo
generoso. Però io ho l’impressione che gran parte della popolazione, anche locale,
comprende in linea di principio ed è d’accordo che le persone che vengono nel Paese,
che lavorano per il benessere del Paese, devono anche avere la possibilità di esercitare
in modo degno la loro fede. Evidentemente, ci sono condizioni che valgono anche in
altri Paesi della nostra area: segni espliciti della nostra fede come una croce o
le statue, non devono essere visibili da fuori. Però, all’interno siamo liberi di
fare tutto ciò che fa parte di una Chiesa.
D. – Ecco,
anche alla luce di questo evento in Qatar, quali sono le sue aspettative su un raggiungimento
di una piena libertà religiosa per i cristiani in un Paese a maggioranza islamica?
R.
– Io credo che tutto sia un po’ connesso con lo sviluppo generale della zona. Evidentemente,
lì ci sono delle ansie, delle pressioni. E mi sembra che ciò sia anche legato alla
situazione politica globale, reale o immaginaria. Eventi come il conflitto non risolto
in Palestina o la situazione in Iraq hanno direttamente o indirettamente un influsso
anche sul discorso della libertà religiosa.