La preoccupazione di Benedetto XVI per la sorte di mons. Rahho, arcivescovo di Mossul
dei Caldei: intervista con don Renato Sacco
All’Angelus di ieri, il Papa ha riportato l’attenzione sulla drammatica situazione
irachena, esprimendo preoccupazione “per la sorte di mons. Rahho", rapito il 29 febbraio
scorso da un commando armato a Mossul, "e di tanti civili che continuano a subire
una violenza cieca ed assurda, certamente contraria ai voleri di Dio”. Per chiedere
la liberazione del presule, si è tenuto a Baghdad un incontro ecumenico, al quale
hanno partecipato i rappresentanti della Chiesa cristiana irachena. Resta, dunque,
alta la preoccupazione per la sorte di mons. Rahho, anche perché i rapitori non gli
hanno mai permesso di parlare al telefono con chi sta conducendo le trattative, malgrado
esplicite richieste in tal senso. Sulla situazione, Giancarlo La Vella ha sentito
don Renato Sacco, di Pax Christi, da poco rientrato da una missione in Iraq:
R. -
Continuo quotidianamente ad essere in contatto con tanti amici, in modo particolare
con il vescovo di Kirkuk e con altre persone che ci chiedono di non essere dimenticate.
E’ una situazione di grande fatica, di grande preoccupazione, ma mi sembra di sentire
in loro delle persone che non perdono la speranza. Per questo, abbiamo bisogno di
sostenere la loro grande preoccupazione, ma anche la loro altrettanto grande speranza.
D. - E’ importante che se ne parli...
R.
- Sì, un’amarezza che mi sembra di sentire a volte anche in loro è quella per cui
dovremmo forse chiedere che tutti i cristiani, tutti i parroci, tutti i vescovi, ricordino
questa situazione, perchè il silenzio non serve. Non ci interessa sapere - diceva
il vescovo Casmussa - chi e perché è stato rapito: ci interessa la sua liberazione.
Non lasciamo solo l’Iraq e il vescovo rapito, ma vorrei dire anche: non lasciamo neanche
solo il Papa.
D. - Benedetto XVI ha esteso la sua
preoccupazione anche a tutti coloro che subiscono violenze in Iraq. Voi siete appena
rientrati da una missione. Qual è la situazione nel Paese del Golfo?
R.
- E’ una situazione particolare e diversificata. Forse, per il fatto di essere minoranza,
forse perché i cristiani credono nel perdono, nella riconciliazione, nella non violenza
- perché il cristianesimo è davvero qualcosa di grande e di profetico nella figura
di Gesù - si stanno vivendo situazioni faticose. Penso anche ai Paesi limitrofi al
Golfo, chiamati ad accogliere i cristiani: il Libano, la Siria, la Giordania, la Turchia.
Credo ci aiuti a vivere la Quaresima il fatto di sapere che tante persone la stiano
vivendo sul serio. Dobbiamo essere grati al Papa che ci aiuta ad uscire dal nostro
"orticello" e a guardare davvero al cammino faticoso percorso da tanti cristiani nel
mondo e oggi, in particolare, proprio nella zona mediorientale.
D.
- Perché si colpisce proprio la comunità cristiana in Iraq?
R.
- Qualcuno dice che, in quanto cristiani, si diventa vittime di un fondamentalismo
islamico presente anche se non così diffuso. L’altro motivo è perché la comunità cristiana
è una minoranza. Quando sono in atto scontri di potere, di spartizione, si va verso
un Iraq diviso in tre Stati. I cristiani non hanno un esercito, non combattono nell’economia,
non cercano il potere e quindi, insieme ad una forma di persecuzione religiosa, c’è
una persecuzione in quanto minoranza, che rischia però di segnare il futuro del Paese.
Credo che dall’esito di questo rapimento possa davvero dipendere la vita delle comunità
cristiane in tutto l’Iraq.