Morto a Tokyo all’eta’ di 92 anni il regista giapponese Kon Ichikawa, autore pluripremiato
di capolavori della cinematografia mondiale
E’ attraverso il Lido di Venezia e le porte culturalmente aperte della sua Mostra
d’Arte Cinematografica che il cinema giapponese entra nei mercati e nelle cineteche
dell’Occidente. Era il 1951 quando Akira Kurosawa vinse un Leone d’Oro con il suo
Rashōmon; era il 1956 quando Kon Ichikawa non vinse, invece, il Leone d’Oro – non
assegnato quell’anno da parte di una giuria presieduta da Luchino Visconti, che non
capì o non volle capire – per un capolavoro divenuto poi pietra miliare del cinema
mondiale ispirato e pacifista, L’arpa birmana. Lunga meditazione sulla guerra e i
suoi orrori, sulla condizione umana sempre sospesa tra vita e morte, “opera pervasa
– nota Gianni Rondolino – da un profondo spirito religioso, realizzata con uno stile
scarno, in cui personaggi e paesaggi paiono fondersi in una visione panteistica dell’esistenza”.
Ichikawa, per quelle strane alchimie dello spirito e dell’arte, non è stato più dimenticato
proprio e soprattutto per quel titolo simbolo che si impone su tutta la sua pur ricca
filmografia, forte di circa ottanta opere pensate e girate a partire dal 1945 e pochissime
delle quali circolate nelle nostre sale. Forse perché legato molto alla letteratura
del suo paese – Mishima e Tanizaki per citare i più famosi –, o a modi e stili ai
quali la nostra cultura talvolta generica e frettolosa si era fatta e si fa refrattaria.
Ichikawa rimane un poeta della pellicola, sia che si immerga, come all’inizio della
sua carriera, nelle commedie, sia che affronti denunce, storie di passioni, racconti
epici ed anche, caso singolare, la stessa realtà con i documentari: famoso quello
dedicato alle Olimpiadi di Tokyo del 1965 e originale la coppia formata da Kyoto del
1969 e da Giappone e il Giapponese, quest’ultimo girato in occasione dell’esposizione
universale di Osaka dell’anno seguente. Tutte visioni, in fondo, imbevute di quella
sapienza di tempi e silenzi e spessori che il cinema giapponese d’allora insegnò ai
suoi contemporanei. I personaggi dei film di Ichikawa costruiscono lentamente la loro
identità, come il soldato Tamura in Fuochi sulla pianura o il più famoso Mizushima
ne L’arpa birmana, che intraprende un percorso di risveglio spirituale attraversando
le nefandezze della guerra e approdando ad una nuova missione ed identità. L’orizzonte
è sovranamente ampio, amplissimo, mai angusto e personalistico. Quasi ossessionato
da questo orizzonte e da un fatalismo soffuso e irrimediabile, Ichikawa trasforma
in metafora tutta l’esistenza umana, che lenta e inarrestabile scorre come i tempi
dei suoi film. (A cura di Luca Pellegrini)