Accogliere la vita sofferente nella sua integralità: all’indomani della chiusura
del Congresso della Pontificia Accademia per la Vita sul malato morente, la riflessione
del prof. Pessina e la testimonianza del dott. Sanna
Chiude oggi la tre giorni di lavori della XIV assemblea plenaria della Pontificia
Accademia per la Vita. L’assise è stata accompagnata da un Congresso internazionale
sul tema “Accanto al malato inguaribile e al morente”. Momento culminante dell’evento,
l’udienza del Papa ai congressisti, lunedì scorso. Benedetto XVI ha ribadito che una
società incapace di accogliere con amore i sofferenti è una società disumana. Sui
temi affrontati dal Papa, Fabio Colagrande ha raccolto la riflessione del prof.
Adriano Pessina, direttore del Centro di Bioetica all’Università Cattolica del
Sacro Cuore di Milano:
R. -
Il discorso del Santo Padre è stato, come sempre, di grande respiro umano ed anche
di una grande lucidità intellettuale, perché ha delineato la fatica dell’accogliere
la vita, laddove la vita si sta spegnendo e, quindi, la necessità di riempire la solitudine
delle persone che si accostano all’ultimo passaggio. Benedetto XVI ha ricordato, con
grande chiarezza, la dimensione della fede cristiana che vede nella morte un passaggio
ed un ritorno nell’amore misericordioso di Dio, ma ha anche richiamato, allo stesso
tempo, ad una responsabilità umana di chi non riconosce questa verità, di essere accanto
a coloro che stanno per morire. Un grande insegnamento, quindi, sulla consapevolezza
del valore - direi - della finitezza umana.
D. -
Benedetto XVI ha toccato anche il tema delicato del dovere morale di somministrare
da parte dei medici e di accogliere da parte del paziente quei mezzi di preservazione
della vita, che nella situazione concreta risultino ordinari e, dall’altra parte,
ha invece parlato delle terapie rischiose spiegando che il ricorso ad esse sarà da
considerare moralmente lecito, ma facoltativo…
R.
- Direi che il Santo Padre ha confermato, nelle sue linee generali, il pensiero, che
non è solo peraltro il pensiero della Chiesa. Un pensiero che sta sempre di più diventando
concreto. In un’epoca in cui la tecnologia può molto sulla nostra dimensione finale,
occorre trovare un equilibrio. Un equilibrio che metta al centro la persona umana
nella sua singolarità e - direi - che questi giorni di studio della Pontificia Accademia
dovrebbero aiutarci a comprendere, in qualche modo, quali sono gli elementi in gioco
in una assistenza che non deve finire o in un abbandono terapeutico o in una sorta
di tragica scorciatoia che è il procurare o l’anticipare la morte delle persone. Siamo
in un’epoca in cui possiamo e dobbiamo permetterci il dovere di accogliere la vita
sofferente e di usare i mezzi più adeguati che abbiamo. Questo comporta, ovviamente,
tutto uno sforzo di riflessione a tutto campo.
Dal Papa arriva dunque
l’invito a guardare la persona sofferente nella sua globalità abbracciando tutte le
sue esigenze, fisiche, emozionali e spirituali. Proprio questo è il principio che
ispira l’attività del Centro di cura e riabilitazione Santa Maria Bambina di Oristano,
promosso dalla Fondazione diocesana “Nostra Signora del Rimedio”. Una struttura all’avanguardia
che, in 5 anni, ha assistito 1500 pazienti affetti da gravi cerebrolesioni e 500 in
stato di coma. Per una testimonianza su questa esperienza, Alessandro Gisotti
ha intervistato il dott. Giovanni Maria Sanna, direttore del Centro di Oristano:
R. -
La nostra opera consiste nel vedere queste persone in modo globale e con una dignità
tale che non può che essere l’immagine stessa del Cristo. Noi ci avviciniamo a queste
persone, cercando di aiutarle per quello che è possibile. E’ possibile aiutarle a
guarire? Allora facciamo in modo di dar loro tutto ciò che è necessario perché possano
guarire. Altrimenti, cerchiamo di accompagnarli alla morte facendogli conoscere cosa
è Gesù Cristo e cosa li può attendere dopo la morte.
D.
- Dunque, lo spirito che anima il centro di cura e di riabilitazione è di rifiutare
radicalmente l’eutanasia, ma anche l’accanimento terapeutico?
R.
- E non soltanto l’eutanasia attiva. Non c’è infatti soltanto quell’eutanasia, ma
c’è anche una eutanasia passiva, che è quella di non curarsi oppure di curarsi solo
di una parte della persona, di risolvere un solo problema. La persona è integra sia
nella sua parte corporale che nella sua spirituale. Questo è ciò che noi vogliamo
fare: vogliamo creare un ambiente intorno che faccia sentire la persona come tale.
Una persona, per definizione, non è soltanto l’ammalato, ma è la persona sofferente.
Quando c’è un ragazzo in coma, perché ha avuto un incidente stradale, la sofferenza
è triplice: c’è l’ammalato, ci sono i suoi familiari, ci sono i suoi amici. A tutti
questi noi dobbiamo fare attenzione nella nostra opera quotidiana.
D.
- Tra l’altro, il Papa proprio parlando all’Accademia per la Vita ha sottolineato
- riprendendo delle parole di Madre Teresa - che nessuno dovrebbe mai morire da solo,
abbandonato a se stesso. E’ anche questa la vostra esperienza?
R.
- Esatto, è proprio questa la nostra esperienza. Il centro di cura e riabilitazione
Santa Maria Bambina sta facendo uno sforzo affinché la persona non sia soltanto l’ammalato,
ma sia persona anche il familiare. Venga cioè aiutato anche il familiare. Il malato
grave, che viva o che muoia, è importante che abbia il familiare vicino, che abbia
gli amici vicini. E’ necessario creare un ambiente umano intorno alla persona sofferente.
Questa è per me la vera visione globale dell’uomo. Non può esserci soltanto una visione
materialistica.